14 ottobre 1996, Crotone: una storia da ricordare, non solo per l’alluvione.

Sono passati 25 anni ormai da quel lontano 1996.

   Era il 14 ottobre 1996.

   Avevo appena compiuto diciotto anni. Frequentavo il Liceo Classico Pitagora. Ultimo anno. A scuola non ero un granché. Lo ammetto. Non volevo essere un granché. Volevo che l’ultimo anno passasse soltanto liscio. Non avevo passato un bel periodo nei mesi precedenti (questioni personali), e volevo soltanto staccarmi psicologicamente dal brutto periodo.

   Però era l’ultimo anno di scuola per me. Come me, tanti altri ragazzi.

   Poi quel giorno del 14 ottobre si mise a piovere.

   Ad un certo punto la corrente elettrica s’interruppe, e restammo al buio. Il cielo s’era fatto cupo, e la lezione scolastica si chiuse così, senza motivo apparente. Ci fu un silenzio strano. Cioè, la scuola era piena di ragazzi. Gli insegnanti c’erano. Un giorno normale, ma quella sensazione di silenzio… Una cosa strana… La verità? Era la pioggia. Un po’ più forte del solito. La nostra preoccupazione fu di tornare a casa e basta, senza neanche bagnarsi troppo.

   Il turno di scuola finì un po’ prima, perché la corrente elettrica non tornava.

   Fu la sola buona notizia per i ragazzi. Terminare un po’ prima le lezioni.

   Ma quel cielo grigio… Ancora lo ricordo bene… Ci penso ogni volta che passo dal Liceo Classico. Uscii da scuola in un momento che non pioveva. Mi preoccupavo soltanto di tornare a casa, e di terminare la mia giornata tra vari fumetti.

   Invece…

   Durante l’ora di pranzo si ebbero notizie sconfortanti. La città si era bloccata.

   Papà tornò più tardi dal lavoro (era insegnante a Isola di Capo Rizzuto), e disse che l’avevano obbligato a fare un altro giro, che di fatto gli allungò il percorso.

   Che cos’era successo? Era la domanda che mi frullava nella testa, e nel 1996 non c’era internet. Dovevi aspettare il tg per le notizie immediate.

   Poi le prime immagini dell’alluvione.

   Un’onda di distruzione dentro la città.

   Passa il tempo, e poi i nomi dei dispersi, poi morti.

   La città divenne in pochi attimi una terra di nessuno.

   Tutto si fermò.

   Ed io, come altri ragazzi, ci trovammo a vivere una delle settimane più strane della nostra vita. Non riuscivamo a comprendere quello che era appena capitato. Cioè, io ero fortunato perché abitavo in una zona lontana dal fatto, ma tremendamente vicina. L’ondata non m’aveva colpito. Anzi, abitavo in uno dei pochi palazzi che l’acqua corrente se la poteva permettere. Ma a due passi da casa, tutto si trasformò in un gigantesco campo di soccorso.

   La mattina scendevo sul Comune (Piazza della Resistenza, davanti al palazzo comunale) e vedevo le autobotti piene d’acqua e interminabili file di persone con varie borracce e bidoni per prendere razioni.

   E poi i racconti che sopraggiungevano.

   Una settimana lunga dove non potevi riposarti mentalmente, dove non sapevi che fare se non prestare un minimo d’aiuto se avevi una coscienza. Una settimana snervante prima di ricominciare la scuola (il Liceo Classico non era stato colpito). E poi si fecero i nomi delle vittime (pochissime rispetto ad altre realtà alluvionali, e fu molto duro immaginarsi che fu tutto frutto di un mostro dovuto ad un temporale eccezionale. Vittime di una tristissima casualità.

   L’alluvione non fu causata dal maltempo che fece ingrossare già di per sé il fiume Esaro (che colpì in modo violento tutti quartieri limitrofi), ma perché cedette un pezzo di cavalcavia nord sul fiume, e questo fece da diga e impedimento, causando tutto il disastro. Un evento casuale e sfortunatissimo.

   La città di Crotone era inevitabilmente costretta a cambiare, se non altro perché già da qualche anno stava cercando una sua identità dopo la chiusura industriale.

   Passai quella settimana a pensare parecchio, a fare volontariato silenzioso, a cercare di essere utile in un altro modo. Non mi sporcai le mani di fango a dire il vero. Per fortuna c’erano altre persone a farlo.

   Mi occupai di fare il facchino per quelle persone che non potevano muoversi (e ne conoscevo un po’), soprattutto portando acqua a chi ne aveva bisogno.

   Poi passavo dei momenti ad avventurarmi in zone silenziose. Avventure solitarie.

   E la sera t’incontravi con gli amici, e ascoltavi i loro racconti, in parte molto agghiaccianti e terribili. Si avventuravano nel quartiere Gesù, e raccontavano storie di abitazioni improvvisate, ed era solo l’inizio della storia. Ascoltavo quelle storie con attenzione, e andavo oltre. Guardavo da lontano quello scenario apocalittico, pensando che l’alluvione stava portando fuori il marcio della città, che s’era accontentata di vivere all’interno di un “sistema” stantio, e quelle erano effettivamente le tremende conseguenze.

    Si stava prendendo coscienza che Crotone non poteva restare ancora in quel modo, perciò speravamo che da lì in poi si poteva pensare a costruire una città migliore, un posto migliore, diventare persone migliori…

   Sono passati 25 anni da allora.

   Le promesse di 25 anni fa… qualcuno le ha mantenute forse, ma molto a livello personale e intimo direi. La città, dopo un’iniziale ripresa (i primi anni dell’era Senatore sindaco), ha poi continuato ad affondare in uno stagno, dove adesso si trova in una fase di stallo enorme e scoraggiante (Crotone è stata maltrattata in tutti i sensi, sia a livello politico che criminale), e oggi si trova ad essere un enorme boh, e questo lo pagano tutti (me compreso).

   È inutile nascondere l’evidente. Giusto ricordare la tragedia, le vittime, ma c’è da scrivere anche il resto, da riconoscere lo sbagliato…

   Sono passati 25 anni da allora…

    Ricordo ancora quel cielo grigio e quel rumore di pioggia che sapeva d’inquietante, e m’immagino quelle poche persone che non trovarono scampo, persone che potevano ancora vivere una vita e costruire qualcosa, vittime sulle quali si poteva e doveva costruire un posto migliore per tutti.

   Ora restano dei fiori e dei silenzi, promesse mancate, situazioni precarie, continue situazioni precarie.

   Ricordiamo il 14 ottobre, per carità…

   Ricordiamo le vittime.

   Ma poi ricordate di guardare Crotone per bene. Non guardatela come città. Guardatela come individui all’interno di una città. Guardatela bene. Ascoltatela, soprattutto di notte, nel silenzio.

    Abbiate il coraggio di farlo.

    Lo dico soprattutto a coloro che si sono succeduti nei posti di potere nella città, ad ognuno di loro. Non so se avete la capacità o la sensibilità di poterlo fare, perché alla fine si tratta di fare i conti con la propria coscienza, e ci vuole molto coraggio.

   Ma, detto con franchezza, credo che la risposta sarà sempre la stessa….

   Una risposta di silenzio che spiega molto più di migliaia di parole dette e sprecate in due decenni.

Aurélien Facente, 14 ottobre 2021

Quando parlare di ambiente a Crotone è sinonimo di propaganda

Mi sono permesso di prendere in prestito alcune foto di utenti crotonesi. Sono foto prese a caso, tra l’altro in anni diversi e in posti vari. Ma voi non saprete a quale anno si riferiscono perché la spazzatura è l’argomento più scottante nella città di Crotone (ma il problema si vive anche da altre parti).

Ogni anno, a più riprese e dovremmo parlare di mesi, si ripresenta sempre lo stesso problema. Eppure Crotone è la città che ha perso più abitanti negli ultimi anni, ma le montagne di spazzatura crescono eccome.

Ora possiamo parlare di impianti guasti (e quando ne hai solo uno sono cavoli amari se si guasta) e di varie responsabilità politiche e gestionali. Un groviglio di responsabilità nella quale la Calabria tutta si è impigliata, arroccandosi in posizioni politiche più ipocrite che di dovere.

Abbiamo un serio problema a monte. A produrre i rifiuti sono gli esseri umani. Non è che i cumuli di spazzatura li creino gli elefanti o le rondini. Le persone creano spazzatura.

Quando eravamo in pochi ci si poteva permettere erroneamente di seppellire e bruciare, ma poi la scienza ha scoperto che è dannoso e quindi abbiamo dato spazio al progresso tecnologico.

In Italia di progressi tecnologici ce ne sono stati, ma impari se andiamo a vedere in giro per il mondo. Gli stessi “privati” della spazzatura, quelli seri, parlano della possibilità di migliorare il progresso tecnologico. Ma vanno fatte anche nuove discariche, perché le vecchie dovrebbero essere dismesse e bonificate.

A quel punto, mentre sale il sospetto dell’inquinamento, si comincia il valzer della demagogia elettorale. Tutto dovrebbe partire dal pubblico, che è meglio del privato. Perché il privato segue i suoi interessi, e non quelli della collettività. Ma chi le dice queste cose spesso è seduto dietro una bella scrivania, eletto e sistemato per qualche anno a livello economico perché percepisce buono stipendio pagato dalla collettività.

Giusto difendere il territorio. Ma difendere il territorio vuol dire anche curarlo con i migliori mezzi. E se non li hai che fai? Ti viene facile demonizzare il privato, ma tu non hai i mezzi che il privato si è dotato. E allora racconti la supercazzola dell’inquinamento che provoca il privato. Ma la tua discarica è esaurita. Negli anni, assieme ad altri geni, vi siete impantanati in un sistema che si aggroviglia da solo.

Una sorta di gioco del cucuzzaro abbastanza perversa.

Sì, perché il cittadino, quello onesto s’intende, paga. Si lamenta, ma paga. Ma ricopre il ruolo del cucuzzaro, e perciò la prende nel didietro.

E intanto la spazzatura cresce, si accumula, non viene trattata. Cresce, cresce, cresce. Con tutto quello che ne consegue. E la storiellina si ripete da anni, e così le cucuzze giocano con il cucuzzaro, e chi se la prende nel culo? Ovviamente il cittadino che fa il cucuzzaro.

E così poi partono i provvedimenti più fantascientifici che ci possano essere. A raccontarli in un episodio dei Simpson sarebbe divertente, ma qui si abbonda di realtà demenzialmente tragica.

Facciamo l’inceneritore. No, l’inceneritore inquina. Ma poi in altri posti costruiscono inceneritori all’avanguardia e scientificamente testati, ma loro inquinano. Mentre è preferibile tenersi la spazzatura che s’imputridisce sotto casa tua, a discapito dell’igiene e ovviamente della salute.

Realizziamo una discarica fatta a norma allora. Un bel progetto. Sacrifichiamo un terreno e bonifichiamo le vecchie. No, inquinano. E intanto con questa bella scusa ce ne stiamo fermi e assaporiamo l’odore della merda.

Chiediamo aiuto a un privato allora. C’è. Lo autorizziamo con i controlli dovuti e per il momento ci accontentiamo. No, lui è un delinquente e fa gli interessi propri. Anzi, è probabile pure che sia un mafioso. Ma tu che stai dietro la scrivania non dici che fai parte dell’ostruzionismo e che giochi con il tuo comportamento proprio con la salute collettiva. Quindi dovremmo credere a un “onesto” che si comporta di fatto come un criminale, visto che il suo temporeggiare con la salute cittadina è un atto da criminali?

Ma tanto è il gioco del cucuzzaro. Tutt’in culu aru cucuzzaru, dicono a Crotone. E ù culu du cucuzzaru appartiene a quello che paga la bolletta.

La verità è che bisogna difendere l’ambiente e la città. Ma difendere l’ambiente vuol dire anche non perdersi in chiacchiere e comunicati stampa a supercazzola. Difendere l’ambiente vuol dire anche non fare propaganda se le soluzioni non sono a portata di mano. Difendere l’ambiente non vuol dire fare la protesta e basta o il ricorso qua e là, quando tu stesso sei sprovvisto della conoscenza. Difendere l’ambiente vuol dire anche affrontare il groviglio di norme che lo Stato Italiano e le Regioni si sono create per fare dispetto ai comuni. Già, loro sono le eccellenti cucuzze e devono andare intu ù culu du cucuzzaru.

Ma poi un giorno il cucuzzaro dirà basta.

Bene, signori. Ovviamente il racconto è una piccola sintesi della storia della propaganda ambientalistica crotonese, soprattutto in determinati ambienti istituzionali. Non vado nei particolari e nei nomi perché beccherei querele o sarei tacciato per pazzo.

Ma il fatto è che la spazzatura per strada continua ad esserci. Non la spazzatura del cafone di turno. ma quella che si accumula nei cassonetti provocando le cosiddette montagnuole maleodoranti. Vi raccomando l’estate poi. Beh, adesso ci sono le mascherine. Quelle in qualche modo proteggono dal cattivo odore.

Però intu ù culu del cucuzzaro continua a mietere vittime tra i cittadini.

E nel frattempo si parla, si parla, si parla.

Ma di soluzioni sempre intorno al racconto che vi ho appena narrato.

Aurélien Facente, 13 giugno 2021

Cambia partito che l’erbaccia resta, ovvero l’epidemia del candidarsi…

La democrazia è un termine abusato in questo periodo. Nei tempi nobili, la democrazia era fondata sul rispetto del voto che si scambiava perfettamente con la ricerca dell’eccellenza della rappresentazione elevata all’interno di una enorme stanza del potere che doveva amministrare lo Stato.

In Italia per un pezzo questo andamento c’è stato. Me lo ricordo. Attenzione, la politica ricercava l’eccellenza e la formazione. Non andava per gradimento, ma andava nelle piazze a cercare di parlare con la gente. E il gradimento (così come i fischi) erano immediati. Ma significava soprattutto guardare le persone in faccia. Essere consapevoli che tante promesse non si potevano tradurre in realtà, ma costruire qualcosa di forte sì.

Ora, all’alba delle elezioni regionali calabresi, il quadro è molto complesso. Parliamo del primo male: l’astensionismo.

Da qualche anno (troppi anni, a dire il vero), il calabrese ha ormai preso la cattiva abitudine di disertare le urne, salvo quando ha la possibilità di trovare uno spazio di protesta dove sa che il suo voto sarà palese. Vedi il caso dei 5stelle alle elezioni nazionali, dove qui hanno fatto il pieno in tutto e per tutto. Salvo poi, alle regionali, arrivare a sacche di astensione che superano largamente il 50%, il che pone a sfavore della politica calabrese che negli anni ha perso grande credibilità tra cialtronerie, inefficienze, degrado politico e culturale.

Che il politico medio calabrese non sia amato tanto dai calabresi è già un dato di fatto, ma che la politica locale non si sia fatta un esame di coscienza e un bagno nella realtà è anche un altro dato di fatto. La percezione della realtà da parte della politica calabrese non è prettamente quella che servirebbe a dire il vero.

C’è però un altro dato preoccupante e ridicolo allo stesso tempo.

C’è un’epidemia di candidatura che preoccupa. Sembra che non ci sia, ma in realtà c’è eccome. Ecco perché ho voluto fare l’introduzione.

La candidatura al ruolo politico non proviene da una richiesta precisa della popolazione stessa, che con il desiderio di votare vedrebbe volentieri più rappresentanti. No, in Calabria, e in particolar modo a Crotone, sta dilagando una moda a candidarsi perché si è carini, simpatici, strafighi, e del progetto politico ben poco si sa tranne che si candidano perché… alla fine più che la politica appaga il loro desiderio di protagonismo. Attenzione, tengo conto che ci sono persone che ci credono all’idea politica in sé, ma se dovessimo scavare con attenzione ci renderemmo conto che sono troppo pochi.

Ormai è cronaca che una signora senatrice crotonese eletta in Calabria si candida a sindaco di Roma per conto di una compagine di liste civiche. Diritto suo candidarsi nell’arena romana, ma leggendo le sue motivazioni ispiratorie, per quanto desiderose di giustificazione, si può notare che sono più un atteggiamento da protagonismo piuttosto che spinto da un vero progetto politico, tra l’altro condiviso. Basta leggere le sue stesse parole con attenzione, e non c’è mai il pronome noi, bensì l’io predomina, con il marcato desiderio di confrontarsi con gli altri candidati romani, come se Roma non avesse già i suoi problemi. Al di là degli auguri, la realtà sarà molto severa. Però la signora ci crede… Vedremo in autunno se le rose cresceranno o meno.

Caso curioso è De Magistris. Non la persona, ma il progetto politico che sta formando. Un progetto con marcata identità di sinistra, ma che poi non è così di sinistra. Sembra una copia malfatta dell’Ulivo, quell’agglomerato di partiti di centrosinistra che riuscirono ad arrivare al governo della nazione, ma con risultati politici molto discutibili.

Anche nelle sue fila, c’è qualcuno che ha questa malattia del candidarsi. Non credo che il sindaco De Magistris sia fesso, ma un po’ ingenuo è. Per i nomi che sta raccogliendo da una parte e nel voler far credere a forza che lui è il nuovo che avanza, ma con conoscenze che fanno parte del vecchio.

Certo, mi dirà il buon sindaco di Napoli, però che è difficile raccogliere candidature da parte di gente nuova, visto che i nuovi se ne vanno via dalla terra di Calabria.

Lo stesso problema lo vivono pure gli altri candidati alla presidenza nel trovare gente nuova, ma poiché il De Magistris è quello che viene da fuori il problema si fa più evidente. In attesa di un programma reale da comprendere, sto notando i mercenari che sta assoldando di volta in volta. Se avere Mimmo Lucano ha un suo perché (De Magistris ha adottato politiche molto simili a Napoli), per il resto c’è da mettersi un po’ le mani nei capelli. Perché il rischio di vedere un’accozzaglia è lampante. Tra i volti nuovi, si nota quello di una noto consigliere comunale di Crotone, tra l’altro eletto con una coalizione che correrà avversaria a De Magistris stesso. E quale sarebbe la ragione di tale scelta, se non una voglia matta di candidarsi in modo figo e simpatico. Qualcuno mi farà notare che è un diritto candidarsi. Ma è doveroso rimarcare che ci vorrebbe più coerenza e meno figheria. Ma tant’è che sarà il popolo calabrese a decidere (e sarà bravo a non decidere vista la massiccia confluenza nel partito dell’astensione).

Ovviamente avverrà qualcosa di simile anche nel centrodestra calabrese, sempre a Crotone. Ora i nomi non son ancora ufficiali, ma tra i tanti c’è quello di qualche buontempone non tagliato per la politica che crederà di essere eletto a prescindere dai voti che riuscirà a racimolare. Si presenterà perché è figo, bello, intelligente, ma del programma elettorale non ci capiremo nulla perché l’ingresso al consiglio che rappresenta una bella indennità mensile sarà talmente lampante che probabilmente vedremo al posto dei suoi occhi le cosiddette $$$, che da sole vogliono dire tanto. Ma anche qui, ci tengo a ripeterlo, ci saranno persone che credono nel progetto politico e che meritano rispetto. Perciò è doveroso chiedere uno straccio di programma chiaro.

PD e Cinquestelle non sono pervenuti ancora perché protagonisti di uno psicodramma che li perseguiterà per tutta la campagna elettorale, e la probabilità di essere i più evitati è altissima.

Infine ci sarebbe Tansi, l’indipendente. Per la seconda volta corre da solo contro tutti i pronostici, proponendo il suo progetto personale. Al momento la sua è più una scommessa che un progetto consolidato, ma ha già un suo appeal per piacere. Potrebbe pagare lui più di altri l’astensionismo calabrese, ma se dimostrerà coerenza potrebbe essere la vera novità, ma tutto dipende ovviamente da come farà percepire il suo progetto agli elettori, soprattutto dopo l’incidente separatorio con De Magistris. Prima erano amici, ora avversari. E quest’ultimo aspetto potrebbe incidere moltissimo, per l’uno e per l’altro.

Insomma, questo è l’attuale quadro che si presenta. Ma se sui candidati alla Presidenza della Regione Calabria si scriverà molto e troppo, la stessa cosa non succederà per i candidati al Consiglio Regionale.

Un vecchio detto dice: “Campa cavallo che l’erba cresce.”

In Calabria potrebbe diventare “Cambia partito che l’erbaccia resta.”

Sì, perché di candidati ce ne son tanti e troppi, ma l’erbaccia resta. Eccome se resta…

Aurélien Facente, 12 luglio 2021

La lezione che la Nazionale Italiana dà nelle sue imprese…

L’Italia azzurra ha vinto il Campionato Europeo più bizzarro della storia del calcio. Un Europeo rimandato di un anno per via del Covid-19, ma alla fine si è disputato con una vittoria, che guardando il percorso, è strameritata ed entra di diritto come forse una delle più belle vittorie dello sport.

Ha vinto la squadra prima di tutto. Giusto riconoscerlo, perché nessuno è stato protagonista a discapito degli altri. La squadra ha vinto e non l’individualismo. Qui, Roberto Mancini è stato bravo a realizzare un capolavoro sportivo, e i numeri gli danno ragione, visto che la Nazionale in tutto il percorso europeo non ha avuto una sconfitta. Ed è giusto che la Coppa sia figlia sua, dimostrando che oltre a essere un genio è anche un allenatore preparato. Non era scontato andare a vincere a Wembley.

Questa Italia entra nella Storia perché è un remake di altre tre nazionali molto amate. Quella del 1982 ovviamente, quando si vinsero i mondiali spagnoli. Una squadra molto umana che riuscì a vincere meritatamente in mezzo ai giganti. Poi mi piace ricordare Italia 90′, una nazionale che perse la semifinale ai rigori contro l’Argentina di Maradona, ma che seppe dare una lezione di sport comunque (e vinse il terzo posto proprio contro l’Inghilterra). Infine c’è la vittoria del 2006 in Germania. Una nazionale fatta di star che non fecero le star. Una squadra che psicologicamente era provata dallo scandalo calciopoli, che un passo alla volta arrivò in finale vincendola ai rigori con la Francia in una partita dai continui colpi di scena fino all’ultimo rigore. Ma anche qui vinse la Squadra. Contro tutto e tutti, dando un calcio alla paura dell’onta e dell’incertezza.

L’Italia (nazione) è stata falcidiata dalla paura del Covid-19 (una paura sulla quale hanno marciato in molti, a cominciare dalla politica e dai media. Inutile fare l’elenco di baggianate televisive che hanno accompagnato la Nazionale in queste settimane.

L’impresa dell’Italia azzurra riporterà un po’ di cose in ordine. Prima di tutto il lavoro di squadra, messaggio importantissimo che vale sempre. Se c’è una squadra che ha fatto la squadra è proprio l’Italia. Questo dovrebbe servire di lezione più alla politica italiana che si perde nel protagonismo più bieco (il che fa capire perché l’Italia nazionale produce decine di milioni di spettatori piuttosto che i loro insulsi dibattiti televisivi).

Ovviamente dà un calcio alla paura. E non è una cosa scontata. La notte di festeggiamenti che si è consumata tra domenica 11 luglio e il lunedì 12 nelle piazze scriverà una storia leggermente diversa per quanto riguarda la pandemia da Covid-19, almeno per come ce l’hanno raccontata.

L’impresa di una nazionale di calcio che vince abbatte la paura, ed inevitabilmente offre un’opportunità di speranza per il popolo. Questa carica di allegria ci apre le porte di un risveglio, il che sarà importante anche ai fini di certa scienza (anche se dei precedenti c’erano già stati, ma a sprazzi e non attentamente osservati). Questo non implica la fine della pandemia, ma ovviamente sarà un capitolo molto importante per il modo di affrontarla, ovvero con maggior coraggio e meno apocalisse.

L’impresa sportiva ci regala un ritratto reale della salute del Paese. Qui, la politica mediatica fin qui ci ha regalato un ritratto di un popolo che non dà rispetto alle tante minoranze (sessuali, razziali, religiose). Le piazze della notte non sono così. Tanta gente in piazza tutta unita e pronta a sorridere. In Italia ci sono molti problemi, ma alcuni li immagina molto la politica. La notte tra domenica e lunedì racconta di un Paese che ha ben altre ferite, e che ha un bisogno fermo di tornare a sorridere. Altro che razzismo e discriminazione. Lo sport di squadra è immune per natura da queste problematiche, ed è con i gesti spontanei che fa vedere che si va ben oltre le differenze. I ragazzi della Nazionale sono andati oltre l’odio e la paura, e hanno dimostrato che l’applicazione, il gruppo, il fare squadra, e l’essere semplicemente se stessi aiuta a combattere meglio determinati temi piuttosto che farsi dare qualche lezioncina da qualche moralizzatore in tivù. Gli uomini della Nazionale azzurra sono rimasti loro stessi, e questa è la più grande lezione di sport e di civiltà che si potesse dare agli occhi del mondo.

La meritata vittoria della Nazionale Azzurra ai danni dell’Inghilterra, l’eterna incompiuta, non risolverà tutti i problemi della nazione Italia. Questo è ben chiaro. Ma una vittoria del genere aiuta eccome. Questa storia sportiva aprirà inevitabilmente un capitolo nuovo nella storia dell’Italia nazione. Perché il suo messaggio di vittoria inevitabilmente passerà e fungerà da esempio.

Questa non è una vittoria dell’individualismo e del protagonismo bieco.

Si tratta di una Vittoria della Squadra.

Questa è una Vittoria che va raccontata con il seguente messaggio: un passo alla volta andando sempre avanti, e mandare a quel paese qualsiasi tipo di sondaggio o di moralismo.

Grazie, Azzurri. Grazie per questa pagina di Sport.

Aurélien Facente, 12 luglio 2021

Lo sapete come pensa la vittima di un bullo?

Scenario. Crotone. Lungomare. Sabato sera. Ritrovo dei giovani in prevalenza. Periodo: in pausa pandemica, la gente tende ad uscire. I giovani, quelli che la politica decanta spesso e male, sono come bestie incattivite uscite dalla gabbia. Gli episodi di risse e litigi ormai sono una consuetudine, e il fenomeno negativo è affrontato male sotto tanti fronti, a cominciare da quello politico e giornalistico.

Vi spiego come funziona. Due soggetti litigano e vanno alle mani. Le urla e i gesti attirano e si forma la cosiddetta ruota. Andiamo a vedere che succede è la frase che si alterna con le urla dei protagonisti. La rissa non viene solo tra giovani. Capita anche agli adulti.

Sono decenni che questa è una triste tradizione degli usi e costumi crotonesi. I motivi possono essere i più svariati, ma la prima causa è sempre il cervello scollegato dalla realtà, seguita da un certo machismo che deve dimostrare la legge del più forte nella giungla.

Già, perché le bestie incattivite si sentono forti, e soprattutto autorizzate a farsi valere.

Capita anche al ragazzo gracile di uscire e di voler passare la sua serata. Già, perché non tutti hanno il cosiddetto fisico del lupo. C’è anche chi nasce più gattino, diciamo. Mi scuso se uso termini di animali, ma non voglio offendere. Voglio provare a descrivere il fenomeno per come è, senza mettere in ballo razzismo, fascismo e omofobia. Il bullismo, quando si manifesta, se ne sbatte di questi termini.

All’inizio avviene con una battuta. Il bullo, da lontano, fa la sua battuta infelice. A Crotone si usa spesso la parola “ricchione” quando si vede un ragazzo gracile. Se poi si veste in modo non tradizionale o magari ha un nome non comune, allora il bersaglio entra nella mente del bullo, che si autorizza da solo a colpire.

All’inizio lo fa per attirare l’attenzione. Ma la risposta del ragazzo è timida, e sarà sempre mal tollerata. Nelle serate che passano (susseguiti dai giorni) il bullo si rende conto che può continuare a colpire, e ogni volta che colpisce si sente più forte. Non esiste un perché a quello che fa. Per il bullo accanirsi sul prossimo fa parte del rito animale del predatore più forte. Ma mentre un predatore uccide per nutrirsi, il bullo lo fa per altre motivazioni.

Spesso coinvolge il suo branco di amici lupi. Sì, perché si coprono a vicenda e quando il malcapitato prova ad accusare, il gruppo si unisce definendo l’altro come un folle, e che loro magari avevano solo scherzato. All’inizio tutti giocano la carta del fraintendimento, ma non è così. Il loro scopo è sempre passare il tempo per portare avanti la loro supremazia. E sono talmente abili da scegliersi il bersaglio, perché sanno di agire in un contesto dove lo stesso bersaglio difficilmente parlerà e dove l’omertà si tramuta in facili moralismi da Facebook.

E poi capita il sabato sera. Qualche bottiglia di alcol in più, magari accomunata a qualche tipo di droga in alcuni casi. Ma il contesto rende più feroce il bullo. Perché lui si sente forte in mezzo al pubblico. E succede che la provocazione si tramuta in offesa sistematica. La vittima, spesso, si allontana. Sì, perché è meglio ignorare, usare l’indifferenza, piegare la testa. Ma l’indifferenza alimenta la ferocia del lupo, che si sente sempre più autorizzato a perseguitare la vittima. E allora lo segue con la macchina, si procura il numero di telefono per fargli qualche dispetto, si crea un profilo ad hoc su Facebook per disturbarlo.

All’inizio è difficile che le vittime parlino. Perché per loro significa ammettere di essere deboli e inadeguati, e la maggior parte delle volte temono di non essere credute. Perché magari un chiarimento lo hanno chiesto, ma si sono trovati una platea di persone cui non gliene fregava un cazzo di niente. Oppure gli tirano la scusa che è un bravo ragazzo che ha qualche problema e va compreso.

Se accade questo, per la vittima è finita. Perché l’immagine del bravo ragazzo è la perfetta maschera del bullo. E allora si rassegna. E tenderà a subire, senza avere la protezione adeguata. Perché il suo silenzio sarà il prezzo da pagare.

Così gli insulti e gli abusi aumentano. E la vittima continua a soffrire in silenzio. Per un tempo senza tempo. Deve provare a mantenere la pazienza, perché è quello che gli dicono gli altri, tra cui forse anche il genitore. Ma il tempo della sofferenza si allunga e schiaccia.

Quindi arriva il sabato sera. E scatta qualcosa. Magari la vittima si è stancata e risponde al bullo in un modo che non possa essere uno scambio di battute. Inizia l’aggressione fisica e si forma la ruota. C’è anche chi filma. Il circo delle belve si esibisce sul lungomare. Non ci sono tifosi, ma spettatori di uno spettacolo penoso.

Alla vittima non gli farà male il sangue che gli esce dal naso, ma dello sguardo degli altri. Quello sguardo che lo perseguiterà più del pugno. Perché sa che con quel gesto il bullo, il più delle volte, smette di tormentare e andrà per la sua strada. Ma lo sguardo degli altri resta. Perché puoi ammettere di essere più debole, ma non potrai mai farlo se l’umiliazione assomiglia ad un’esecuzione in pubblica piazza.

Il danno è fatto.

Il giorno dopo è sempre il peggiore. Perché dalle botte ti puoi rimettere, ma delle ferite dell’anima no. Non subito almeno. Ci vuole tempo per quelle. E il non sapere quando finirà ti farà ancora più male. L’unica consolazione è che adesso si sa che c’è un bullo che ti ha picchiato e che ha fatto la sua figura. Ma non risponderà alla domanda che ti affligge: perché tu?

Per la tua diversità? Per la tua fragilità? Per la tua unicità? Per la tua debolezza? Perché tu? Sono solo alcune tra le mille domande che ti tortureranno l’anima, mentre proverai a mettere un po’ di ordine in un conflitto emozionale strettamente personale.

Ma il giorno dopo è sempre il peggiore. Perché finisci sulla bolla degli altri, sulle tastiere degli smartphone, diventi il titolo di qualche giornale. La speculazione del pettegolezzo arriverà a farsi passare per solidarietà, e per te sarà il ritratto dell’ipocrisia. Perché tu non crederai a una comunità che è rimasta guardarti, e magari l’aiuto è venuto proprio da chi non ti aspettavi. Sai benissimo che c’è qualcuno di buono, ma sai anche che c’è tanta indifferenza di comodo.

Adesso ti trovi all’interno di un labirinto emozionale, e per trovare l’uscita dovrai fare piccoli passi alla volta. Diventerai più forte, ma sarai anche molto diffidente. Lo so perché ci sono passato anche io.

Ho letto anche io tante parole su Facebook e tanti articoli. Molti a usare il termine omofobia. No, non si chiama omofobia. Si chiama cattiveria. Perché quando un individuo ti perseguita lo fa per cattiveria. Un bullo non conosce volutamente determinati termini perché vuole il passatempo e basta. Lui avrà al sua condanna, ma non sarà facile strappargli il perché delle sue azioni cattive. Perché il bullo lo fa e basta. Puoi provare a parlargli, ma il bullo non ragiona perché non vuole passare per un debole. Potete incolpargli la famiglia per come lo ha cresciuto, ma in realtà il bullo indossa una maschera di crudeltà, e per sfilargliela bisogna che il tempo passi o che almeno provi almeno un po’ di quello che la sua vittima ha provato. E allora capirà, e forse si redimerà.

Crotone, mia amata e odiata Crotone. Il paradiso è soltanto la maschera che i tuoi abitanti indossano per non guardare il lato oscuro della società. Voi, cari concittadini, non avete idea di quante storie come questa siano presenti da decenni. Di sicuro non si affrontano con qualche post su Facebook.

Aurélien Facente, 30 giugno 2021

La morte del signor Nessuno

Ciao, mi chiamo Nessuno. Sono una persona che non ha un volto. Vivo nella tua città. Ogni tanto ti vedo, sai. Magari provo a sorridere. Ma tu non ricambi mai.

Come me, ci sono tante altre persone. Persone senza volto e persone senza nome. Persone che non guarderai mai in faccia, e nemmeno vorrai ricordarle.

Non te ne faccio una colpa. Le persone sono strane. Selezionano, o meglio scelgono con chi rapportarsi. Oppure scelgono di vivere la solitudine a tal punto da voler essere invisibili.

Io sono invisibile ai tuoi occhi. Magari c’incrociamo vicino ad un supermercato, ma non mi degni di uno sguardo. Ti saluto pure, ma il tuo buongiorno è distante. Mi ricambi il saluto giusto per educazione, ma poi finisce lì.

Io sono una persona senza volto e senza nome. Ho una seria difficoltà a farmi vedere da te. Perché i tuoi occhi sono coperti da un velo che non definirei ipocrisia, e forse nemmeno paura. Sono occhi coperti dal velo della convenienza. Perché in una cittadina come Crotone l’apparenza conta eccome.

Nella mia solitudine, riesco a vedere bene le persone. Le vedo ogni giorno. E le conosco pure.

Ogni tanto trovo qualcuno che scambia parole con me. Ma si tratta di una persona senza volto e senza nome come me, magari anche senza casa. Ma ci sono anche persone senza volto che si odiano tra loro. La vita in mezzo ad una strada ci rende talvolta bestie, e a volte è solo il modo di capire che siamo umani anche noi. E quando facciamo vedere questo nostro lato allora ti giri, e ci guardi. Capisci che il signor Nessuno esiste, ma poi basta.

Preferisci lasciarci nella solitudine.

Perché è così che vuole la gente con la quale ti immischi. Meglio stare in mezzo ad una folla piuttosto che provare ad ascoltarci.

Ma non ti condanno, sai. In fondo, magari me la sono cercata. E allora mi merito di vivere questa condanna chiamata indifferenza. In fondo, anche io ci metto il mio.

Molti ne fanno una questione di pelle. Ne vedo di signor Nessuno come me che hanno la pelle diversa e provengono da luoghi lontani. Ma ognuno di noi ha una sua storia, una sua vita, una sua avventura e una sua sventura. Abbiamo la caratteristica di vivere alla giornata, quando sorge il sole iniziamo a vivere e durante la notte proviamo a cercare un riparo. Qualche signor Nessuno lo trova, ma in un posto come Crotone dove non esiste un dormitorio pubblico… Beh, allora diventa la strada la nostra principale casa. Magari mettiamo su una tenda improvvisata. Un buco lo troviamo. E appena scende il silenzio, allora proviamo a dormire anche noi.

Siamo una piccola comunità adesso. Tra noi non ci amiamo tanto, forse perché ogni signor Nessuno è uno specchio riflesso dell’altro. Ma ci facciamo compagnia. E ci chiediamo spesso perché ci troviamo qui.

C’è qualche furbastro tra noi. In fondo siamo esseri umani. Il furbastro se ne approfitta, ma non sempre è così. La società dei qualcuno è talmente egoista che preferisce vederci nella solitudine e nella povertà. Accetta la nostra esistenza. Siamo tollerati, ma non siamo considerati. In fondo, il signor Nessuno non alza la voce e se lo fa diventa un mostro agli occhi degli altri.

Ma chi è il signor Nessuno? Potrebbe anche essere un tuo vecchio amico d’infanzia, con cicatrici profonde causate dalle sventure dell’esistenza.

Per avere un nome, devo aspettare la mia morte. Che magari sopraggiunge. E mi trovano in mezzo alla strada, su una panchina, sull’erba secca di un campo, sulla spiaggia di mattina. Raccoglieranno il mio cadavere, e allora sui giornali è probabile che uscirà il mio nome, la mia provenienza, e magari qualcuno racconterà la mia sventura. E così saprai che sono esistito, e la cosa mi farà sorridere.

Perché tanti dei tuoi pari punteranno il dito contro il sistema sociale e politico nel quale si troveranno. Perché anche loro hanno paura di diventare un signor Nessuno. Per me l’ombra della morte non è evitabile. Sopraggiunge e basta. Ne sono sempre stato consapevole quando ho capito che la mia casa non aveva un tetto. Però esisterò per te quando sarò morto. Una beffa per me trasformata in tragedia da chi lo scriverà sui giornali.

Ma sarò fortunato. Perché forse in questa città ci sarà qualcuno che proverà a scrivere del signor Nessuno, e proverà a raccontare una storia, e proverà a dire che ci sono quelli come me, e proverà a raccontare che bisogna essere consapevoli della propria ipocrisia se si vuole combattere l’indifferenza.

Non sono arrabbiato con te. Tanto, ormai sono morto. Se provi ad accendere una candela per me o solo se provi a spendere un piccolo pensiero per me sarà già tanto. Ma fammi il favore di essere sincero per favore. Perché il 99% delle persone mi dimenticherà nel giro di qualche giorno, e non saprà più nemmeno il mio nome. In fondo è il meccanismo crudele dell’esistenza.

Ma da qualche parte, qualcuno proverà a scrivere del signor Nessuno. E magari gli darà un viso, e scriverà una storia. Non per il gusto di fare chissà quale morale, ma con la voglia di raccontare una storia e basta.

La storia dell’esistenza del signor Nessuno.

Aurélien Facente, 28 giugno 2021

NDA: L’ho scritto ieri, di getto. Domenica 27 giugno 2021 è stato ritrovato sulla spiaggia il corpo di un uomo. Al di là della causa del decesso, i giornali web con le loro prime uscite hanno riportato notizie contraddicenti tra di loro. Prima si trattava di uno straniero, e poi di un cittadino crotonese, e poi non s’è capito bene. Qualche fatto privato magari è fuoriuscito. Sono arrivati puntualmente commenti e condivisioni. Si continuerà a parlarne per qualche giorno, poi arriverà il silenzio. E aspetteremo il prossimo signor Nessuno.

Inginocchiarsi non è una moda, ma deve essere un gesto spontaneo

Sta facendo discutere una strana moda culturale contro il razzismo. Sembra che adesso inginocchiarsi per dimostrare di essere contro il razzismo sia diventata la priorità per dimostrare di non essere razzisti. Beh, la simbologia può avere un significato profondo quando il gesto è spontaneo, ma non imposto.

In occasione degli Europei calcistici, se ne stanno ascoltando di tutti i colori letteralmente. Ormai è evidente che ci sono nazionali multietniche (la Francia in primis, ma anche Inghilterra, Italia, Germania per citarne altre). Lo sport mette pace dove la politica non riesce. La storia dello sport è piena di queste imprese. Basta studiarla. Nello sport tutto deve essere all’insegna della spontaneità. L’abbraccio degli azzurri italiani in mondiali passati è stato un esempio di forza e di unione.

Eppure la moda dell’inginocchiarsi deve essere praticata per forza. Come se la cosa dimostrasse già da sola che sconfiggerà il razzismo. Mi rendo conto che ci vuole una simbologia, ma se viene imposta da qualche capopartito per fare il piacione agli occhi del mondo rasenta l’ipocrisia al massimo.

Enrico Letta, ad esempio, impera in televisione con questo tipo di pensiero, che si potrebbe condividere se la cosa fosse vista come un invito alla riflessione. Ma evidentemente Enrico Letta e simili non hanno letto André Gide o James Baldwin nel dettaglio, oppure non conoscono il cinema di Spike Lee o forse non hanno nemmeno visto il film “Mississippi Burning” di Alan Parker. Potrei andare avanti nell’elenco di autori. Doveroso ricordare Harper Lee con il suo libro “Il Buio oltre la Siepe”. Ma potrei continuare.

Sono autori che, attraverso varie forme di narrazione, hanno combattuto e parlato meglio del razzismo più di altri, ma non hanno mica chiesto agli altri di inginocchiarsi.

Il simbolo della scusa, della richiesta del perdono, del porre la mano in segno di pace è un gesto di grande discrezione semmai. Deve avere una sua spontaneità se avviene con una certa discrezionalità. Se deve avvenire perché si deve fare spettacolo, allora sarà finto. O apparirà come tale. Non sarà convincente.

Ci sono modi e modi per dimostrare di non essere razzista, caro Enrico Letta.

Educare alla lettura di opere come “La Prossima Volta il Fuoco” di James Baldwin all’interno delle scuole, oppure farlo rieditare in una collana di libri economici affinché possa raggiungere una platea.

Promuovere la visione del cinema di Spike Lee nelle università o anche nelle scuole stesse, o perché non trasmettere in prima serata su RaiUno film come “Jungle Fever” o “Fà la cosa giusta” invece di propinarci di serate a perditempo con facce come quelle dei politici attuali? Non sarebbe meglio?

Fare gesti concreti di solidarietà senza fare la continua predica, evitando determinati spettacoli.

Lasciare spazio ad una vera informazione reale, e non ad amplificazioni della realtà.

L’uomo bianco ha commesso tante porcherie in passato, ma non è l’uomo bianco di oggi. Oggi la maggior parte degli uomini bianchi sanno che ci sono anche i gialli, i rossi e i neri. I bambini già crescono insieme senza guardare il colore dell’altro. Basta farsi un giro nelle scuole per verificare. Basta vedere quando giocano insieme, e quando saranno adulti troveranno il modo di continuare a essere amici. Lo faranno spontaneamente, non perché gliel’ha detto qualcuno in televisione.

Perché qua si decanta, ma non si guarda la realtà nel dettaglio.

Ogni luogo ha una storia. Ogni luogo ha delle persone. Ogni luogo si arricchisce quando il prossimo sa di avere le stesse possibilità di crescere come l’altro, in termini lavorativi, economici e culturali. Ogni luogo si arricchisce quando questo avviene con una certa spontaneità. Ogni luogo si arricchisce quando io voglio conoscere l’altro per quello che è, non per quello che mi appare. E richiede un certo tempo tra l’altro. Non si obbliga, ma si educa. Vale per me, come vale per l’altro.

La violenza si combatte sempre. Ma non lo fai imponendo. Perché la violenza c’è sempre stata. L’essere umano è violento per natura, e solo con il tempo acquisisce la saggezza. E l’acquisisce con la conoscenza e con la voglia di stare insieme all’altro.

Le grandi trasformazioni della società non sono mai avvenute perché l’hanno voluto fare i politici, che nella storia sono stati spesso i peggiori negazionisti. Basta studiare il mondo in cui agiva Martin Luther King. O provate a chiedere ad André Gide quando andò in Congo per poi tornare a denunciare il cattivo colonialismo francese. Ci saranno purtroppo sempre sacche di violenza e di ignoranza, ma si combatteranno sempre quando la voglia di conoscere e di stare insieme saranno spontanee.

La conoscenza è la migliore arma contro il razzismo, la cultura per combatterlo, il gesto spontaneo per dimostrarlo. Non perché lo dice qualcuno in televisione.

Un gesto ha sempre bisogno della discrezionalità del cuore per essere sincero. E sarà sempre così.

Aurélien Facente, 26 giugno 2021

Vi racconto un episodio curioso tutto crotonese

Mi è capitato un episodio curioso stamattina, mentre cercavo di capire come riprendere a far funzionare questo blog. Ho preso una pausa dalla scrittura perché avevo altre cose da fare, e negli ultimi tempi stavo molto riflettendo. Purtroppo è difficile scrivere quando sai che la lettura non è una cosa importante nel paese dove vivi.

Crotone è un posto dove la lettura, intesa come tale, non è una grossa prerogativa, anche se a onor del vero vedo ragazzi leggere. Basta vedere come le librerie (poche) riescono a vendere bene i cosiddetti manga. Ma questo non è un articolo sui manga.

Crotone è una ridente cittadina che ama vestire i panni della metropoli senza nemmeno esserlo. Non nascondo di vivere qualche problema culturale, ma chi è che non li vive oggi?

Sono assente da qui da parecchio tempo. Ho perso, costruttivamente, tempo a fare lo speaker su Facebook in modo preponderante. Ed è stato un esperimento fondamentale che mi ha creato molti nemici.

E già. Perché quando provi a raccontare la realtà, sembra che bisogna essere tifosi per forza di qualcosa o di qualcuno. Fare il tifo per il buonsenso è qualcosa di non totalmente obiettivo qui a Crotone. Ma tant’è che in qualche modo, da sempre in posti come Crotone, raccontare dà fastidio eccome.

Avrei potuto prendere lo smartphone e raccontare l’accaduto. Ma preferisco scriverlo. Adoro scrivere, anche se non sembra. Però scrivo. E adesso ritorno a farlo, con più lucidità.

Stamane incontro Mimmo, un parrucchiere di vecchia data. Mi rimprovera perché mi devo fare i fatti miei, perché devo stare zitto e fare in modo di tenere bassa la testa. Lo dice convinto, e afferma inoltre che ha visto un mio video dove criticavo l’amministrazione comunale che non si prendeva cura della parte inferiore di Viale Regina Margherita, dove ci stanno giardini un pochino mal messi, e un piccolo immobile deposito di biciclette (il famoso bike sharing) fermo da tempo, con tanto di biciclette lasciate all’abbandono e in balia della ruggine. Biciclette pagate con soldi pubblici, e man mano che il tempo passa il rimetterle a posto sarà lievitato nei costi.

Ma non finisce qui. Sembra che io ce l’abbia con l’assessore, che non mi devo permettere di criticare l’assessore. E che mi metterò nei guai perché non mi faccio gli affari miei.

L’ho guardato. E ho capito come sta male la gente a livello psicologico e di come il degrado sia talmente profondo nella città di Crotone che ormai è diventato un delitto dire pubblicamente che ci sono biciclette, comprate con soldi pubblici, lasciate all’abbandono. Diventa un delitto sperare che un buon progetto possa rivivere perché fattibile.

Bene, Mimmo, se a te piace essere mangiato dal degrado è un affare tuo. Ma siccome vivo in una città che è attualmente una bella donna truccata male, allora senza chiedere miracoli prego l’attenzione almeno sulle piccole cose. E non smetterò mai di farlo. Altrimenti si ritorna a commettere sempre lo stesso tipo di errore che purtroppo rende Crotone una maglia nera in senso della qualità della vita.

Dopo l’acceso confronto con il depresso Mimmo che non ha nulla da chiedere alla vita, allora mi sono fatto un piccolo esame di coscienza. Sul ruolo del narratore di una cittadina come Crotone. Serve effettivamente?

Sì, serve. Perché non si può vivere in una finzione eterna autoconvincendoci di stare nella città più bella e più sana al mondo. Questo tipo di racconto va bene a chi se ne approfitta e va bene a chi si arrende facilmente. Questo tipo di racconto va bene ai fancazzisti (e ce ne stanno). Questo tipo di racconto non gioverà all’immagine di Crotone, perché poi si nota quando una donna è truccata bene oppure no.

Purtroppo per Mimmo e per altri, mi sa che ritorno a scrivere, pure più di prima se serve. Perché in fondo è anche colpa di qualche personcina se alla fine mi riduco a scrivere quello che osservo e quel che ascolto.

Grazie, Crotone.

Un ultimo appunto: io voglio vedere una Crotone più bella. Non sono il solo a pensarla in questo modo. E per renderla ancora più bella bisogna prendere cura soprattutto delle cose più piccole. Ed è sempre bene ricordarlo a un’amministrazione comunale. Non si tratta di una critica, ma di uno stimolo, che oggi più che mai serve.

Aurélien Facente, 19 giugno 2021

Vincerà sempre il desiderio di normalità sul virus

Potevo sprecare parole sulla tastiera per quanto riguarda il racconto del virus che opprime l’Italia, quel Coronavirus che è più presente nei media piuttosto che nella realtà. Non preoccupatevi, non nego l’esistenza di una malattia. Semmai combatto contro l’onnipresenza mediatica che non è l’antidoto al virus, ma una tortura psicologica continua.

La tv sostiene che la lotta alla pandemia sia costituita da una strana alleanza tra politica e medicina, che nell’insieme decidono di chiudere il mondo come se questo solamente potesse servire per liberarci da un virus ostico.

Purtroppo i media da tempo hanno rinunciato a raccontare l’umanità, soprattutto in Italia.

Nel blog di oggi vi voglio far vedere tre scatti presi stamane a mare. Tre scene sequenziali.

Stamattina è una bella giornata. Esco ogni mattina per andare sulla spiaggia con il cane, e uso spesso lo smartphone. Lo considero uno strumento essenziale almeno per un diario d’immagini da guardare poi con calma. Ho fotografato queste scene, tenendo conto della privacy dei soggetti, presi in lontananza e mai in volto scoperto.

Poi con calma ho rivisto le foto con attenzione. Ho visto il comportamento delle persone.

L’essere umano è un essere naturale. Fa parte del regno animale. Non è una pianta o un metallo. Si tratta di un essere vivente che nasce, cresce, vive, si realizza, invecchia e muore.

Si muore. Verità che non si può controbattere.

Ma c’è una altra verità.

Si vive anche. E l’essere umano in vita andrà sempre alla ricerca di un posto dove vivere, crescere, realizzarsi, e magari starsi fermo solo a stare a contatto con la natura. Lo fa da sempre. Una legge della natura e della vita.

Stamane ho avuto modo di vedere le persone sulla spiaggia. E il loro modo di vivere la spiaggia mi ha dato la risposta che cercavo, che ho sempre saputo, e che ciclicamente si ripete nelle catastrofi naturali.

C’è una cosa che un virus non può battere. Così come non lo potrà mai fare la politica, e nemmeno gli scienziati chiusuristi del Covid-19.

Il richiamo della natura.

L’essere umano seguirà la sua natura. Lo farà d’istinto in modo inevitabile. L’essere umano aspetta, ma non ha il dono per aspettare in eterno. Il bisogno di vivere prenderà il sopravvento. Non lo fermerà la medicina, non lo fermerà la politica, non lo fermerà la legge, non lo fermeranno le chiacchiere su Facebook. Piaccia o meno, l’esistenza riprenderà il suo cammino.

E quando l’esistenza riprende il suo cammino, sa che lo farà pur sapendo che ci sono morti e malati.

Non è una questione di puro egoismo.

Si tratta di un meccanismo naturale. Crudele forse, ma naturale.

Perché un nonno vorrà sempre passare un po’ di tempo con suo nipote, perché un bambino vorrà trovare uno spazio per correre, perché due persone che si amano magari rallentano ma alla fine vorranno stare insieme, perché dietro il sacrificio deve esserci una speranza… Ma se la speranza viene disattesa, allora il sacrificio verte su altro.

Stamane ho visto scene di vita.

Pura e semplice vita.

E sarà la vita a battere il virus.

La storia della natura ce lo insegna, anche se molti negheranno questo aspetto perché preferiscono continuare ad avere paura, desiderando che altri provino la stessa cosa. Peccato che poi i fatti non si presenteranno tali nel tempo che verrà.

Testo e foto di Aurélien Facente, 4 marzo 2021

22 febbraio 1991/22 febbraio 2021: del quando conobbi l’aggressione fisica dei bulli…

Ho pensato molto prima di scrivere. Avevo da pensare. Perché quando racconti la tua esperienza, ti trovi una pattuglia di soggetti che ti dice di non farlo, che fai male a passare per vittima, che tanto non interessa a nessuno.

   Può darsi, ma di sicuro non sono stato il solo a essere vittima di un bullismo a Crotone che è stato snervante. Forse mi ha aiutato a realizzare una corazza che oggi, in piena epoca Covid, mi è servita. Ma le ferite, quelle, non guariscono. Quelle restano, e quelle che fanno più male sono dentro.

   Qualche settimana fa, a Crotone, è circolato per via web un video dove s’intravede una zuffa violenta tra ragazzi. Polemiche, dibattito acceso, prese di posizione, la volontà di mettersi alle spalle l’episodio cercando di dare almeno un esempio. Ho visto il video, e per giorni sono rimasto a pensare. Perché quella zuffa mi ha riportato indietro di 30 anni, esattamente al 22 febbraio 1991.

   Avevo dodici anni. Frequentavo la scuola media Corrado Alvaro, che all’epoca si trovava all’interno di un palazzo in Via 25 Aprile, tra la scuola Ernesto Codignola e quella scuola superiore che noi chiamavamo semplicemente “Il Professionale”.

   Da ragazzo non ero il classico ragazzo sportivo che amava giocare a calcio per le strade del quartiere. Quando si è adolescenti purtroppo non si ha la coscienza di scegliere quello che si vuole essere, e soprattutto non si può avere il fisico adatto. Sono cose che ti condannano.

   A me piaceva il basket, il primo gioco di squadra che praticai con un certo entusiasmo. Il basket è uno sport molto completo, indifferentemente da quello che si dice. Equilibrio, forza, cervello. Ha tutto quello che serve per aiutare lo sviluppo caratteriale di una persona. Il campo da basket si trovava in un tendone da piscina dentro lo stadio Ezio Scida, quando il Crotone calcio era una piccola società dilettantistica. Ricordi di un periodo che pochi conoscono.

   Io non ero il migliore a basket. Pagavo il tardo sviluppo fisico, e perciò mi concentrai molto sulla disciplina. Cioè palleggiare bene per avere il pieno controllo della palla. IN realtà pagavo il mio carattere timido.

   Si faceva amicizia e c’erano anche scontri. A 12 anni gli scontri tra ragazzi hanno una ragion di esistere. Ma finiva tutto all’interno del campo da gioco.

   C’era un ragazzo più grande. Uno dei tanti. Non faceva basket, ma dava un’occhiata al fratello più piccolo. Fin qui nulla di male, ma di sicuro era stato mandato lì dai genitori che non avevano tempo di guardare entrambi. E allora il fratello baby sitter è il classico tipo che si annoia perché vorrebbe fare altro. E quando sei quattordicenne, vuoi fare altro e non il baby sitter. E quando ti annoi a Crotone, ecco che prendere in giro qualcuno diventa il primo passatempo.

   Papà e mamma m’insegnarono a non dare mai confidenza a chi non conoscevo. Ma quel ragazzo era insopportabile quando pensò di beccarmi. La cosa seccante era che lo faceva mentre mi stavo allenando. Quel pomeriggio di febbraio gli diedi una risposta istintiva, ma non volgare. Non gli dissi una parolaccia, ma gli feci capire che era indesiderato. Il tipo borbottò qualcosa, ma non me ne curai.

   Qualche giorno dopo, esattamente il 22 febbraio 1991 alle ore 13.30 all’uscita di scuola, un paio di braccia mi presero alle spalle all’improvviso e mi sbatterono con forza contro le sbarre della scuola Codignola. Venni preso a schiaffi dal tipo di qualche giorno prima ed era in compagnia di un complice, suo compagno di scuola. Mi presero a freddo, e mi ritrovai circondato da sguardi di ragazzi e ragazze che volevano solo rientrare a casa. In quel momento non mi facevano male gli schiaffi, ma gli sguardi indifferenti degli altri. Non c’era nessun adulto pronto ad intervenire.

   Quello che mi fece più male fu l’umiliazione.

   Non mi chiedete quanti schiaffi presi.

   So solo che riuscii a dimenarmi.

   I due mi avevano picchiato perché avevo osato rispondere qualche giorno prima e basta, e che non mi dovevo permettere di scherzare.

   Tornai a casa barcollante. Qualcuno mi accompagnò vedendomi piangere. Ma non erano gli schiaffi che mi fecero male. Fu l’umiliazione del momento. Sapere che nessuno aveva osato quantomeno alzare la voce. Sì, perché era una zuffa da ragazzi. Lasciamoli fare. Tanto non sono figli nostri. Che se la sistemino fra loro. E nel 1991 non c’erano i telefonini che filmavano.

   Tornai a casa con voluto ritardo. I miei si preoccuparono nel non vedermi tornare, ma a piccoli passi con lo sguardo basso tornai a casa. Solo che non volli essere abbracciato. Mi vergognavo apertamente per quello che avevo provato.

   Ci fu qualche settimana dopo un incontro risolutore. Mio padre, che era insegnante, parlò con i ragazzi davanti a me. I due non dissero esattamente che mi avevano preso alle spalle a freddo e immobilizzato alle sbarre davanti a tutti. Loro si stavano divertendo e basta, perché era un gioco che facevano spesso.

   Non dissi nulla. Ma capii che il bullo tende sempre a mentire, a sminuire, a volerti convincere che gli schiaffi sono in fondo come delle carezze affettuose. Sono rimasto zitto perché prima di quell’incontro il fratello più piccolo mi aveva pregato con estremo rispetto di non essere cattivo. E se sei in una squadra, devi fare squadra.

   Ho preferito il silenzio e non aggravare la cosa ulteriormente.

   Crotone non era pronta nel 1991 ad affrontare il bullismo per quello che era.

   A distanza di anni, quel silenzio fu una sorta di perdono sotto certi aspetti. Perché poi, dopo qualche tempo, ti vengono raccontate altre storie, forse anche più brutte della tua. Perché Crotone è una città che nasconde molto bene quello che non va. Perché quando un bambino viene picchiato in un’ora di punta come l’uscita da scuola (e su quel pezzo di via 25 Aprile ce n’erano ben tre di scuole) e nessuno interviene, allora qualche domanda te le fai.

   Mi sono rifatto la stessa domanda 30 anni dopo.

   Mi ricordo la data perfettamente perché è nel 22 febbraio 1991 che ho conosciuto sulla mia pelle gli schiaffi dei bulli. Ma nello stesso giorno ho conosciuto la vergogna causata dall’indifferenza. Ecco, quella sì che fa veramente male. E allora capisci da dove nasce la vera cattiveria. E se non calmi la rabbia, la frontiera dell’odio verso il prossimo è facilmente superabile. Mi ricordo bene di questo episodio perché per anni ho odiato Crotone e i suoi abitanti, vergognandomene anche.

   Ho deciso di uscirne appena ho maturato gli strumenti per uscirne. Un cammino lungo e complesso. E lo può capire solo chi lo ha vissuto. Oggi la storia sarebbe stata diversa, perché ci sarebbe stato sicuramente uno smartphone a riprendere. Nel 1991 era già abbastanza se avevi una macchina fotografica a pellicola.

   Mi auguro che questo racconto possa essere d’aiuto per chi ha vissuto qualche momento simile.

Aurélien Facente, febbraio 2021