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C’era una volta una piccola città del sud. Non una grossa metropoli, ma una città ridente sul mare. Non era, a dir il vero, un gran periodo di felicità. Gli abitanti erano tristi, ombrosi, non consoni al sorriso.
Era una città dai mille splendori nascosti, ma un’oscura cappa di tristezza aveva contagiato tutti gli abitanti, facendoli un po’ allontanare dalla voglia di rivolgere il viso verso il sole o verso il mare.
Già, la piccola città si trovava a due passi dal mare.
E come ogni mattina c’era un anziano cane seduto sulla panchina della passerella che passava il tempo a guardare il mare.
Era un cane solitario. Aveva tanti anni, e di lui si raccontavano tantissime cose. A volte carine, a volte molto brutte. Ma il cane camminava per le vie della città, non curandosi delle dicerie.
Preferiva il cammino della libertà rispetto alle catene del pettegolezzo.
Pochi erano gli amici del cane. Tanti erano i suoi nemici, che magari erano invidiosi del fatto che quel cane aveva una personalità spiccata, tendente alla creatività.
Quel cane aveva, infatti, il dono di non annoiarsi mai.
Solitamente i cani sono animali abitudinari, fanno sempre le stesse cose.
Ma quel cane no. Era uno spirito libero, e dava fastidio. O almeno suscitava invidia.
In quella piccola città era molto raro vedere un cane senza padrone.
Tuttavia, quel cane amava stare libero. E tutti, pur mormorando, rispettavano la sua libertà.
C’era una storia che veniva narrata. Una delle poche storie vere sul cane.
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Qualche anno prima, il cane godeva di una conoscenza, ovvero dell’amicizia con un topo di città.
Il topo di città era un tipo che desiderava recitare favole su un palco di teatro viandante, come gli antichi cantastorie che viaggiavano di villaggio in villaggio con i loro carri. Anche lui amava la libertà e sognava di fabbricarsi un carro per fare la vita da nomade, perché voleva conoscere il mondo e fuggire dalla città triste che in cuor suo detestava.
Si era allontanato di sua spontanea scelta da una comunità di topi perché voleva solcare le scene. E aveva fatto amicizia con il cane perché in lui in qualche modo si somigliava.
Solo che il topo era dispettoso con le parole. Gettava veleno infondato quando avvenivano fatti in città che magari non gli piacevano. Il topo non era ligio ai compromessi. Voleva dimostrare al mondo intero che la sua libertà fosse superiore, unica, l’unica vicino alla verità.
Il cane si divertiva con il topo. Grazie a lui aveva preso ad appassionarsi al palcoscenico, alla recita.
Quando il topo saliva sul palco del vecchio teatro abbandonato per allenarsi al ruolo di cantastorie, il cane si sedeva in silenzio e ascoltava con passione il racconto che il topo si inventava di volta in volta.
Un giorno, a causa di nefasti eventi personali, il cane e il topo si trovarono a separare le proprie strade. Madre Natura aveva combinato qualcosa nei confronti del mondo dell’uomo, e appena la tempesta passò il cane riprese a fare le sue lunghe passeggiate, mentre il topo riprese a provare il suo ruolo di cantastorie.
In un determinato giorno, il cane incontrò un uomo molto anziano. Di quell’uomo, in città, si raccontavano tante brutte cose, e alcune di esse non erano vere. Il cane lo sapeva benissimo, perché anche quell’uomo professava una certa filosofia di libertà.
Il cane e l’uomo anziano si misero a discutere per ore. La scena avvenne in pubblica piazza, e per qualche giorno in città si parlò di questo dialogo cortese.
L’uomo anziano era molto ricco. Aveva terre e case, e ovviamente tanto denaro.
Ma era anche un uomo solo, con figli lontani e amici che erano diventati nemici. Si raccontava che l’uomo fosse avaro, in altri casi lo additavano alle spalle come un criminale.
Il cane, conoscendolo da lontano e sapendo che non bisognava andare dietro al pettegolezzo, aveva deciso di dialogare con lui, anche perché un uomo non poteva stare eternamente da solo; perciò decise di intraprendere un dialogo con lui.
Si conobbero e decisero di raccontarsi delle storie, senza pretendere particolari favori. Solo dialoghi amichevoli per ammazzare un po’ il tempo.
Una notte, all’esterno di un’osteria, il cane incontrò il topo di città che stava bevendo una bottiglia di vino con alcuni compagni d’avventura. Il cane scodinzolò e andò incontro al topo di città per salutarlo.
Quando il cane si avvicinò, il topo di città fu cattivo con lui: “In città si narra di questo signore che ti ha dato da mangiare. Tu sai che quell’uomo è un criminale e non dovevi parlare con lui. Ti sei fatto incatenare…”
Parole senza senso. Il cane ci rimase molto male perché magari voleva soltanto dire che il dialogo non si rifiutava a nessuno. Ma il topo di città non volle sentire ragioni, e offese profondamente il cane, umiliandolo davanti ad un pubblico.
Il cane si allontanò con il cuore piangente, e restò sveglio per tutta la notte chiedendosi perché il topo di città si comportava così. Si era accorto che il topo aveva bevuto il vino, e allora in qualche modo cercò di perdonarlo. E allora aspettò che il topo gli scrivesse un biglietto di scuse gentili.
Ma il biglietto non arrivò mai.
E così il cane scoprì il duro prezzo della libertà, che a volte non ti permette di avere gli amici che vorresti avere. E decise allora di continuare a passeggiare in lungo e in largo per le strade della città.
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Il topo di città era fiero. Aveva offeso il cane con estremo orgoglio, e in fondo gli piaceva aver sopraffatto in quel modo il cuore dell’ormai ex amico. Tanto l’amicizia con il cane non valeva nulla ormai. Tanto c’era altro cui pensare. C’era da fare del lavoro nel vecchio teatro, mettere magari su una compagnia da aggiungere al carro, e cominciare a riportare un pochino di allegria tra gli abitanti della città che avevano vissuto un lungo inverno freddo, giusto per cominciare prima di partire per il lungo viaggio.
Mentre stava per tornare nel teatro abbandonato, il topo di città s’imbatté tra le vecchie stradine del centro in un gatto nero che lo guardava con odio sprezzante dai tetti.
Era un gatto possente, ma pieno di cicatrici. Un sopravvissuto delle strade.
Si narrava che il gatto nero fosse in realtà una volta il signore di quel borgo, e che fu cacciato da un cane senza padrone perché il gatto era un terribile prepotente. Il topo conosceva bene la storia del gatto pieno di cicatrici.
Maltrattato da un uomo cattivo, il gatto divenne un criminale senza pietà. Era capace di rubare il cibo ai poveri, ed era dannatamente agile e forte. Ebbe un duello con il cane senza padrone, e fu un duello all’ultimo sangue. Il cane vinse perché era abituato a stare fuori al caldo e al freddo, e soprattutto difficilmente si stancava. E aveva sempre qualcuno che gli dava da mangiare, cosa che purtroppo il gatto non riusciva ad avere.
Le persone non amano gli animali cattivi.
Il gatto piombò sulla strada, e con una zampata spinse con violenza il topo a terra. E poi gli diede l’artigliata finale.
Caso volle che in quel momento stava per passare il cane senza padrone, che si era deciso a voler in qualche modo a dire la sua al topo di città.
Ma la scena che si presentò fu crudele.
Il gatto pieno di cicatrici, accorgendosi del cane, risalì con rapidità sui tetti.
Il cane si ritrovò il cadavere del topo di città.
Il cane continuò a vivere come se nulla fosse, continuando a fare conoscenze e ad ascoltare storie di persone che avevano solo voglia di parlare.
Si avvicinò, lo odorò e disse: “Brutta storia. Beffardo il destino che ha colpito il topo di città. Se solo avesse placato la sua stupida ira, a quest’ora sarei stato in compagnia sua per rimettere in piedi il carro del cantastorie. Ora non posso fare altro che ricordarti.”
Il gatto pieno di cicatrici, invece, si rifugiò su una nave e partì per porti lontani.
Il teatro abbandonato riprese a vivere come teatro di burattini, e quel che restava del carro appena iniziato a costruire diventò una scenografia del luogo, ovviamente senza il topo di città che finì paradossalmente nel diventare lui stesso un racconto cantato dal mastro burattinaio.
Aurélien Facente, ottobre 2020