Vi racconto un episodio curioso tutto crotonese

Mi è capitato un episodio curioso stamattina, mentre cercavo di capire come riprendere a far funzionare questo blog. Ho preso una pausa dalla scrittura perché avevo altre cose da fare, e negli ultimi tempi stavo molto riflettendo. Purtroppo è difficile scrivere quando sai che la lettura non è una cosa importante nel paese dove vivi.

Crotone è un posto dove la lettura, intesa come tale, non è una grossa prerogativa, anche se a onor del vero vedo ragazzi leggere. Basta vedere come le librerie (poche) riescono a vendere bene i cosiddetti manga. Ma questo non è un articolo sui manga.

Crotone è una ridente cittadina che ama vestire i panni della metropoli senza nemmeno esserlo. Non nascondo di vivere qualche problema culturale, ma chi è che non li vive oggi?

Sono assente da qui da parecchio tempo. Ho perso, costruttivamente, tempo a fare lo speaker su Facebook in modo preponderante. Ed è stato un esperimento fondamentale che mi ha creato molti nemici.

E già. Perché quando provi a raccontare la realtà, sembra che bisogna essere tifosi per forza di qualcosa o di qualcuno. Fare il tifo per il buonsenso è qualcosa di non totalmente obiettivo qui a Crotone. Ma tant’è che in qualche modo, da sempre in posti come Crotone, raccontare dà fastidio eccome.

Avrei potuto prendere lo smartphone e raccontare l’accaduto. Ma preferisco scriverlo. Adoro scrivere, anche se non sembra. Però scrivo. E adesso ritorno a farlo, con più lucidità.

Stamane incontro Mimmo, un parrucchiere di vecchia data. Mi rimprovera perché mi devo fare i fatti miei, perché devo stare zitto e fare in modo di tenere bassa la testa. Lo dice convinto, e afferma inoltre che ha visto un mio video dove criticavo l’amministrazione comunale che non si prendeva cura della parte inferiore di Viale Regina Margherita, dove ci stanno giardini un pochino mal messi, e un piccolo immobile deposito di biciclette (il famoso bike sharing) fermo da tempo, con tanto di biciclette lasciate all’abbandono e in balia della ruggine. Biciclette pagate con soldi pubblici, e man mano che il tempo passa il rimetterle a posto sarà lievitato nei costi.

Ma non finisce qui. Sembra che io ce l’abbia con l’assessore, che non mi devo permettere di criticare l’assessore. E che mi metterò nei guai perché non mi faccio gli affari miei.

L’ho guardato. E ho capito come sta male la gente a livello psicologico e di come il degrado sia talmente profondo nella città di Crotone che ormai è diventato un delitto dire pubblicamente che ci sono biciclette, comprate con soldi pubblici, lasciate all’abbandono. Diventa un delitto sperare che un buon progetto possa rivivere perché fattibile.

Bene, Mimmo, se a te piace essere mangiato dal degrado è un affare tuo. Ma siccome vivo in una città che è attualmente una bella donna truccata male, allora senza chiedere miracoli prego l’attenzione almeno sulle piccole cose. E non smetterò mai di farlo. Altrimenti si ritorna a commettere sempre lo stesso tipo di errore che purtroppo rende Crotone una maglia nera in senso della qualità della vita.

Dopo l’acceso confronto con il depresso Mimmo che non ha nulla da chiedere alla vita, allora mi sono fatto un piccolo esame di coscienza. Sul ruolo del narratore di una cittadina come Crotone. Serve effettivamente?

Sì, serve. Perché non si può vivere in una finzione eterna autoconvincendoci di stare nella città più bella e più sana al mondo. Questo tipo di racconto va bene a chi se ne approfitta e va bene a chi si arrende facilmente. Questo tipo di racconto va bene ai fancazzisti (e ce ne stanno). Questo tipo di racconto non gioverà all’immagine di Crotone, perché poi si nota quando una donna è truccata bene oppure no.

Purtroppo per Mimmo e per altri, mi sa che ritorno a scrivere, pure più di prima se serve. Perché in fondo è anche colpa di qualche personcina se alla fine mi riduco a scrivere quello che osservo e quel che ascolto.

Grazie, Crotone.

Un ultimo appunto: io voglio vedere una Crotone più bella. Non sono il solo a pensarla in questo modo. E per renderla ancora più bella bisogna prendere cura soprattutto delle cose più piccole. Ed è sempre bene ricordarlo a un’amministrazione comunale. Non si tratta di una critica, ma di uno stimolo, che oggi più che mai serve.

Aurélien Facente, 19 giugno 2021

Vincerà sempre il desiderio di normalità sul virus

Potevo sprecare parole sulla tastiera per quanto riguarda il racconto del virus che opprime l’Italia, quel Coronavirus che è più presente nei media piuttosto che nella realtà. Non preoccupatevi, non nego l’esistenza di una malattia. Semmai combatto contro l’onnipresenza mediatica che non è l’antidoto al virus, ma una tortura psicologica continua.

La tv sostiene che la lotta alla pandemia sia costituita da una strana alleanza tra politica e medicina, che nell’insieme decidono di chiudere il mondo come se questo solamente potesse servire per liberarci da un virus ostico.

Purtroppo i media da tempo hanno rinunciato a raccontare l’umanità, soprattutto in Italia.

Nel blog di oggi vi voglio far vedere tre scatti presi stamane a mare. Tre scene sequenziali.

Stamattina è una bella giornata. Esco ogni mattina per andare sulla spiaggia con il cane, e uso spesso lo smartphone. Lo considero uno strumento essenziale almeno per un diario d’immagini da guardare poi con calma. Ho fotografato queste scene, tenendo conto della privacy dei soggetti, presi in lontananza e mai in volto scoperto.

Poi con calma ho rivisto le foto con attenzione. Ho visto il comportamento delle persone.

L’essere umano è un essere naturale. Fa parte del regno animale. Non è una pianta o un metallo. Si tratta di un essere vivente che nasce, cresce, vive, si realizza, invecchia e muore.

Si muore. Verità che non si può controbattere.

Ma c’è una altra verità.

Si vive anche. E l’essere umano in vita andrà sempre alla ricerca di un posto dove vivere, crescere, realizzarsi, e magari starsi fermo solo a stare a contatto con la natura. Lo fa da sempre. Una legge della natura e della vita.

Stamane ho avuto modo di vedere le persone sulla spiaggia. E il loro modo di vivere la spiaggia mi ha dato la risposta che cercavo, che ho sempre saputo, e che ciclicamente si ripete nelle catastrofi naturali.

C’è una cosa che un virus non può battere. Così come non lo potrà mai fare la politica, e nemmeno gli scienziati chiusuristi del Covid-19.

Il richiamo della natura.

L’essere umano seguirà la sua natura. Lo farà d’istinto in modo inevitabile. L’essere umano aspetta, ma non ha il dono per aspettare in eterno. Il bisogno di vivere prenderà il sopravvento. Non lo fermerà la medicina, non lo fermerà la politica, non lo fermerà la legge, non lo fermeranno le chiacchiere su Facebook. Piaccia o meno, l’esistenza riprenderà il suo cammino.

E quando l’esistenza riprende il suo cammino, sa che lo farà pur sapendo che ci sono morti e malati.

Non è una questione di puro egoismo.

Si tratta di un meccanismo naturale. Crudele forse, ma naturale.

Perché un nonno vorrà sempre passare un po’ di tempo con suo nipote, perché un bambino vorrà trovare uno spazio per correre, perché due persone che si amano magari rallentano ma alla fine vorranno stare insieme, perché dietro il sacrificio deve esserci una speranza… Ma se la speranza viene disattesa, allora il sacrificio verte su altro.

Stamane ho visto scene di vita.

Pura e semplice vita.

E sarà la vita a battere il virus.

La storia della natura ce lo insegna, anche se molti negheranno questo aspetto perché preferiscono continuare ad avere paura, desiderando che altri provino la stessa cosa. Peccato che poi i fatti non si presenteranno tali nel tempo che verrà.

Testo e foto di Aurélien Facente, 4 marzo 2021

Corrado Augias e i Misteri della Calabria (Lettera aperta)

Dottor Augias, mi permetto di presentarmi. Mi chiamo Aurélien Facente. Abito a Crotone, Calabria. Mi definisco ex giornalista perché non credo che il giornalismo oggi possa definirsi giornalismo. Si tratta di qualcos’altro che umilia il senso dell’essere giornalista, e ci tengo a farLe sapere che questa resta una mia opinione personale perché ritengo che non cambierà nulla.

   Dottor Augias, Le aggiungo che sono un acquirente dei Suoi Libri, tanto che ad ogni uscita ne regalo un esemplare a mia madre, che la segue dai tempi di Babele, la trasmissione che difendeva e divulgava il libro. Altri tempi, vero?

   Ho avuto modo di ascoltare la sua intervista pepata, e di leggerne le parole. Tra il dire e lo scritto ci sono differenze sostanziali, ma il succo è quello.

   Lei definisce la Calabria una terra persa. Lei ha sentenziato sparando su una terra che si trova nel baratro della fragilità da decenni, eppure lei ha speso le sue parole aggiungendo una bella sceneggiatura cinematografica.

   E mi permetto di usare tale tono, dottor Augias, perché in Calabria ho scelto di viverci, oltre che obbligato. E se permette, credo di conoscerla meglio proprio perché ci vivo.

   La Calabria è una terra dai molteplici aspetti. Lei, dall’alto del suo ruolo, la vede come una terra povera, dove tra l’altro la criminalità è all’ordine del giorno. Ci condanna perché la Calabria ha preferito eleggere, attraverso un voto democratico e certificato, una persona che poi è deceduta a dispetto di un imprenditore di grosso valore, che però poi si è dimesso dall’essere capo di un’opposizione che poteva essere alquanto costruttiva.

  

Partiamo da questa storia, dottor Augias.

   Il centrodestra vinse le elezioni regionali, ma con il 56% di astensionimo.

   Non mi sembra che con questi numeri il centrosinistra capitanato dal suo imprenditore abbia fatto miracoli.

   Anzi, dopo qualche mese si è addirittura dimesso. E non sembra che qualcuno del centrosinistra si sia opposto in maniera dura.

   Non parlo di altri contendenti, perché non sono entrati nel Consiglio Regionale.

   Dottor Augias, parliamo di quel 56% di astensionismo. Siamo una terra persa perché abbiamo rinunciato a votare? Beh, sì. Ma sa perché il calabrese non vota? Per superficialità? Io direi che per decenni sacche di politica nazionale hanno ingannato le speranze dei calabresi, sacche di sinistra e sacche di destra.

   La Calabria ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile, perciò produce emigranti, che poi vanno a sistemarsi da Roma in su se decidono di stare in Italia. Devono trovare un lavoro come si suol dire, e non sempre, anzi spesso, si tratta di un lavoro stabile. Certo, c’è gente che si distingue anche bene a livello professionale. Abbiamo medici, ingegneri, avvocati e anche artisti che nel mondo fanno la differenza.

   Ma chi è rimasto qui non è solo un criminale. Semmai è nato in un sistema ipocritamente alimentato anche dalla sua amata politica dei diritti.

   Vede, dottor Augias, ho 40 anni superati. Diciamo che, tolta la fase liceale della politica dove si è più sognatori, ho saggiato con mano quello che la politica degli ultimi 25 anni è riuscita a fare ai danni della Calabria, in tutti i settori tra l’altro.

   Quando chiedevamo più medicina di qualità, ci hanno lasciato con il minimo indispensabile (secondo loro). Quando chiedevamo più studio, qui sono stati capaci di chiudere plessi scolastici e universitari. Quando chiedevamo più lavoro, ci hanno mandato la precarizzazione del lavoro con annessi sciacalli che si sono mangiati i contributi dello Stato. Uno Stato che non ha saputo essere Stato.

   E quando le sacche di povertà aumentano, caro dottor Augias, anche le sacche criminali aumentano.

   Ma in Calabria ci sono anche le brave persone, quelle vorrebbero farsi il mazzo fino a prendersi frustate sulla schiena solo per dimostrare di essere degni di essere calabresi, e che qui delle buone cose si potrebbero fare eccome.

   Queste persone meriterebbero quantomeno il Rispetto con la R maiuscola. Perché ci sono persone che hanno avviato il loro Lavoro cercando di essere il più Utile possibile alla società. Cercano di dare un segnale di positività e un esempio alle generazioni che potrebbero e dovrebbero migliorare la loro Terra.

   La Calabria è una terra strana, dottor Augias. Ricca di cultura da vendere, ma strapiena di gente che non è stata fatta crescere per come dovrebbe essere. Certo, ci considerate “persi”. Ma questo lo hanno voluto quelli di Roma, o meglio quelli che stanno a Roma a occupare poltrone. Non lo hanno mica voluto i calabresi.

   Anzi, i calabresi sono doppiamente vittime. Diciamo tre volte vittime.

   Vittime della ‘ndrangheta, perché la criminalità si è sostituita dove lo Stato non c’era o non voleva farsi vedere.

   Vittime dello Stato, perché degni rappresentanti nazionali venivano qui solo per i voti e basta. Ci avevano promesso che alcune industrie avrebbero continuato la loro attività, ma adesso ci sono gli scheletri. Certo, lo Stato non si può occupare di tutto, ma qui lo Stato non pensa, caro dottor Augias. E noto che il problema non è solo calabrese e basta.

   Poi siamo Vittime di Noi stessi. Vero. La nostra diffidenza ci ha portato a non votare più come prima. Non le elenco i perché solo per il fatto che ci servirebbe un libro a parte. Un libro che potrebbe scrivere lei, dottor Augias. Ma che non farà, perché una Persona del Suo Calibro Culturale non potrebbe scendere in Calabria per qualche periodo solo per provare a raccontare quello che c’è di buono dal quale ripartire.

   Lei ha tutta la cultura per esprimere un giudizio sulla Calabria, caro dottor Augias. Grazie di averci condannato. Ma non è della condanna di cui abbiamo bisogno.

   Abbiamo bisogno di qualcosa di più positivo.

   Abbiamo esempi positivi, sa?

   Abbiamo il Procuratore Gratteri, giusto per citare il più discusso. Ma il suo è un lavoro lungo e solitario. Abbiamo qualche scrittore, qualche musicista, qualche imprenditore, anche un premio Oscar. Abbiamo borghi bellissimi e templi da raccontare. Abbiamo ristoratori che danno lezioni a tutto il mondo nella cucina che producono. Abbiamo gente che riesce a dare il massimo pur avendo pochissimo.

   Però siamo una Terra Persa.

   Le faccio una domanda, dottor Augias, perché lei l’ha presa dal punto di vista politico. Si metta nei panni di un calabrese qualsiasi. Magari un tipo che possiede una piccola pompa di benzina sulla Statale 106. Si presentano alla sua pompa decine di candidati, di destra e di sinistra. Tutti a fare delle promesse che potrebbero essere mantenute. Uno sviluppo migliore della Statale 106, un aeroporto da realizzare non lontano dalla pompa di benzina, magari anche un porto, o anche riprendere la stazione dei treni nel paesino dove vive il benzinaio. Magari gli promettono anche un ospedale che per adesso è piccolo, ma che crescerà. Magari promettono anche investimenti mirati per avviare un’economia, così magari i figli possono pensare di potersi fare una vita nel paesino.

   Eppure gli anni passano, i candidati cambiano, e le promesse svaniscono nel nulla.

   E secondo lei, quel benzinaio ormai anziano, perché dovrebbe credere all’ennesimo candidato che si presenterà alla pompa di benzina’

   Sa, dottor Augias, la Sua Profonda Cultura è eccellente, ma la vita è anche fatta di queste storie. Da queste persone che smettono di illudersi e nel credere nei fantasmi.

   Io rispetto le sue Idee Politiche, caro dottor Augias. Ma qui queste idee sono state delle maschere usate per fare propaganda e basta il più delle volte.

   Ecco perché il suo imprenditore ha perso le elezioni. Perché non si vota una persona perché ha la sua storia imprenditoriale. Si vota una persona perché ama la sua terra. Quell’imprenditore ama la sua terra, ma anche la donna di destra amava la sua terra. Questa donna ha avuto pochi mesi per esprimersi per poi andare tra le braccia del silenzio. Nonostante avesse un male, si era messa a disposizione e voleva prendersi cura di questa terra. Certo, aveva le sue idee. Ma erano idee sulle quali si poteva quantomeno discuterne. E anche questa signora mi ha dato l’impressione che fosse sola, così come lo sono quelli che amano la loro Terra prima di tutto. Mi dispiace che lei, dottor Augias, veda il fantasma del fascismo nelle persone che abbraccino un’idea diversa. E se non è fascismo, diventa ‘ndrangheta, e se non è ‘ndrangheta diventa qualcos’altro di negativo.

   Bene, dottor Augias, io non mi ritengo offeso se in onda nazionale si parla della Calabria, anche nei suoi aspetti negativi. La Calabria è una parte fondamentale dell’Italia che produce, viste le migliaia di persone che sono state le mani sporche dell’Italia industriale e gloriosa che si è fatta valere nell’eccellenza.

   Ma è facile sentenziare da dietro uno schermo televisivo, dottor Augias.

   Mi permetto di rivolgermi così a Lei, dottor Augias, perché c’è stato un tempo che io ho odiato la mia Terra. E quell’odio si comportava come un fantasma. Mi annebbiava la vista. E ho perso tempo per lavorare a contrastare quest’odio.

   Critico la mia terra ancora oggi. Ma non la critico, condannando e basta. Cerco di farlo raccontando e proponendo una testimonianza non ipocrita, perché il lavoro da fare e tanto. Come il sottoscritto, c’è una voglia anche da parte di altri di raccontare per poi provare a ripartire e trovare nuove direzioni. I calabresi hanno bisogno che qualcuno li racconti, ma che non sia uno che li racconti da dietro uno schermo televisivo.

   Perciò la sfido in senso letterario, dottor Augias.

   Si prenda un periodo per scendere in Calabria. La venga a visitare. La racconti per quello che è. La osservi da vicino. Cerchi di sentirne gli odori. E ovviamente si faccia accompagnare dai colori della Terra di Calabria. Venga a respirarne l’aria. Si faccia un giro, magari incontrando tante persone. Venga a comprendere il male e venga a scoprirne il bene. Nessuno di noi è immune da difetti, ma qui c’è voglia di migliorare. Poi magari ne scrive un libro, e noi lo compreremo. E lo leggeremo e lo racconteremo.

   Ma ci faccia un favore.

   Non sentenzi sulla Calabria dentro una trasmissione televisiva. Non lo faccia.

   Perché la stragrande maggioranza di chi va in televisione non ha mai avuto il coraggio di raccontare la vera Calabria.

   Ovviamente le invio i miei apprezzamenti, aspettando con ansia il Suo Nuovo Libro in libreria.

Aurélien Facente, 24 gennaio 2021

Una lettera inaspettata da uno che faceva il bullo…

Nel 2016, via mail, mi ègiunse questa lunga lettera. Ve la propongo perché l’autore ci teneva tantissimo a scrivermi, ma soprattutto a divulgare il suo pensiero. Dopo una lunga telefonata che lui ebbe con me per convincermi, mi convinsi a pubblicarla e a trasmetterla. Alla fine di questa lettera, troverete la mia risposta. E oggi la ripubblico volentieri.

Aurélien Facente è nato a Crotone, e per via del suo nome francese e del suo aspetto non propriamente fico (o figo) è stato vittima di bullismo. Con l’avvento dei social network, Aurélien ha dimostrato di essere una persona che esiste e che nel tempo si è costruito qualche capacità, come quella fotografica, che gli hanno permesso di affrontare al meglio le avversità: mentre gli altri parlavano male di lui, Aurélien in silenzio affinava e studiava. Poi un giorno è uscito fuori, e la gente ha cominciato a scoprire che è un buon fotografo, che sa scrivere, che prova a fare video, ma che soprattutto non è l’imbecille che molti suoi compaesani crotonesi sostenevano. Ho visto i suoi tanti contenuti, e nella Crotone che lui fotografa vedi che vuole trasmettere bellezza, ma soprattutto testimoniare le capacità di persone valide che vogliono fare la differenza in questo modo. Certo, Aurélien ha i suoi difetti, ma non li nega. Magari ti puoi scontrare con lui, lo puoi prendere come uno che non ascolta, come un testardo. Ma è la stessa persona che pretende il meglio dagli altri, che pretende di fotografare il meglio. Ho visto tante sue foto, tanti suoi attimi, tanta vita, e tanta cultura. Non è facile conoscerlo perché è tante cose. Aurélien è indubbiamente figlio delle sue sofferenze, ma continua a camminare cercando di dare il meglio di sé, anche sbagliando a volte ma sempre pronto per darti quella foto giusta che ti permette di essere te stesso. Si raccontano tante cose su di lui a Crotone, e molte sono sbagliate.  Anche io sbagliavo a vederlo con la bocca degli altri. Un pomeriggio, andai a vedere otto foto esposte in un bar. Una serie di paesaggi con gabbiani e il mare della mia Crotone. Io amo Crotone, ma sono fuggito da questa realtà 20 anni fa. Anche io ero tra quelli che prendeva in giro Aurélien. In cuor mio, credevo che lui se ne fosse andato e che sarebbe stato uno di quelli che non sarebbe mai tornato. Eppure lui è rimasto, e con quelle foto invidiavo come un’anima tormentata e maltrattata riuscisse a farci vedere la bellezza. Andai a casa, e sul computer di mia moglie mi misi a cercare Aurélien, e a vedere le sue tante fotografie e a leggere anche qualcosa di suo. Lo contattai con il Facebook di mia moglie, e lui fu molto cortese, rispondendo alle mie domande e provocandomi anche. Mi colpì un suo pensiero: “La gente pensa che mi dia delle arie, che io sia un vanitoso. La mia arte parla abbastanza per me, e si sa che non mi limito solo alla forma. Cerco sempre di andare oltre, perché a me manca un pezzo di vita che altri hanno e che io non avrò mai. Ho il terribile difetto di essere sincero, di essere a volte duro con gli altri perché io voglio il contenuto e non la superficie. Sì, amico mio, ho sofferto tantissimo la mia condizione, ed è lì dentro che è nato un qualcosa che mi ha permesso di essere creativo. Se non ci fosse stato il social network, forse non sarei uscito dalla mia condizione. Io ho semplicemente colto l’occasione di proporre quelli che sono i miei contenuti e basta, e so bene che sono visti, e tanto pure. Non m’importa se sarò tacciato di essere chissà che cosa. Nessuno mi conosce intimamente parlando. Loro pensavano e credevano che io fossi un volgare passatempo, e di questo ne soffrii tanto. Ma ero giovane all’epoca, e soffrivo perché chiedevo egoisticamente solo un po’ di rispetto, di comprensione, di amore. Ma in me è scattato qualcosa. Ho odiato Crotone, ma non potevo odiare il luogo. Sono tornato, e un giorno ho ripreso la macchina fotografica. Ho iniziato e basta. E continuerò a fare quello che so fare. Qualcuno non mi sopporta? Beh, normale perché non si può essere simpatici a tutti.”

   Un lungo messaggio che mi ha impressionato per la tranquillità espressa nelle parole. Mi sono pentito del mio passato da “bullo”, e anche se ero giovane all’epoca degli scherzi crudeli fatti ad Aurélien, ma non solo, io mi rammarico delle mie azioni. Purtroppo a Crotone il buono viene preso sempre in giro. Ti insegnano a essere duri, fighi, stronzi. Come se tutto questo fosse la qualità principale. Non si vive così. Perché è pur vero che la natura mi ha dotato di un corpo forte e robusto, ma per tutti non accade così. Infatti, mio figlio Luca non ha un corpo come il mio. È fragile. È un bimbo che soffre di diabete. E mi ha sorpreso scoprire che anche Aurélien ne soffre. Con mia moglie ne parliamo spesso perché è ovvio che vuoi proteggere tuo figlio, poi dentro di me mi auguro che mio figlio possa avere una porzione di dignità e di tenacia che hanno spinto Aurélien ad andare avanti tra alti e bassi.

   Ti chiedo perdono, Aurélien, per le cose che ti ho fatto in passato. Non so se otterrò il tuo perdono, ma voglio chiederti scusa. Da quando sono padre (ma anche da quando sono marito) ho capito che bisogna apprezzare tanto quel poco che hai, e che è giusto difenderlo. Ma difendersi non vuol dire attaccare per controbattere. Difendersi vuol dire anche cercare una risposta. Avevi tutti i motivi per non rispondermi. Infatti, non siamo mai stati grandi amici e dubito che lo saremo. Ma ci tengo a chiederti scusa, e se ritieni opportuno pubblica la lettera. Perché io voglio testimoniare che dietro quella macchina fotografica c’è una persona con relativi pregi e relativi difetti che cerca di dare un contenuto, e che il più delle volte ci riesce perché non ha paura di sbagliare.

   Ho imparato a conoscerti meglio sul web attraverso quello che scrivi e quello che fotografi. Ho visto alcuni tuoi video. Ho saputo delle tue ferite personali. Ho seguito le tue tappe. E alla fine mi rendo conto di quanto io sia stato cattivo con te.

   Mio figlio è qualcosa di prezioso. L’ho accettato, e non nascondo che a volte soffro nel non poterlo vedere come altri bambini. Mio figlio mi ricorda te, Aurélien, perché tu quand’eri adolescente non entravi in pizzeria o in una pasticceria. Mi sembrava strano che un ragazzino non potesse mangiarsi la pizza perché soffriva di allergia al glutine. Vent’anni fa c’erano cose che non si sapevano, e noi le sottovalutavamo.

   In questi mesi, abbiamo instaurato un dialogo costruttivo. Ti voglio dire grazie per i suggerimenti e per la pazienza che mi hai dimostrato. Non voglio che ti arrabbi perché ti ho voluto scrivere una lettera così lunga e appassionata, ma è che la vita è una sola e abbiamo poche occasioni per vederci e parlarci. Poi succede che magari ci stacchiamo, e magari non ci potrebbero essere altre occasioni. Perciò ho voluto scrivere e farti trasmettere il mio rispetto e la mia ammirazione.

   Non servirà forse ad aggiustarti la vita, ma dirti che hai in mano un percorso valido mi allieta il cuore.

   Mi hai insegnato a non aver paura di combattere per i propri sentimenti e per le proprie fragilità. Mi hai fatto capire che devo guardare oltre, perché questa è una delle regole che un genitore deve sempre applicarsi per essere un punto di riferimento per il proprio figlio.

   Adesso, dopo aver scritto tutto questo, mi sento più sereno e posso guardare meglio mio figlio. Non so come crescerà e che cosa farà da grande. Non so che cosa mi riserva il futuro in questi tempi incerti. Ma una cosa è certa: cercherò di essere una persona migliore. Per questo insisto nel chiederti scusa.

Gianni

Che dire? La lettera mi ha commosso, ma francamente non meritavo tanto. Vuol dire che m’impegno a spedirti una mia foto di grande formato. La vita è piena di sorprese ed è sempre imprevedibile. Per quello che posso fare, caro Gianni, il perdonarti dalle tue malefatte è il minimo. Perché l’essere padre e marito ti ha reso più responsabile, e ha permesso di aprire il tuo cuore. Fai bene a combattere per i tuoi sentimenti. Non c’è nulla di ridicolo nel farlo, anche perché i sentimenti sono l’unica cosa vera su cui puoi contare se vuoi sentirti qualcuno.

La tua lettera arriva in un momento dove sto riflettendo sul confessare e denunciare una mia parte del passato, ma le tue parole tolgono ogni dubbio.

Mi chiamo Aurélien Facente. Sono nato, e tuttora vivo, a Crotone. In passato sono stato vittima di gravi episodi di bullismo, e l’arte è stata il mio primo rifugio per reggere psicologicamente al terribile gioco psicologico dei bulli. Mi ritengo fortunato perché ho avuto indubbiamente una valvola di sfogo, e purtroppo ci sono tanti ragazzi e tante ragazze che sono scomparsi e che magari potevano dare il meglio. Non tutti hanno la fortuna di decidere e di accettare il proprio destino.

Il mio non è stato un percorso facile, e ancora oggi vivo delle conseguenze. Ma cerco di correggerle. Non sempre mi riesce, ma non mi arrendo.

Oggi, però, sono contento di essere me stesso. Mi accetto per come sono, e non ho paura del domani. Scrivo, fotografo, filmo, mi pongo degli obiettivi. Combatto così la facile cattiveria, la facile diceria, il facile pregiudizio, l’invidia, la codardia. Perché il mio essere vivo prevale e vince contro queste avversità. Un discorso egoistico forse, ma sono convinto che se produco il mio lavoro riesco in qualche modo ad essere un esempio per chi, come me, è stato vittima del bullismo.

Se ne esce, ma il primo passo da fare è accettare se stessi in tutto e per tutto.

Mi chiamo Aurélien Facente. Sono stato vittima del bullismo.

Oggi voglio solo dire che accetto me stesso per chi sono e per come sono.

Aurélien Facente, dicembre 2016

Caro Roberto, a fare il bullo è facile…

Nota dell’autore: per precisazione, la seguente lettera era stata già pubblicata, ma il contenuto tematico (bullismo) resta lo stesso. Buona lettura.

Ti chiamerò Roberto. Un nome generico. Non ti preoccupare. Non farò il tuo nome, né il tuo cognome, e cercherò di evitare allusioni al tuo aspetto fisico e alla tua vita privata. Però qualcuno capirà chi sei, caro Roberto, e magari te lo riferirà. Ti potrai arrabbiare quanto vuoi, ma se sono arrivato a scriverti una lettera pubblica, beh… ti prego… Non prenderla come un atto di guerra, ma nemmeno come un atto di pace. Ti voglio solo invitare a riflettere sulle tue azioni, sulle tue parole, sul tuo modo di atteggiarti con me.

Devo essere sincero. Sono settimane che ci penso, però è doveroso farlo, perché io quello che voglio, mio caro Roberto, è solo godermi un’esistenza tranquilla e basta.

In verità, caro Roberto, ho deciso di scriverti e di rendere pubblica questa mia lettera perché c’è una cosa che mi ha colpito di te.

Mi è stata mostrata una foto di te con tua nonna. Una foto tenerissima, a dire il vero. Mi ha fatto piacere che dietro la tua scorzetta da bullo si nasconda un essere umano, il che è già qualcosa di straordinario. Io sono felice che tu abbia la fortuna di goderti la tua amata nonna. Non tutti hanno la fortuna, vista la tua età anagrafica adulta, di godersela. Ed è bello che tu lo abbia testimoniato questo enorme affetto.

Ma vedi, caro Roberto, poi succede che m’immagino che magari un giorno tua nonna veda il tuo comportamento di te nei miei confronti… e allora mi domando che cosa proverebbe nel vederti mentre mi segui con la macchinina a gridare che io sono frocio, ricchione, coglione, cretino? Che cosa proverebbe nel vederti mentre punti il laser di un giocattolino comprato alla fiera contro la mia faccia? Secondo te, sarebbe orgogliosa di vedere il nipote a fare queste cose?

Vedi, caro Roberto, io credo proprio di no.

Magari non te lo dirà, ma il suo sguardo cambierebbe verso la delusione, e non credo che la voglia vedere delusa, anche perché è una donna che ha dimostrato nel tempo di essere molto forte e paziente, e sai che non merita questo.

Oddio, caro Roberto, mi rendo conto che questo discorso non potrebbe essere opportuno, perché magari alimenta il tuo elemento di rivalsa nei miei confronti, e rischio di peggiorare la situazione. Ma tu non sei un ragazzino. Sei un adulto, cazzo! E perciò mi appello alla tua parte umana, chiedendoti di smetterla di credere di passare il tempo sulla mia pelle, solo perché tu e qualche tuo amico vi annoiate…

Vedi, caro Roberto, non sei il primo bullo che conosco, e credo che non sarai nemmeno l’ultimo. Non rientri nemmeno nella classifica dei migliori “bulli” con cui ho avuto a che fare nei miei miseri 38 anni di vita. NdA: la lettera è stata scritta nel 2017.

Tu, come tutti i bulli, pensi che io sia una persona incapace di reagire, una persona da prendere in giro e offendere solo perché devi passare il tempo o addirittura per dimostrare la tua superiorità o per farti figo. Il discorso è sempre lo stesso alla fine dei conti. Tu, forse, non lo sai e nemmeno vorrai saperlo, ma io il bullismo lo conosco molto bene. L’ho subìto per anni a Crotone, a causa di mentalità ristrette e ottuse. Tu non conosci i danni che mi ha fatto quando lo subivo, e non ti racconto le conseguenze emotive e fisiche che mi sono trascinato per anni. Certo, diventi strano agli occhi degli altri, e allora poi un bullo trascina l’altro, come se tutti foste autorizzati a massacrare una persona che non sa perché è condannata.

Poi un giorno qualcosa cambia. Anche la vittima può reagire. E se lo fa con una certa intelligenza, magari ribalta i ruoli. Oppure un giorno ti accorgi che tu hai un problema che non riesci a risolvere, e la vittima delle tue brutte parole è la sola persona che potrebbe aiutarti. Sai come di solito finisce? Che non riceverai quell’aiuto, perché ogni volta che mi prendi di mira è un colpo che ferisce la mia fiducia.

Perché dovrei fidarmi di te? Perché dovrei aiutarti, soprattutto se mi vedi dall’alto del tuo piedistallo e mi definisci “frocio” solo perché ti va di passare il tempo? E nelle tue imprese dove vuoi giocare a essere il “the best” ti trascini tanti amici diversi… e c’è qualcuno che ti regge il gioco. Lo so perché lo vedo, e ascolto.

Tu pensi che non reagirò, ma intanto sto prendendo appunti… e poi arriverà quel giorno dove tu avrai bisogno… perché poi un giorno potrebbe capitare che la vittima del bullo possa essere un tuo nipote o forse tuo figlio… e allora che farai? Gli dirai di sfidare una banda di bulli a mani nude pur non avendo il fisico adatto per farlo? Perché quando questo bimbo nascerà, a te non importerà come sarà fisicamente perché sarà tuo figlio, sarà parte di te, della tua anima. Sarà quella gioia che ti darà forza nei momenti difficili della tua esistenza, e farai di tutto per dargli quelle possibilità che tu non hai mai avuto.

Roberto, io questi sentimenti li conosco bene e un giorno magari ti spiegherò perché li conosco bene.

Io non ti sfiderò nel dirti che sono migliore di te, caro Roberto.

Io ti sfido nel dimostrarmi che tu puoi essere migliore di quello che sei adesso, mascherato da un orgoglio stupido che ti rende mediocre ai miei occhi.

Roberto, non pretendo di essere capito. Pretendo di essere rispettato nello stesso modo in cui tu rispetti gli altri.

Io lo so perché mi hai scelto come vittima. Perché hai sentito parlare di questo Aurélien molto strano che non si sa bene quello che fa, e siccome è strano allora bisogna massacrarlo d’insulti.

Bene, Roberto, vuoi che ammetta le mie debolezze?

Devo vergognarmi del nome che mi ha dato mia mamma?

Devo vergognarmi perché non posso bere una birra Peroni in quanto celiaco?

Devo vergognarmi perché mi faccio quattro punture al giorno d’insulina causa diabete?

Devo vergognarmi di chi ho amato e di chi amo?

Devo vergognarmi perché scrivo queste cose, con la consapevolezza che le mie parole scritte serviranno a ben poco…

Sottovaluta, Roberto. Ne ho visti passare bulletti prima di te. Tutti poi a vergognarsi di quello che hanno detto. Dopo un po’ se ne stanno in silenzio, oppure mormorano a voce bassa. Perché poi arriva un momento dove la vita ti prende e ti porterà a fare la scelta che non vorresti fare o ad affrontare quello che non auguri nemmeno alla persona che ami di più.

E allora che fai, Roberto? Continui a fare il bulletto? Continui a voler passare il tempo insultando e sbeffeggiando il prossimo?

Io sono cresciuto in una città che amo e che odio. Amo i colori della mia terra, ma odio le persone che si comportano come te pronte a prendersele con il prossimo solo perché appaiono più deboli, o solo perché hanno fatto una scelta diversa dalla tua.

Io lo so perché mi sfidi certe volte, caro Roberto. E mica te lo dirò qui, caro Bob. Perché se lo dico poi ti dovrai guardare allo specchio e vederti per quello che sei adesso agli occhi miei.

Vedi, caro Roberto, tu e i tuoi compagnucci avete urlato che faccio schifo perché scrivo… Non la prendo come un’offesa perché voi riconoscete che io scrivo, e mi basta quello per urlare la mia misera vittoria, una vittoria della quale nemmeno m’interessa più di tanto.

Perché la mia vittoria, caro Roberto, è farti vedere che alla fine dei conti sono una persona capace di pensare e di risponderti, anche a tono visto che poi copi apertamente le mie battute, e questo mi fa capire che tu, dentro la tua parte più intima, in qualche modo provi ammirazione per me. E sai perché? Perché mi dai importanza? M’insulti, e sai che non ti ascolto… eppure ti prendi il lusso di far fare all’amichetto di turno il giro dell’isolato per dimostrare che cosa?

Che sono “gay”, “frocio”, “coglione” o altro? È questo il passatempo che insegnerai a un tuo eventuale figlio? È questo che vuoi far vedere alla tua splendida nonna?

Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te.

È una legge che vale sempre.

Roberto, vedi… Io ho imparato che cos’è toccare il fondo dell’abisso… Potrai picchiarmi, insultarmi, offendermi… ma niente di quello che potrai farmi mi farà male… perché sono cose già vissute, e già superate… Continuerò la mia strada come sempre, e fischietterò anche…

Io forse faccio schifo perché scrivo, ma tu fai più schifo di me ogni volta che ti mostri nella tua misera mediocrità, sapendo che puoi essere migliore quando vuoi.

Con stima e rispetto,

Il tuo amico di quartiere Aurélien Facente

Alla fine saranno i bambini a dare la migliore soluzione…

Stamattina ho fatto un giro in città. Ho incontrato un amico, e abbiamo deciso di farci un giro in auto, tutti e due con la mascherina. Quindi rispettosi delle precauzioni contro il coronavirus.

Poi verso le 13, siamo arrivati alla discesa di Via Roma, Crotone. Traffico intenso. Il traffico che si ha in quella zona è tipico delle uscite da scuola. Sembrava di aver fatto un salto indietro nel tempo, di quando tutta questa follia preventiva non c’era.

Ho abitato nei pressi di una scuola per 25 anni. Per innumerevoli mattine ho visto bambini diventare adolescenti, genitori che vedevano crescere i loro bambini e lasciarli poi autonomi per andare a scuola. Ho visto vita giovane provare a diventare adulta. Ho visto anche adulti invecchiare. Ma lo sguardo dei bambini non te lo scordi, soprattutto quegli occhi pieni di quotidianità, fatta di sorrisi e talvolta di tristezza, ma con l’accettazione di voler diventare adulti.

Stamane, nonostante le mascherine, ho rivisto quei piccoli sguardi che alimentavano il loro spirito. Certo, il virus c’è. Ma non piegherà mai quello sguardo pieno di gioia e di prospettiva. I bambini cadono, ma si rialzano subito. Magari piangono, ma per loro la paura passa. Perché è così che crescono. Il bambino affronta un passo alla volta le sue paure, e tira avanti per la sua strada. Se poi c’è l’adulto ad accompagnarlo è meglio per tanti aspetti, ma i bambini non amano la paura. Piangono o urlano quando si fanno male, ma poi sempre pronti a rialzarsi. Quando accade, i genitori si tranquillizzano.

Molti genitori dovrebbero entrare in questo meccanismo e starli solo a guardare. Vedrebbero tante cose che servirebbero pure a loro. Senza nessuna ipocrisia.

Perché stamane, pur non essendo genitore, ero felice come i bambini stessi. Perché assaggiavo la libertà, mi mettevo alla prova, ero contento di saltellare come potevo. Perché i bambini non rinunciano mai a vivere, nonostante l’adulto provi paura. Una comprensibile paura, ma che un bambino non proverà mai. Perché il bambino ci tiene a voler essere forte, ed è pronto a far buon viso a cattivo gioco.

Molti adulti hanno dimenticato lo spirito dell’infanzia. Si tengono ancorati alla realtà mettendosi delle catene addosso, e si lasceranno mangiare dall’incertezza. Perché questa incertezza si nutre dello spirito umano come un cancro, e se ci si dimentica di essere stati bambini allora essa prende il sopravvento.

I bambini seguono sempre l’esempio che gli mostra il coraggio. Fateci caso. L’empatia dell’infanzia è molto particolare. Quando ero bambino, sceglievo la compagnia dell’adulto che mi dava sicurezza, ma anche allegria. Sceglievo l’adulto che provava a rispondere ai miei perché. E tra mamma e papà, ho anche il ricordo di maestri e professori che non solo mi hanno insegnato la materia, ma anche l’approccio alla vita stessa. Tra questi ci sono anche soggetti che non ho ascoltato, ma perché non erano chiaramente esempi di vita. Ma quando sei infante, tu cerchi inconsapevolmente l’esempio di vita e non l’esempio dell’insegnamento, che viene dopo perché i bambini hanno bisogno di tappe per crescere.

Il sorriso salutare dell’infanzia regala un attimo di speranza per il futuro, anche quando ci sono incidenti di percorso.

I bambini sono tornati a casa, accompagnati dai loro genitori abbastanza increduli e spaesati, ma pronti per riportarli nella propria dimora.

Poi è sopraggiunto il silenzio. Quel silenzio che addormenta la vita, ma non la uccide.

Non c’è niente da fare. Il sorriso di un bambino spegnerà sempre l’ipocrisia del mondo adulto.

Aurélien Facente, 11 gennaio 2020

Crotone è ormai una città dedita al silenzio

Sono volutamente uscito lo scorso 6 gennaio. Ho voluto rendere soddisfacente la mia curiosità. Volevo farmi un giro dentro una città immersa nel silenzio.

   Certo, era zona rossa. Non sarei dovuto uscire, secondo qualche benpensante. Ma il momento storico era unico. Molto probabilmente l’anno prossimo non si ripeterà.

   Il silenzio della piazza, quello del corso Via Vittorio Veneto, quello di Piazza Pitagora, a parte qualche vocio di qualche persona che magari salutava velocemente un amico, un parente o un’altra persona.

   Il 6 gennaio è l’Epifania, una festa dei bambini e dei ragazzi. L’ultimo giorno di festa, l’ultimo giorno dello scambio degli auguri, l’ultimo giorno del sorriso tra parenti.

  Ed era anche un giorno di passeggiata per tutta la giornata.

   Ho fatto la passeggiata per prendere appunti.

   E ho assaggiato il silenzio.

   Silenzio di serrande chiuse, silenzio di strade senza auto e senza bambini che giocano, non c’era nemmeno il petardo che scoppiava.

   Silenzio di una città che, mentre sparla su Facebook, si è ormai dedicata al silenzio.

   Un silenzio che non va bene, perché non è il silenzio della notte, dove in ogni caso ti capita d’incontrare qualcuno.

   Questo non era nemmeno un silenzio che l’Epifania meritava, perché anche nelle ore di riposo pomeridiane qualche tocco di pallone lo sentivi.

   E mancava lei, la Befana.

   Ho provato a capire questo silenzio.

   Ed è da qualche mese che Crotone è una città silente.

   Persone chiuse in casa per via del DPCM, ma una volta ci si affacciava almeno sui balconi. Non dico che il saluto fosse obbligato, ma vedere qualcuno era una benedizione.

   Invece, il mio cammino era solitario, e l’ho pure raccontato in video.

   Ma non ho raccontato quello che ho provato.

   Mi sono fermato dinanzi al liceo classico Pitagora, quello non lontano da Piazza Pitagora.

   Sono tornato ragazzo. E mi ricordavo quando con alcuni compagni venivamo davanti al portone di scuola, sapendo che la vita di tutti i giorni riprendeva, e che gennaio era il mese del primo quadrimestre.

   Mi ricordavo l’eccitazione.

   Ora c’era solo il silenzio, e dentro di me sentivo l’incertezza, il peggior dramma dell’epoca Coronavirus.

   Ho ripreso a camminare, perché l’incertezza non mi violentasse ulteriormente.

Aurélien Facente, gennaio 2021

Dieci foto per raccontare il mio amore per Crotone

Una delle accuse più stupide che mi fanno determinati soggetti è che io offenderei gratuitamente i crotonesi. Bene, a tali soggetti offro loro un album di 10 fotografie in tutto per raccontare che io amo Crotone, e se in questo blog mi permetto di raccontare fatti poco piacevoli oltre che caratteristiche che non vanno è proprio per amore di un posto che uno come me vorrebbe veder crescere.

Perciò buona visione.

Se realmente odiassi la mia città, io non avrei mai fatto queste foto cercandone di raccontare gli attimi più belli, i colori più reali, il rispetto per i colori di un posto che nel bene e nel mare mi ha ispirato. In fondo, faccio sempre parte di Crotone. E questa è la Crotone che mi piace vedere. E che mi piacerebbe scrivere.

Testo e fotografia di Aurélien Facente, gennaio 2020

Coronavirus KR – La storia di Mara e Angelo

Quando la notte scende a Crotone, soprattutto in questi giorni, il silenzio nelle strade farebbe impazzire chiunque. In realtà credo che ci sia già troppa paura alimentata da un’isteria di massa. La paura verso il virus ti porta nel tunnel dell’irrazionale.

   Conosco bene il male in questo caso, e me ne sto volentieri alla larga. Qualsiasi parola sarebbe inutile e superflua, poi in un caso come il mio sarebbe trascinarsi tanto odio dietro. Perché chi prova a ragionare dentro la paura viene sempre detestato. Perché nella paura cerchi la risposta, ma non ragioni.

   Accendo il PC. Leggo molto le notizie di notte. Cerco di trovare qualche spunto interessante e logico. Ho la fortuna di parlare e capire più lingue, però qui lotto con persone che vanno appresso alle tv nazionali. C’è chi pensa addirittura che i programmi con Barbara D’Urso sia dispensatori di verità. Non parlo degli altri programmi perché ci sarebbe un intero volumone da scrivere.

   Sulla mia scrivania, posta di fronte alla via centrale, vedo i lampeggianti gialli dei semafori accendersi e spegnersi, mentre provo a raccogliere notizie. Do uno sguardo su Facebook, e nella messaggeria della mia pagina pubblica trovo un messaggio di una certa Mara. Prima di leggere il messaggio, esploro il profilo. Non amo dare risposta ai fake, ma il profilo è tranquillo. Si tratta di una mamma. Due figlie quasi adolescenti. Bella famiglia. Sulla foto del profilo c’è la foto di lei in abito bianco con il marito. Un omone robusto. Una foto felice.

   Poi leggo il messaggio: “Scusami. Seguo di nascosto le tue dirette su Facebook, e ho letto tanta roba tua in queste settimane. Vorrei parlarti. Ti prego di rispondermi se ti è possibile.”

   Mezzanotte.

   Quella che segue è la conversazione avuta tra Mara e me. A sta per Aurélien, mentre M sta per Mara, che ovviamente è un nome fittizio. Lo faccio per proteggere la vita privata della signora, che per quello che mi racconterà in seguito. Una delle tante storie vere che non saranno mai prese in considerazione da un giornale, e se finisse in mano alla televisione peggio ancora.

   A: “In cosa posso esserle utile, signora?”

   La risposta è fulminea. Appena un minuto.

   M: “Ti disturbo? Scusa se ti do del tu.”

   A: “Non fa niente. Tanto qui le regole del dialogo si rompono.”

   M: “Ecco, io voglio parlarti di mio marito.”

   A: “Signora, io non credo di conoscere suo marito. Mi sono permesso di vedere qualche foto, e credo che quel signore robusto non rientri tra le mie conoscenze.”

   M: “Ecco, a dire il vero è deceduto.”

   Sapete la sensazione di aver fatto una grossa figura di merda? Eccola. Ma può capitare quando non si sanno le cose.

   A: “Mi scuso umilmente dell’errore commesso. Non volevo mancarti di rispetto.”

   M: “No, non scusarti. Angelo è deceduto la scorsa primavera. Non potevi saperlo. Non ci conosciamo nemmeno.”

   A: “Bene, ricominciamo. In cosa posso esserti utile?”

   M: “Volevo dirti grazie.”

   A: “E di che cosa?”

   M: “Ecco, io sono capitata sulle tue dirette per puro caso. All’inizio ero molto arrabbiata con te, ma poi ho cominciato ad ascoltarti e a leggerti. Sono capitata in quel tuo romanzo blog chiamato Responsibilities. L’ho letto con molta attenzione, e allora ho capito che cosa sei.”

   A: “Hai tutta la mia attenzione.”

   M: “Ecco. Hai avuto un’esperienza devastante e ora capisco che non ti attieni alla linea indotta da terzi. Vai per la tua strada. Come mio marito Angelo.”

   A: “Parlami di lui.”

   M: “Mi chiamo Mara. Ho 47 anni. Abito non lontano da Brescia. Io ho conosciuto quell’omone di mio marito ai tempi del liceo. Ci siamo piaciuti da subito, ma sono stata a fare io il primo passo. Non ci siamo mai staccati. Abbiamo fatto i nostri studi insieme. Lui aveva trovato lavoro subito dopo l’università, mentre io avevo avviato una piccola sartoria. Mio marito era un ingegnere meccanico. Avevamo la passione per la montagna. Ci piaceva tanto camminare tra i boschi…”

   A: “Continua a scrivere.”

   M: “Mio marito è una delle vittime del Covid. Sai così perché ero arrabbiata con te.”

   A: “Puoi raccontarmi com’è successo?”

   M: “Aveva una brutta tosse. Non la smetteva di soffrire, e aveva pure la febbre. Chiamai l’ospedale. Lo vennero a prendere. Mi raccomandarono di fare la quarantena. Io e le bambine. Ma lui non è più tornato. Mi fecero la telefonata direttamente dall’ospedale. Mi si è gelato il cuore. Ho passato un giorno intero in silenzio prima di dirlo alle ragazze.”

   A: “Capisco. E poi?”

   M: “Tu lo sai. Ti si rivolta tutta l’esistenza. La quarantena forzata è stato il modo per stare soli e provare a capire. Non dormivo. E per non piangere, passavo ore a cercare una risposta sul web. Poi ti ho trovato. La prima volta ho buttato lo smartphone a terra.”

   A: “So di fare quest’effetto. Continua.”

   M: “Poi però ho continuato a vederti. E poi ho iniziato a leggerti. E ho capito tante cose.”

   A: “Non penso di averti dato delle risposte, ma sono felice ad aver contribuito all’inizio di un percorso.”

   M: “Angelo, prima di salire sull’ambulanza, mi ha detto queste parole tossendo: Qualunque cosa accada devi vivere anche per me, anzi andrai in montagna a raccogliere qualche fungo, e poi vai a vedere il nostro tramonto.

   A: “Lì per lì non hai capito, vero?”

   M: “No. Non subito. Vedi, io non so come descrivere la situazione.”

   A: “Sei andata sulla montagna poi?”

   M: “Sì. Completamente da sola. Ho smesso di piangere quando ho visto il nostro tramonto.”

   A: “Sai perché hai smesso di piangere?”

   M: “Mi sentivo in pace. Quando mi trovai nel nostro luogo preferito, mi ricordavo uno dei motivi per cui lo amavo tanto. Una storia. Mio marito aveva una sorellina che purtroppo morì all’età di cinque anni. Era condannata da una leucemia. Mio marito aveva tredici anni quando accadde il fatto. Mi raccontava che la faceva sorridere e le raccontava un sacco di favole dove lui era il cavaliere e lui la principessa. Ha fatto di tutto per farla sorridere, e poi provò a raccontarmi… Ma s’interrompeva sempre. Anzi, poi riprendeva a sorridere e mi diceva che non bisognava piangersi addosso. Perché lui aveva il dovere di sfruttare quella possibilità che non aveva avuto la sua sorellina.”

   A: “Ora stai cominciando anche tu a trovare un percorso in mezzo al buio.”

   M: “Poi ho letto la tua personale esperienza. E ho cominciato a vivere esperienze simili, anche se tutto è accaduto quest’anno. Io non sto vedendo uomini e donne. Vedo solo persone. È un periodo brutto, dove vedi solo menefreghisti e codardi che si fanno mangiare dalla paura, e nessuno che vuole vedere una luce. Solo una brutta cappa di tragicità.”

   A: “Posso farti una domanda? Angelo avrebbe voluto vivere questa cappa di oscurità che ci avvolge da Nord a Sud?”

   M: “No. Angelo faceva tante piccole cose per gli altri, ma non si faceva piegare dalle oscurità altrui. Anzi, per lui erano uno stimolo a fare meglio. Io non lo capivo certe volte, ma poi ho iniziato a capirlo di più adesso. E tu di sicuro sai di che parlo. Quando ti viene fatto a pezzi il cuore, man mano che lo rimetti a posto tu non hai il tempo di andare dietro la paura. Io non so se ritornerò ad avere un sorriso, ma non posso deludere Angelo. Per nulla al mondo.”

   A: “Hai scelto la strada più difficile, ma la migliore. Angelo voleva vederti vivere e non piegata dal dolore. Il Covid-19 è un nemico come qualsiasi male che fa ammalare le persone. E purtroppo ha un suo prezzo. Mara, non viverla come una colpa. Si è trattato purtroppo di una tragica fatalità che di sicuro la tua famiglia non meritava. Ogni morte è una storia interrotta, soprattutto nei casi come il tuo. Ma tu hai la possibilità di continuare a raccontare questa storia. Ognuno di noi affronta un percorso proprio e incerto, e prima o poi questo percorso diventa più chiaro. Ma per gli altri è incomprensibile perché sono percorsi che si vivono, ognuno con un proprio tempo. Il fatto che già sei andata a vedere il tramonto è indicativo, importante. Ci sei tu e ci sono le vostre figlie. Potete raccontarla una storia. Io sono solo un elemento casuale al quale hai voluto fare una conversazione amichevole, anche se temevo il peggio.”

   M: “Ti ho fatto perdere tempo. Scusami tanto.”

   A: “No, amo sapere che c’è qualcuno che prova a parlare di vita in questi giorni. Vedi, io non so come la stiate vivendo tutti lassù al Nord. Ma qui ti posso assicurare che la paura c’è eccome. Certe volte prenderei a sberle i miei stessi concittadini.”

   M: “Non ti facevo così cattivo.”

   A: “No. Non è cattiveria la mia. Qui parlano troppo dei morti, ma mai di chi ha perso il proprio marito, la propria moglie, la propria mamma, il proprio papà. Nessuno si chiede il prezzo delle cicatrici che non si richiuderanno più. Senza contare il resto. Ecco perché mi arrabbio con i miei cittadini. Perché io ho avuto la mia cicatrice personale. Perché tu sai adesso che cosa vuol dire continuare a vivere e sfruttare appieno quella possibilità di vita che tuo marito non ha più. Io posso augurarti di tornare al sorriso più presto, anche perché le tue figlie hanno bisogno di quel sorriso. In fondo anche tuo marito.”

   M: “Posso farti una domanda indiscreta? Tu hai qualcuno nel tuo cuore adesso?”

   A: “In questo momento non lo so. Ma ti posso assicurare che quel cuore che vedi chiuso adesso si riaprirà in qualche modo. Ricordati quello che ti raccontava tuo marito. Adesso sei tu il cavaliere.”

   M: “Buonanotte. E grazie.”

   A: “Buonanotte.”

   Spengo il PC. Mi preparo un caffè, e sto sul balcone, al freddo, in attesa del primo mattino.

   Alle 5 scendo con il cane, e dopo un po’ comincia a spuntare il sole su di me. Nel momento più buio, spunta sempre il sole. E i suoi raggi sono come carezze.

Aurélien Facente, novembre 2020

Coronavirus KR – Diario dalla Zona Rossa, primo giorno

   Giorno 1, mattina.

   Mi sveglio tardi volutamente. Non ho fretta. Conosco bene le regole del lockdown. So già dove si trovano i miei confini. Mi vesto, dopo essermi opportunamente lavato. Colazione. Un saluto a mamma prima di uscire con il cane. Ispeziono la mia personale zona rossa. Ho cambiato casa da un po’. Più centrale, ma meno in vista direi. Più adeguata. Nuovi vicini. Meno confidenza. Paradossalmente più spazio di manovra.

   Ho sempre la mascherina addosso. Pochissime persone in giro. Rispetto delle distanze. Anzi, sembra proprio che la gente voglia proprio non incontrarsi. Ma ci si saluta comunque. Dopo essermi fatto il giro mattutino con il cane, riscendo con la telecamerina e faccio la mia diretta numero 1 della giornata. Ho deciso di apparire in video ogni giorno, in differenti momenti della giornata se necessario. Vale lo stesso detto del lockdown: la mia presenza rappresenta una speranza di sopravvivenza mentale per chiunque, anche se sono antipatico. Perché conferma che il virus si può in qualche modo combattere.

   Giorno 1, tardo pomeriggio.

   A casa mia non c’è la televisione. Lo smartphone e il PC sono le uniche cose che servono da ricettore di notizie. Sono convinto da tempo che il mondo mediatico in genere sia più alla ricerca del sensazionalismo verso l’orrore piuttosto che alla sostanza e alla rassicurazione. A Crotone arriva la notizia della protesta. In zona rossa molte attività restano chiuse. Bisogna prevenire il contagio. In verità è la crisi sanitaria che si vuole prevenire. Ospedali al collasso in Italia. Aumento dei contagiati. Il virus fa paura perché il racconto mediatico è impuntato sull’orrore, ma di virus ce ne stanno a migliaia sulla faccia della Terra. Solo che ogni tanto ne esce uno nuovo, figlio della sua epoca. Il Coronavirus è il perfetto virus del ventunesimo secolo. Un virus metropolitano. Un nemico minuscolo e invisibile. A distanza di qualche mese, la società ne prende inevitabilmente le misure. La scelta mediatica è quella di farne lo strumento perfetto per innalzare la paura nelle persone. La politica ne fa un uso misto. Da una parte la paura fa sempre comodo per tenere il potere in mano, che fa sempre comodo in una democrazia. Eccome se fa comodo. Non c’è mica bisogno della mascherina per affermarlo.

   Però sono sicuro che alla fine sarà sempre l’umanità a prevalere sul virus e sulla paura. Lo ascolto dalla voce di qualche amica, dalla sua voglia di sorridere e di vivere.

   Riprendo a scrivere un diario perché la mia personale testimonianza possa servire a qualcuno. Perché anche questa è una forma di solidarietà.

   Per me la mascherina non è una protezione. Assolutamente no. Per me la mascherina fa parte della corazza che indosso. Sono un cavaliere senza padrone adesso. Un cavaliere senza principessa si può dire. Ho una regina. Mia madre. Avrei voluto una principessa vicino a me. Un sorriso mi avrebbe aiutato. Ma terrò duro. Perché forse un giorno lo troverò. Ma in realtà non posso chiedermelo adesso. Ora devo soltanto pensare di essere degno del nome di mio padre, che prima di morire mi ha affidato il compito di proteggere la donna che lui stesso amava, a modo suo sempre, e che ha cercato di proteggere fino alla fine.

   Perciò non mi posso permettere di soggiogare alla paura degli altri. Perché devo fare in modo che mia madre possa sorridere. E così la mascherina diventa un elmo e il mio corpo una corazza. E devo mettere da parte il mio cuore che si dovrà accontentare di amare in silenzio.

Giorno 1, prima serata

   Un po’ di persone per le strade. L’urlo delle persone che vogliono farsi sentire, persone che vogliono vivere, che non vogliono arrendersi, che vogliono lavorare rispettando le precauzioni. Il contagio c’è. E a loro non fa paura. Sì, perché in natura l’essere umano è dotato di un meccanismo di reazione dovuto all’istinto di sopravvivenza.

   Quando vedi la gente reagire, non lo fa per mostrare la stupidità. Non è una questione di stupidità sopravvivere. È la vita che si esprime in questo modo.

   E sono felice di vedere le persone che reagiscono in questo modo. Perché il loro urlo è un segno chiaro di voler vivere e di prendere misura con la paura.

   La morte è un passaggio inevitabile dell’esistenza.

   La verità è che le persone non vogliono venire a patti con la propria fragilità, e allora puntano il dito contro per non venire a patti con le proprie paure.

   In una società dove si punta al top badando poco alla sostanza e avendo badato solo al superfluo, quando si affaccia la paura tutto viene devastato, a cominciare dall’egoismo con il quale ci ritroviamo a scontrarci.

   La polizia fa il suo mestiere di sorvegliante. Accompagna le persone per la città, facendole esprimere il proprio dissenso. I poliziotti sono esseri umani che hanno scelto di indossare la divisa, e per una volta riesco a vedere bene la loro umanità. Anche loro si unirebbero alla gente per far sentire la loro rabbia. Perché anche loro hanno una famiglia alla quale dare una risposta, una prospettiva.

   Un’epoca complicata questa. E mentre uso la mia voce per stare vicino alle persone, e mentre il mio smartphone riprende parte del racconto, la mia regola da ora in poi non sarà mai condannare qualcuno perché vuole vivere. Io condannerò solo chi vuole che gli altri si rassegnino perché bisogna assecondare la propria paura.

   Non è il periodo per assecondare l’egoismo altrui. Perché è proprio in questo genere di situazioni che lo sciacallo ama muoversi.

   Giorno 1, notte

   La mia pagina Facebook è lo strumento principale del racconto. Faccio un resoconto della giornata sempre. Non sono un giornalista. Sono un narratore. Ho cambiato l’orario del serale. Il coprifuoco è alle 22.

   La paura è presente. La gente che si collega con te a volte vuol sentirsi una favoletta contro la paura che assecondi le sue paure. E se glielo dici, ti condanna pure. Non me la prendo perché, per quanto possa ripeterlo, non è da tutti affrontare la paura a viso aperto. Ci vuole tempo, e bisogna accumulare un’esperienza in poco tempo. Si tratta di una scelta.

   Quando spengo il collegamento, vado sul balcone che affaccia su una via principale. Semafori lampeggianti, luci urbane, e un fottuto silenzio anomalo. E l’impressione di essere incatenato a qualcosa, ma non sai cosa. Provo a dormire.

Aurélien Facente, novembre 2020