Coronavirus KR – Quel silenzio che non va bene

La mattina mi tocca passare da quella scuola elementare. Mi succede quando esco con il cane. Un breve giro dell’isolato per restare nella norma dei duecento metri imposto dalle ordinanze governative e regionali. Per cinquanta giorni almeno sempre lo stesso paesaggio. Palazzi con persone che stanno sul balcone che ti osservano come un oggetto estraneo, gatti selvatici che ormai hanno preso possesso del parco inutilizzato, e poi ad un certo punto ti ritrovi le scuole. Già, la scuola elementare della Santa Croce, poi magari ti ritrovi a guardare la scuola media Giovanni XXIII, e infine la Anna Frank.

   Solitamente a quell’ora del mattino, m’ero abituato ad ascoltare i clacson delle auto, e osservavo i genitori che accompagnavano i figli nelle loro scuole. Conversazioni tra mamma e figlio o tra papà e figlia, o viceversa. Scene di assoluta normalità di un giorno appena iniziato qui a Crotone.

   Oggi le scuole sono chiuse. Non sai quando riapriranno. Il dramma lo vivono certamente i ragazzi e i bambini, così come gli insegnanti. Obbligati a stare dentro casa e a evitare il contatto con i compagni. Una prova durissima che metterà in secondo piano lo studio, nonostante ci sia la migliore delle forze di volontà.

   Oggi c’è questo silenzio.

   Puoi ascoltare le auto passare, ma non ascoltare l’energia dell’infanzia e dell’adolescenza tra le aule è un duro colpo al cuore. Sembra di ascoltare il vuoto di una vita interrotta.

   Tutti a parlare del Coronavirus, e nessuno che si preoccupa di questo silenzio anomalo, brutto, dannoso.

   Certo, c’è la sicurezza e la salute da mettere in primo piano.

   Ma ciò non toglie che questo silenzio sia brutto.

   Ritorno alla mia memoria da ragazzo. Non ero uno che amava tanto andare a scuola. No di certo, ma sapevo che era importante. Ho i miei ricordi che tengo strettamente nel mio cuore, tra alti e bassi. Ma se fosse capitato a me, mi sarei angosciato nel sapere che non avrei potuto risedermi in quel banco accanto al mio compagno di classe.

   Il silenzio che ti zittisce ti rimette in moto un duro confronto con te stesso. Ti rendi conto di quanto manca il vocio dei ragazzi tra una lezione e un’altra. Ti manca sentire qualche maestra che si fa la voce grossa per tenere la disciplina. Ti manca il bidello che apre le porte della scuola, e magari lo vedi che alla fine delle lezioni si mette a pulire con impegno l’aula.

   Scene di quotidianità preziose.

   E ora silenzio.

   Un silenzio che non va. Anche se si tratta del prezzo della prevenzione e della quarantena. Non cambia la sostanza. Resta sempre un silenzio che non va.

Aurélien Facente, aprile 2020

Coronavirus KR – Un mese è appena passato

Crotone. Emergenza Coronavirus giorno 31. Oggi si può dire che è passato un mese vero e proprio, di quelli lunghi. Un mese di quarantena, la cui grandissima parte del tempo tra le mura di casa. Esci solo se vai a fare la spesa, e se hai il cane giusto nel raggio dei 200 metri.

   Un mese è tanto.

   Che cosa ho imparato in un mese?

   Che il caro Coronavirus esiste e fa paura.

   Fa molta paura nel racconto televisivo e anche su internet, dove la gente si rifugia per trovare conforto umano, e si trova a condividere immagini e filmati (di cui molti realizzati ad arte per condividere il terrore).

   Ho imparato a indossare la mascherina, soprattutto quando entro in un supermercato o in una farmacia.

   Ho imparato a organizzare la spesa per velocizzarmi meglio, e dare subito il posto di chi ha bisogni diversi da me.

   Ho imparato a star di nuovo da solo, ma la cosa non mi è mai pesata a dire il vero. Sono abituato alla solitudine. Semmai sono gli altri a non avere un dialogo con loro stessi.

   Ho imparato a usare i guanti, ma solo quando tocco le superfici comuni esterne.

   Ho imparato a lavarmi le mani spesso, ma lo facevo già prima.

   Ho imparato che c’è tanta gente che ha paura, e che ha bisogno di sfogarla in qualche modo. Manca l’ascolto, e dove non c’è ascolto si acuisce l’odio per l’altro, solo perché magari sfrutta la sua possibilità di uscire.

   Ho imparato che tutte le forze dell’ordine sono formate da esseri umani, con pregi e difetti, e che è sempre meglio scambiarsi informazioni prima di tutto. Il buonsenso è la prima regola, ma ovviamente deve essere accompagnato dallo scambio. Perché il capirsi è la prima regola, anche quando non si è d’accordo.

   Ho imparato a conoscere un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ci mette la faccia sempre e comunque quando si tratta di assumere decisioni che sembrano impopolari.

   Ho imparato che ci sono Presidenti della Regione che parlano alla gente, come De Luca ai suoi campani, e Presidenti della Regione, come la magica Jole, che hanno difficoltà di comunicazione.

   Ho imparato che il mondo dell’informazione è in seria crisi con se stessa, tanto che non riesce a mettersi in ordine.

   Ho imparato che abbiamo tanti scienziati che parlano, parlano, parlano….

   Ho imparato che c’è una guerra silenziosa. Quella dei medici e degli infermieri nelle corsie degli ospedali, tutti adibiti al Covid-19.

   Ho imparato a prendere decisioni difficili e dolorose, soprattutto per quanto riguarda la mia sopravvivenza mentale, che è la più importante in questo momento.

   Ho imparato che la conta degli amici si riduce tantissimo, per poi scoprire che si può essere amici con il proprio vicino.

   Ho imparato ad ascoltare il silenzio del giorno, quando prima ascoltavo il silenzio della notte.

   Ho imparato che le persone hanno paura di mettersi in regola con la propria fragilità, che era mascherata dal finto benessere diffuso, e sapere che si deve uscire mascherati ne fa il simbolo di uno dei paradossi di questa esistenza.

   Ho imparato a voler sorridere e a voler sembrare folle nel mio essere anticonformista, pur rispettando le regole emanate, per essere ancora di più me stesso, nel bene e nel male.

   Ho imparato a essere presente, anche se nel virtuale. Una presenza giornaliera, anche nelle azioni quotidiane più comuni, aiuta a sorridere.

   Ho imparato che ci sono persone che avrei dovuto conoscere prima, e altre persone che forse sarebbe stato meglio non conoscere.

   Ho imparato che la paura va combattuta, anche quando gli altri ti urlano su Facebook che devi stare a casa, come se si potesse contraddire la legge del destino, dove ognuno è padrone di se stesso, perché alla fine è sempre così.

   Ho imparato che c’è tanta negatività in giro perché non si vuole dare un pugno alla paura.

   Ho imparato a dare un sorriso anche in una telefonata.

   Ho imparato tante cose, caro Coronavirus. Ma proprio tante cose.

   Grazie a te, non posso vedere la città di Crotone con gli stessi occhi, e perciò mi godo quei piccoli particolari che posso cogliere nelle brevi uscite necessarie.

   Ma di sicuro c’è una cosa che ho imparato, caro Coronavirus. Non ti sottovaluto, anzi ti rispetto sotto certi aspetti.

   Perché nella tua aggressività, ho capito quanto molta politica sia paurosa, quanti scienziati e medici che vanno in tivù siano molto confusi, quanto pressapochismo ci sia in giro, e quanta fuffa burocratica sia uno dei mali di quest’emergenza, quando forse si dovrebbe parlar di meno e dare maggior peso all’azione e alla reazione.

   Sono sicuro che ci saranno altre cose che imparerò.

   Ti ringrazio, Coronavirus. Ma veramente tanto. Credimi.

   Però c’è una cosa che voglio dirti sinceramente: io non ho paura di te.

   Forse un giorno le nostre strade si potrebbero incrociare. Ne sono consapevole. Ma non pensare che io abbia paura, soprattutto quando so che hai spezzato le vite di tante persone che avrebbero voluto respirare una seconda possibilità.

   Per questo motivo, non posso permettermi di avere paura di te.

Aurélien Facente, aprile 2020.

Coronavirus KR: La Domenica delle Palme

Crotone. Ventottesimo giorno di quarantena. Domenica, ma è come se fosse un giorno come un altro.

   Oggi, scendendo il cane, sono andato alla macchinetta del caffè sul piazzale Ultras. È un piccolo rito molto utile. Un caffè. Odorarlo. E poi sentire la brezza del mare, mentre il silenzio della città di Crotone continua. Ascolto qualche onda, mentre avverto un po’ di luce in questa domenica un po’ grigia sul mio viso. Poi risalgo. Giusto qualche auto che circola. E poi quando risali per Via Roma, ti senti estraneo.

   Perché è una domenica che ti aspettavi magari bella; e so di essere un privilegiato in questa breve camminata. Alzo lo sguardo verso l’alto dei palazzi, e vedo qualcuno sui balconi. Ognuno di noi, nel proprio silenzio, è tragico compagno di sventura in un periodo dove ogni giorno è uguale all’altro, in attesa che la catena venga in qualche modo sciolta.

   Ascolto musica in lontananza. Vite di persone che trovano rifugio in qualcosa che dovrebbe alleggerire una domenica che non è una domenica.

   Oggi è la Domenica delle Palme.

   Quand’ero piccolo, ma proprio piccolo, scendevo in piazza accompagnato da mio nonno Pasquale, fervido credente, e con lui andavo in Piazza Duomo, dove c’erano i venditori delle palme. Nonno Pasquale mi comprò una volta una barchetta fatte con le palme, e mi raccontò la storia di Gesù.

   Non potevo capirla allora. Avevo, penso, cinque anni.

   Piuttosto ero affascinato dal verde delle palme.

   Ognuno scendeva in Piazza Duomo per portare la propria palma a casa. Un rito che ho visto ripetersi anno dopo anno.

   Oggi, quasi quarant’anni dopo, quel rito non s’è ripetuto.

   Ci hanno detto di stare a casa il più possibile per non rischiare di essere colpiti dal mostro invisibile che si chiama Coronavirus.

   Oggi il sole non sembra esserci a Crotone. Un caldo leggero mi accarezza il viso. Alzo lo sguardo in alto, e persone che osservano la libertà che non c’è. Che scena triste! Già.

   Continuo il mio breve cammino, ritornando al ricordo di mio nonno che prese per me la barchetta delle palme. Sento ancora la sua mano sicura su di me, e mi domando se mio nonno, da qualche parte, sia in qualche modo fiero di quello che faccio, giorno dopo giorno.

   Io non ho mai visto mio nonno immerso nella paura. Qualche volta ha peccato d’imprudenza, ma non l’ho mai visto assalito dalla paura. Non l’ho mai visto piangere. Non credo che l’abbia fatto, se non verso la fine, mentre la vita lo abbandonava.

   Ho ripensato a lui oggi.

   E mentre stavo per ricordare il momento della sua fine, ho subito stoppato il pensiero.

   Succede che la memoria fa brutti scherzi se non sai fermarla.

   Mi rimetto a ricordare la scena di Piazza Duomo, davanti alla Chiesa principale di Crotone. Ogni giorno, mio nonno mi portava in chiesa. Si ascoltava la messa. Lui faceva l’offerta. Ogni volta che ci andava. Non grosse somme, ma piccoli spicci che distribuiva ad ogni cestino. E poi si fermava a contemplare sempre lui, il Cristo.

   Quand’ero piccolo, non capivo questo suo rito. Non ho mai osato chiederglielo. La fede è qualcosa che si può provare a capire solo quando si è adulti, e ognuno ha un suo percorso molto personale.

   Oggi, 5 aprile 2020, siamo senza palme.

   Persone che si affacciano sul balcone. Alcuni a respirare e altri a guardare l’estraneo che sono io che cammino sotto il loro balcone in questa breve passeggiata.

   Si chiude un’altra settimana strana, inedita, terribile e oscura.

   Ma oggi ho ricordato mio nonno e la barchetta di palme che volle comprare e darmela.

   Adesso ricordo bene.

   Lui la comprò da un signore che aveva problemi economici, ma non mi ricordo se aveva perso il lavoro o era tra quelli che si “arrangiavano”.

   Nonno non comprò la barchetta per omaggiare il Signore, ma solo per aiutare una persona.

   Oggi non ci sono le palme ad allietarci le case.

   La vera palma, il vero omaggio per chi crede nella Pasqua, si deve trovare dentro il cuore. Perché è lì dentro che si trova la vera essenza della fede. Almeno per chi vuole crederci.

Aurélien Facente, 5 aprile 2020

Coronavirus KR: Volete essere umani o preferite essere sciacalli?

Nell’ultima settimana a Crotone ne sono successe di cose, di cui alcune molto brutte, che in una situazione di emergenza nazionale purtroppo fanno parte del bollettino giornaliero.

   Non voglio parlare di morti, di guariti, di contagiati, ma di come si sta comportando l’essere umano comune dinanzi a tutto questo.

   Se da una parte c’è un continuo bombardamento di notizie (tra l’altro con titoli a effetto che contribuiscono al panico delle persone), dall’altra non abbiamo un’organizzazione statale tale da garantire regole uguali e chiare (tanto che ogni giorno cambiano regolamenti) e soprattutto non garantisce nemmeno una comunicazione chiara, netta, sincera. E diciamoci la verità: va bene il bollettino di guerra, ma una parola dolce per chi sta dimostrando di rispettare le regole? Niente? Non esiste il rincuorarsi un po’?

   Certo, le priorità sarebbero altre.

   La prima priorità è combattere il Coronavirus. Giusto. Tutti in prima linea a cantare per i medici, gli infermieri e le tante forze dell’ordine che si sacrificano.

   Ma c’è un ma.

   Perché semmai lo avete dimenticato, è giusto ricordarlo.

   Ci sono le persone di tutti i giorni. Operatori di supermercato, fruttivendoli, macellai, pescivendoli, operai, camionisti, autisti, avvocati, e l’elenco continua per un bel po’. Ci sono anche i disoccupati e i senzatetto. Si chiama popolo, e ognuno ha le sue esigenze.

   Ma la critica qui non va al governo, che sta giocando una terribile partita a scacchi con il tempo e l’organizzazione (il processo si fa alla fine di questa brutta pagina storica, mai durante), ma con una piccola classifica di episodi che non vanno per niente bene.

   Cominciamo subito dal primo episodio: rimbalza la notizia di 300 operatori sanitari in malattia? Pane per i sciacalli dell’informazione, che subito ci costruisce la storia del secolo.

   Tutti poi a condannare, senza aspettare che la storia, seppur anomale, ha bisogno di chiarimenti. Al momento in cui si scrive è intervenuta la Procura, e le carte sono state acquisite dalla Guardia di Finanza. Lo Stato quindi funziona perché verifica, ma intanto quanto veleno addosso si è buttato e si butta in questa situazione?

   Ci scandalizziamo. Ci inorridiamo. Ma non sappiamo più aspettare, e come sciacalli ci nutriamo del cadavere che non c’è. Leggiamo la letterina che qualche operatore si fa pubblicare da qualche giornale, ma noi non vogliamo credere al fatto che dietro un camice bianco c’è un essere umano come noi.

   Non esiste l’eroe invincibile e imbattibile. Oddio, ci sarebbe. Ma si tratterebbe di una rarità. Il resto sono esseri umani che, per quanto condannati per ruolo professionali, saranno costretti a scendere in prima linea se servirà. E se succederà, vuol dire che nel territorio crotonese allora il controllo sul contagio è perso. E continueremo ad avvelenarci.

   Capita una barchetta di pochi migranti che attracca sulla passerella di Crotone. E vai con le foto e le parole di fuoco. Altro veleno. Dimentichiamo che sono esseri umani come noi, respirano come noi. Magari non avrebbero dovuto partire, ma intanto sono partiti. E noi sappiamo da dove scappano? Magari scappano da alcune raffiche di mitra dal loro paese di origine. Però non lo vogliamo accettare. E diventiamo sciacalli.

   Poi ci sono le amicizie che si spezzano inevitabilmente. Oggi si spezzano via social, perché nel proprio profilo tutti devono apparire forti e invincibili. Quando sarebbe meglio ammettere la propria fragilità davanti a qualcosa che non possiamo vedere, né toccare. Ripetiamo tutti bravi nel dire che dobbiamo stare a casa.

   Ma nessuno ha la forza di fare i conti con se stesso.

   Si condanna la persona che va a piedi a fare la spesa, o solo perché fa uscire il cane, e si allontana il giusto per non sporcare il marciapiede. E allora qualcuno ti scrive anche che faresti meglio a uccidere il cane.

   E devi sopportarlo. Anzi, devi proprio fregartene.

   Tu devi stare a casa e devi stare zitto.

   Noi possiamo fare ironia.

   Tu no.

   Anzi, devi metterti a piangere come noi. Devi sentirti prigioniero come noi. Devi sentirti debole come noi, devi essere sciacallo come noi.

   La mia risposta è no.

   Preferisco essere umano. Continuare ad apparire in video ogni giorno e più volte al giorno. So che non piace, ma se la mia presenza rincuora qualcuno e lo spinge a fare meglio nel proprio piccolo allora so che si tratta di un pezzo di umanità che si rimette in funzione. Perché io so che ci sono persone che stanno peggio di me e non sanno a chi rivolgersi anche solo per un bicchiere di acqua. Voi non li vedere, non li sentite, perché in fondo chi è debole si vergogna a volte di chiedere aiuto. Perché sa che in questo mondo di sciacalli tutti punterebbero il dito contro il più debole, anche solo per vederlo piangere. Già, perché condannare il debole vi rende più puri e più forti. All’apparenza, visto che siete chiusi in casa a puntare il dito.

   E così vi comportate da sciacalli.

   Quando in verità dovreste ammettere la vostra umanità.

   La rabbia può servire, ma l’odio no.

   Ognuno di noi legge la paura a modo suo.

   Chi crede di essere forte, non ammetterà mai di essere fragile. Anzi, la fragilità fa orrore. E quando ti fa orrore, la verità è che tu stai vedendo in faccia la fragilità, e ti si piazza davanti il prezzo che serve perché tal fragilità diventi un punto di forza.

   Non c’è nulla di male nell’ammettere di essere fragili.

   Ma lo sciacallo non l’ammetterà mai, e perciò trasmette il suo veleno, contagiando anche gli altri. Altro che Coronavirus.

   Mi dispiace, cari sciacalli.

   Preferisco essere umano. Preferisco provare a capire. Preferisco riconoscere che nell’altro, anche se ha una divisa, ci sia dell’umanità, e che come me può avere attimi di fragilità. Gli parlo da umano e basta se serve a rincuorarlo.

   Non punterò mai il dito addosso ad un altro come me solo perché si rivela nella sua fragilità. Gli dirò sempre: “Reagisci.”

   Perché c’è un momento in cui bisogna reagire alla paura.

   Perché quella stessa paura, se non l’affronti, ti farà diventare uno sciacallo.

   Ecco perché ogni giorno la mia miglior vendetta è quella di vivere bene. Magari con poco, ma vivo bene ugualmente.

Aurélien Facente, marzo 2020

Coronavirus KR: Il testo della mia amica Mariapia Giulivo

Foto di Aurélien Facente, tratta dalla serie “Mare Cromatico”

Avevo chiesto in qualche diretta Facebook e Instagram di poter pubblicare sul suddetto sito alcune storie di questo periodo di quarantena forzata. A dire il vero, pochi hanno raccolto il mio appello, perché narrare la propria esperienza, il proprio pensiero, e quello che vi passa per il cuore di sicuro può aiutare gli altri. Capisco perfettamente che non è facile, ma psicologicamente aiuta sapere che siamo nella stessa barca.

   Chi è Mariapia Giulivo?

   È un’amica, per quanto mi riguarda, ma è soprattutto una poetessa che ha pubblicato libri, ed è una delle personalità culturali che in questo momento stanno combattendo, come noi tra l’altro, la voglia di uscire e prendere una boccata d’aria.

   Lei viene spesso a Crotone, e adora Capo Colonna. Cerca di non mancare mai alla festa della Madonna di Capo Colonna che si tiene a maggio. Sotto certi aspetti, è molto più crotonese lei di me. Però, siccome mi ha mandato un testo molto particolare, lo condivido con voi. Lo battezzerò semplicemente: Coronavirus.

   Tira una brutta aria. Di umanità tradita, di panico di paura. Un ‘aria che desertifica luoghi, allontana gli esseri umani, non entra più nei polmoni, non trapassa neppure la luce delle chiese.  Tira un’aria che soffoca la vita, che disidrata le mani, che fa contare i nostri passi per calcolare un metro, che non tollera un innocente colpo di tosse, un lieve starnuto, che è malsana soprattutto nei cuori. Ce ne ricorderemo, quando, vedendo una mano tesa la allontaneremo, perché ci crederemo noi quelli puliti, noi quelli giusti, noi i giudici, noi che ora siamo in ginocchio e sperimentiamo quanto costa la diversità, che prezzo ha la paura, che colore ha un cielo in cui non sai se verrà mai la primavera? Siamo noi, ora, i fragili, noi quelli che stanno vivendo l ‘incubo. Noi che abbiamo ignorato altri dati che uccidono il mondo solo perché lontani, noi, piegati nelle nostre piccole effimere certezze, ora di colpo crollate… Tira aria di apocalittico timore, di contagio, e noi che non sapevamo più contagiare un sorriso, veicolare un perdono, noi che abbiamo fatto del denaro un dio, della materia la sostanza della vita, ora brancoliamo in una specie di anticamera, quella di una attesa che non sappiamo se avrà fine, quando, come… Io non consegnerò la mia umanità a questa paura, non regalerò la mia vita a un virus, io lo guardo vicino o lontano che sia, quasi con pietà. Non dimenticando che sapore ha la pietà che spesso ho sentito sulla pelle, quella che allontana davvero. In modo definitivo… Non dimenticando una frase di una meravigliosa canzone di Fabrizio De André…”il vomito dei respinti” ora siamo tutti. E chi già conosce questa sensazione, no, non può avere paura…Ha preso già coscienza…

Testo di Mariapia Giulivo, 2020

Ringraziando Mariapia per il suo contributo letterario, invito altri a fare la stessa cosa. Raccontare la vostra esperienza personale. Non disperderla su Facebook o altri social. Potete scrivermi sulla pagina pubblica di Facebook al seguente link, tranquillamente in messaggeria privata e con la massima discrezione: https://www.facebook.com/aurelienfacenteblogger

E se lo ritenete opportuno pubblicherò la vostra testimonianza anche con un semplice nickname. Credo che sia giunta l’ora di raccontare per raccontarci e per aiutarci.

Aurélien Facente, marzo 2020

Coronavirus KR: Il funerale silenzioso

E. Manet . Le esequie di Baudelaire

21 marzo 2020. Un giorno grigio di una primavera che oggi non vuole arrivare. Primo pomeriggio del tredicesimo giorno di quarantena imposto dallo Stato per prevenire l’emergenza del Coronavirus.

   Giornate di odio si susseguono sui social. In fondo, a Crotone, non sono tutti lettori di libri o fumetti o patiti di cinema. Oltre al pallone, gli argomenti su cui confrontarsi diventano scarsi. Non offendetevi, amici e concittadini. Purtroppo nel DNA abbiamo abitudini contraddittorie. Un puro fatto culturale e antropologico. E con ciò non vuol dire che non ci siano bravi crotonesi.

   Tutt’altro. Collaborazione, cortesia, solidarietà. Questi sono elementi giganteschi che sono protagonisti giorno dopo giorno in un ruolo d’incertezza.

   Purtroppo sono i social che sono diventati un luogo di scambio di paure, insicurezze, psicosi. Perché la quarantena non rientra nelle abitudini di nessuno, e ognuno fa quello che può, in attesa che la catena si allenti.

   Stare a casa. Già. Come se fosse facile. Eppure uno va a comprarsi da mangiare, e se bada a qualcuno deve fare la spesa ogni giorno. Senza contare le medicine che possono servire. E vogliamo parlare dell’acqua, dei detersivi, di tutto ciò che serve per disinfettare il proprio ambiente. E poi c’è la decisione di non approfittarsi di un servizio come quello delle consegne. Perché sai che c’è qualcuno che realmente non può muoversi. E ha bisogno. E allora la fai l’uscita, ma sai di essere legato ad un guinzaglio.

   Non sono giorni belli. Neanche per i cani, che anche loro sono nervosi perché vivono la nostra libertà. E c’è l’uscita quotidiana.

   Ho imparato a osservare le piccole cose nell’isolato in cui mi posso muovere senza incappare in qualche sanzione. Bisogna essere forti mentalmente, come quel tipo del film “Le Ali della Libertà” che con una sola forchetta per venti anni ha scavato un buco per uscire da quel carcere dov’era stato ingabbiato ingiustamente. Certo, mi dirà qualcuno. Si tratta di un film. Ma la realtà è più di un film, soprattutto quando l’incertezza è dietro l’angolo da molti giorni.

   Scendo, scelgo l’incrocio e incappo in un funerale.

   Oggi si parla di tante vittime del Covid-19, ma nessuno parla dei funerali.

   Perché si continua a morire di altro. Non esiste solo il coronavirus.

   Il funerale di una signora.

   La macchina presente in attesa della salma.

   Poca gente, tutta distanziata, per un saluto silenzioso.

   In questo periodo a nessuno è permesso di avere un funerale religioso.

   Si viene caricati in macchina, e basta. Subito al cimitero.

   Un funerale silenzioso.

   Questa è una delle tante storie che non vi racconteranno. Perché è facile raccontare del bollettino dei morti. Ma nessuno vi racconta che l’ultimo addio è devastante. Perché magari si tratta di un tuo caro che non può nemmeno essere salutato come si fa abitualmente. Una carezza sulla bara. Un abbraccio. Un saluto da vicino. La messa di un sacerdote. L’odore di una chiesa, che è la casa che accoglie i fedeli. Questo oggi non c’è.

   E allora, nonostante cerchi di andare avanti, ti accorgi dello strano silenzio, dell’addio più silenzioso. Il sangue può solo raggelarsi, perché il funerale dovrebbe essere il più dolce degli arrivederci per poi portare dentro di sé il ricordo del proprio caro.

   Oggi è solo un freddo silenzio.

   Un freddo silenzio di un primo giorno di primavera abbastanza grigio.

Aurélien Facente, 21 marzo 2020

Coronavirus KR – Ora è il tempo di essere tutti un po’ come San Giuseppe

Crotone. Quarantena giorno 11. È il 19 marzo. Il sole sta splendendo, ogni tanto accompagnato da un vento fresco. La situazione è di perenne attesa. Siamo tutti in libertà pressoché vigilata, se così si può definire.

   Perché c’è un Coronavirus che si aggira ben invisibile e nascosto. Ogni giorno c’è una conta di morti. Un bollettino che coinvolgerà tutta Italia ormai.

   Ma oggi è anche San Giuseppe, il giorno della festa del papà.

   Ricordo mio papà, Alfredo. Oggi non c’è più. Non posso nemmeno portargli un fiore al cimitero, ma credo che comprenderà. Anzi, forse nemmeno lo avrebbe voluto, conoscendolo.

   Di lui ho parlato anche in altre occasioni.

   Oggi è di San Giuseppe che voglio parlare, conosciuto come l’uomo che ha allevato Gesù per farlo diventare un uomo.

   Non è di religione che voglio parlare.

   Ma solo di provare a capire che bisogna scorporare il Santo da quello che realmente rappresenta. Non si tratta di una bestemmia, perché San Giuseppe è un simbolo che forse non riusciamo o non vogliamo vedere per quello che è, ovvero un uomo che ha scelto di essere padre e di portarne fino alla fine la missione.

   Oggi che cosa vuol dire essere padre?

   Mettere al mondo un bambino e lasciare che cresca da solo, perché può cavarsela da solo?

   Certo, esiste il padre superficiale.

   Poi c’è il padre divorziato, o separato, che il più delle volte è costretto a vedere i figli per qualche giorno la settimana, se gli va bene.

   Ma c’è anche il padre violento, ed esiste perché non ha voluto essere come San Giuseppe.

   E infine c’è papà vero, quello che ti prende per mano e che non si fa sconfiggere dalle avversità dell’esistenza. Il papà vero che ti rimprovera quando sbagli, ma è capace di abbracciarti se tu fai qualcosa di giusto.

   Ma San Giuseppe era altro, ben altro.

   Ha preso per mano suo Figlio prima che nascesse, proteggendolo quando serviva, e facendolo nascere in una calda stalla. Noi abbiamo l’immagine della Sacra Famiglia ben impressa nel nostro presepe. Ma è solo un’immagine.

   Non esiste il papà perfetto, o almeno esiste solo quando il papà non ha paura di definirsi umano, perché solo essendo uomo può dare un esempio ai suoi figli.

   In fondo, San Giuseppe non si era mai mostrato come un guerriero invincibile. Era un semplice falegname, e così è rimasto.

   Purtroppo non abbiamo tante testimonianze scritte sul suo rapporto con il Figlio. Ma sappiamo che è stato fondamentale. Perché lo ha protetto da un mondo cattivo, ma lo ha anche incoraggiato a crescere perché potesse diventare Uomo.

   Vale lo stesso discorso per la donna. Un papà è un papà sia per un maschio che per una femmina.

   Oggi è il giorno dei papà.

   È giusto che ci sia, ed è giusto ricordare.

   Un pensiero va a quelli che non hanno avuto forse un papà adatto. Esistono anche loro, e non bisogna puntar loro il dito contro se non hanno avuto un papà vero.

   Essere papà è prima di tutto una scelta di responsabilità.

   E chi l’abbraccia in pieno, allora acquisisce una grande forza, perché il papà si permette di compiere gesti che senza un figlio non compierebbe mai.

   Il papà può essere tutto.

   Ma sta a lui scegliere di assumersi la responsabilità.

   Scrivo quest’articolo, dedicandolo a tutti i papà che in questo momento storico non possono stare vicino ai loro figli.

   Abbiate pazienza. Siate come San Giuseppe, quando si prese cura del bimbo quando era in grembo. Perché la presenza non deve solo essere fisica, ma deve essere anche rappresentata dalla volontà di parlare con ogni vostro figlio.

   Tanti auguri, cari papà.

Aurélien Facente, 19 marzo 2020

Coronavirus KR: Caro Giuseppe Conte…

Oggi è il 17 marzo 2020. In realtà volevo scrivere a Lei, Avv. Giuseppe Conte, Attuale Presidente del Consiglio italiano, già qualche giorno fa. Ma ho preferito aspettare, perché di lettere aperte ne avrà lette migliaia in questi giorni, molte pubblicate sui giornali.

   Può darsi che un giorno capiterà di trovarsi casualmente a leggere la mia, piccola e insignificante vista la situazione, lettera che le ho voluto scrivere.

   Mi sono preso il tempo di scriverla, senza farmi condizionare da nessun sentimento di rabbia e di paura, che attualmente sono i primi nemici dopo il Coronavirus. Nemici che ognuno di noi deve saper tenere sotto controllo.

   Inizio questa mia lettera con la foto, presa da uno Smartphone, che le farà vedere un tramonto urbano. Ebbene, quello è il tramonto dalle parti di casa mia. Vedo quella scena da 25 anni ormai, e il bello è che il sole tramonta alle spalle della chiesa, San Domenico per essere precisi, dando l’impressione che il sole vada ad accasarsi nella casa del Signore. Una scena suggestiva che sto cercando di rendere ovviamente poetica, senza nessun pregiudizio per chi crede o non crede. Però ho la fortuna di godere giorno dopo giorno di un’immagine simile.

   Purtroppo, ahimé, non tutti possono godere di cotanta bellezza, vista la quarantena imposta per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus.

   In pochi giorni, e Lei lo sa bene caro Presidente, abbiamo tutti dovuto cambiare drasticamente le abitudini. Qualcuno c’è arrivato prima, qualcun altro dopo. Ma nel giro di qualche giorno, diciamo, che l’equilibrio si è costruito e si sta mantenendo, almeno per ora.

   Perché il sacrificio è enorme, ma in linea di massima seguiamo le istruzioni. Lavarsi le mani, usare i guanti, mantenere le distanze, mantenere la fila (anch’essa a distanza), si cerca di uscire il meno possibile. Questi progressi sono stati fatti.

   Poi ci sono i però.

   La motivata paura delle persone, la non immediata reattività, il fatto di trovarsi perennemente su una linea di confine, neanche il tempo di imparare per bene le nuove regole. E queste cambiano spesso, a quanto apprendo dalle tante testate.

   Sia chiaro. Non voglio rimproverarla per il tremendo lavoro che sta facendo in questi oscuri giorni, Giuseppe. La capisco. Lei cerca di tenere dritta la barra di un timone molto fragile in questo momento, perciò Lei, da buon capitano da crociera, sta richiamando tutto l’equipaggio all’ordine. E cerca di farlo senza perdere la calma, perché siamo in piena tempesta.

   Già, Quel nemico invisibile che si chiama Coronavirus ci è piombato in fretta. E lo so che fa paura. Lo vedo negli occhi di chi cerca di mantenere l’ordine. Poliziotti e carabinieri che devono mettere da parte la loro umanità, e non hanno avuto il tempo di recepire bene le informazioni, anche se il loro impegno è massimo.

   La stessa cosa vale per i pompieri e per tutti quegli operatori che sono in mezzo alla strada cercando la via della logica.

   Il Coronavirus e il Caos. Due perfetti alleati in questo tempo sempre più buio abbattono le certezze di chiunque.

   Signor Presidente, a nessuno piace ammettere la propria fragilità. Siamo in una società dove conta solo il più forte, dove conta saper dimostrare di essere forti senza pietà. Una pura e mera illusione, perché il Coronavirus colpisce subdolamente, senza avere pietà. Fa solo quello che la sua natura impone. E non c’è da chiedersi perché.

   Non adesso che non abbiamo una narrazione certa della malattia. Ora si lotta contro il tempo, e sembra che questo ci condanni. No, signor Presidente, non siamo condannati dal tempo. Siamo condannati a renderci conto della nostra fragilità.

   Vede, io mi considero un privilegiato. Ho piccoli spazi di libertà durante la giornata. Le assicuro che nei miei brevi viaggi a piedi verso un supermercato, verso la banca, girando un po’ l’isolato con il cane… Già, mi sento un privilegiato perché assaporo il tempo, pur sapendo che il nemico potrebbe colpirmi.

   E prendo momenti da poter trasmettere agli altri quando posso. Pezzi di colore perché gli altri, che le assicuro restano ben chiusi in casa, hanno bisogno per tener duro. Non basta solo essere sintonizzati sul web o in televisione. Ci vogliono segnali di vita pura e semplice, perché trasmettere quei segnali portano forza nelle persone.

   Io non so se Lei potrà sapere della domenica di Crotone. Della prima domenica della quarantena.

   Solo silenzio. Giusto qualche auto. Sì, perché lei non lo sa ma qui abbiamo una comunità fatta di persone anziane da tutelare, ma anche di malati ad un passo dalla morte, e non per il Coronavirus. Crotone è una città che è stata maltrattata da un inquinamento selvaggio a causa delle industrie, ormai dismesse da più di vent’anni, ma ancora con scheletri presenti.

   Qui lo conosciamo un nemico subdolo e invisibile. Lo chiamano Tumore.

   Perciò, Presidente, tenga conto dei crotonesi. O i krotoniati. Ne tenga conto.

   Perché, a parte qualche grosso vocione, ognuno di noi fa il meglio che può.

   In una settimana, ad esempio, si sono organizzate tante microcomunità per organizzarsi meglio. Un esempio: uno va al supermercato per sapere se c’è l’alcol verde, e se non c’è lo dice agli altri. In altri casi ci si raccomanda di prendere poche cose per velocizzare la fila. Per non intasare. Per facilitare il lavoro del supermercato.

   Poi magari esci più volte. Capita. Non per passare il tempo. Assolutamente no. Dove vuoi passare il tempo a Crotone, se tutte le attività di ristorazione, di somministrazione, cinema, teatro e librerie sono chiuse?

   Non varrebbe nemmeno la pena di farsi un giro. Perché Crotone è già una città dove hanno chiuso ben altre cose, oltre al lavoro.

   Perciò forse abbiamo buon senso di fare le cose per bene.

   Perché il prezzo dei morti lo conosciamo bene.

   Perché il prezzo di chi è andato via per un futuro migliore lo conosciamo bene.

   E io, che son rimasto come tanti, lo sentiamo il vuoto di una casa vuota, senza persone.

   Però, nella prima domenica di quarantena, qualcosa s’è ascoltato.

   Un balcone con bambini che giocano. Qualcuno che canta. Qualcuno che suona. Un po’ di musica ad alto volume. La voglia di ritornare a essere vivi.

   Sono cose che ti fanno sorridere perché ti aiutano ad avere speranza.

   Vedo e ascolto.

   Sono abituato a farlo. Avrei la tentazione di prendere la mia macchina fotografica e fare un ritratto a tutte queste piccole storie belle. Ma non posso. Perché rispetto il tempo concesso della mia microlibertà. E allora mi limito soltanto ad ascoltare, e a pensare che questi sono momenti che almeno vanno scritti.

   C’è la voglia di essere migliori.

   Perciò, caro Giuseppe Conte, quando tutto sarà finito si prenda il tempo di leggere questa mia piccola lettera aperta, se mai ne avrà l’occasione. E magari la legga anche a chi istituzionalmente le è vicino.

   Noi non siamo numeri, signor Presidente.

   Siamo persone, ognuna con una sua storia e con una propria dignità.

   Non rivendichiamo il folle diritto di fare ciò che vogliamo. No. Rivendichiamo il diritto all’esistenza. Perciò quando sarà tutto finito, non pensi soltanto a circondarsi di linguaggi istituzionali, ma si faccia anche circondare da linguaggi molto umani.

   Facciamo il tifo per la vita.

   Con profondo rispetto.

Aurélien Facente, 17 marzo 2020