Cari genitori, bisogna ammettere ai vostri figli che avete una paura matta, altrimenti non ve la perdonano

Crotone, gennaio 2021. Per fortuna non ci si può lamentare dell’inverno. La natura ci sta regalando qualche giornata piena di sole, e forse è questo che rende triste il crotonese medio. Non può passeggiare come prima, e deve stare attento. C’è il coronavirus in giro.

   Ora detta così, sembra che voglia mancare di rispetto a chi il coronavirus lo ha avuto o a chi lo ha vissuto pagandone il prezzo. Purtroppo avviene anche per altri mali, e mi stupisce il comportamento isterico dei crotonesi che hanno vissuto la strage dei tumori.

   Una delle cose più insopportabili è la litania della scuola, e qua il governo c’entra assai.

   È stato ragionevolissimo chiudere nella prima fase le scuole. Avevi a che fare con il coronavirus la prima volta e non sapevi come gestire la cosa. Il problema è che i genitori, già abbastanza preoccupati del loro destino incerto, sono stati alimentati da una comunicazione, anche governativa, fatta solo di incertezza che ha anche coinvolto gli addetti ai lavori, non offrendo garanzie e tranquillità.

   E voi pensate che siano stati i genitori a pagare tutto lo scotto?

   No, sono stati i bambini e i ragazzi ovviamente.

   Con un prezzo fatto di egoismo puro e crudo pur di nascondere la fifa.

   Sia chiaro. Non vado contro la patria potestà genitoriale, ma mi piacerebbe ascoltare le opinioni dei bambini e dei ragazzi. In fondo si tratta della loro possibilità di costruirsi un futuro, eppure cadono vittima di un sistema che ha soltanto prodotto isterismi ed incertezze.

   Qualcuno mi direbbe: “Tu non sei un genitore e non sai che cosa significa.”

   Io rispondo: “So però che cosa vuol dire essere figlio e so che cosa vuol dire quando un genitore usa il bavaglio della paura pur di sentirsi dire che ha ragione, pur sbagliando clamorosamente.”

   Crotone, ma non solo, ha offerto il peggio sulla tematica scuola, proprio cominciando dai genitori.

   Il governo, nell’incertezza, ha dato delle concessioni, pur promuovendo la didattica a distanza, detta DAD (il che mi preoccupa perché la sigla è l’appellativo di papà in inglese, dad appunto). Ma la DAD ha bisogno almeno dell’acquisto di un buon PC. Certo, c’è lo smartphone, ma i ragazzi mica si possono rovinare la vista per stare dietro a lezioni che non sono lezioni. Meglio leggere direttamente qualche buon libro o visionare documentari. Più efficaci, se permettete.

   Ma ovviamente non sono io a decidere.

   Credo fermamente che la scuola e i genitori abbiano perso, almeno parlo per Crotone, la voglia di parlarsi, quindi di avere un’occasione per dibattere sul futuro. Perché dopo sessanta giorni di lockdown si poteva tranquillamente giungere ad una prima conclusione sull’efficacia della didattica a distanza, o almeno provare nuove strade lecite. Basta usare l’ingegno, che fa parte dell’intelligenza o del buonsenso.

  E invece la litania dell’esistenza del virus e basta, senza neanche domandarsi se i propri figli avessero qualche domanda da fare, poiché si tratta di un dibattito che riguarda il loro futuro. Ma no. Meglio crepare di paura e continuare a distruggere, piuttosto che provare ad avviare una discussione fatta di idee (ma si sa che è meglio andare dove porta l’istinto, piuttosto che provare a usare l’intelletto).

   Una brutta pagina di egoismo.

   Fermo restando che sono per la decisione libera del genitore per quanto riguarda la gestione e l’educazione del proprio pargolo, delle quali però se ne deve assumere anche la responsabilità.

   Sono fioccate ordinanze regionali e comunali, seguite a loro volta da ricorsi presso la giustizia. Genitori che hanno espresso legalmente il loro dubbio e ognuno adducendo una propria motivazione legittima. E così accadde il massacro mediatico su Facebook, una delle pagine più vergognose della vita cittadina crotonese.

   Invece di provare a comprendere (almeno per iniziare un dibattito), meglio massacrare e insultare genitori che volevano alquanto capire (oltre al fatto che ognuno presenta una problematica diversa, e almeno in quella andavano quantomeno rispettati).

   Ora il governo italiano ha deciso di riaprire le scuole, usando un misto tra presenza e didattica a distanza. La scuola deve riaprire perché bisogna dare prima di tutto un segnale di coraggio e di ripartenza, e poi sia i bambini sia i ragazzi sapranno dare la migliore risposta in ogni caso, quella risposta che il mondo adulto non ha saputo e nemmeno provato a dar loro.

   Io sono stato bambino e ragazzo, e in più sono stato figlio di insegnanti. Ma conosco anche il mondo dei malati per questioni strettamente personali. Sono stato abituato a rispettare la malattia, ma non a farmi soggiogare dalla paura. La malattia può anche essere un ottimo motivo di discussione sul futuro, mentre nel presente lasciamo che gli addetti ai lavori trovino una soluzione terapeutica.

   Provare a non avere paura è la migliore risposta che si possa dare al mondo medico, oltre ovviamente al rispetto delle precauzioni fin dove è possibile.

   Tanto poi la storia umana prima o poi prenderà la sua risposta migliore. Che lo faccia socialmente o a livello medico poco importa. L’essere umano è stato capace di convivere anche con peggio.

   Però vorrei chiedere qualcosa ai genitori, che più o meno fanno parte della mia generazione (ho 42 anni). Ma al di là delle vostre legittime preoccupazioni, non temete il giudizio che avranno i vostri figli vedendovi così fragili e incerti (oltre che un poco fifoni)? Sapete perché vi faccio questa domanda? Perché credo nell’opportunità del dialogo. Ed è in momenti come questi che la famiglia e la scuola dovrebbero parlarsi, piuttosto che dare peso alle paure. Perciò fate un bel respiro, abbattete la vostra paura egoistica, e iniziate adesso a parlare. Altrimenti sarete voi che avrete bisogno di tornare a scuola, magari in compagnia dei vostri figli più piccoli.

   La vita, dopotutto, è fatta per essere vissuta. E non esiste solo il virus, dannazione!

Aurelien Facente, gennaio 2021

Coronavirus KR – Diario dalla Zona Rossa, primo giorno

   Giorno 1, mattina.

   Mi sveglio tardi volutamente. Non ho fretta. Conosco bene le regole del lockdown. So già dove si trovano i miei confini. Mi vesto, dopo essermi opportunamente lavato. Colazione. Un saluto a mamma prima di uscire con il cane. Ispeziono la mia personale zona rossa. Ho cambiato casa da un po’. Più centrale, ma meno in vista direi. Più adeguata. Nuovi vicini. Meno confidenza. Paradossalmente più spazio di manovra.

   Ho sempre la mascherina addosso. Pochissime persone in giro. Rispetto delle distanze. Anzi, sembra proprio che la gente voglia proprio non incontrarsi. Ma ci si saluta comunque. Dopo essermi fatto il giro mattutino con il cane, riscendo con la telecamerina e faccio la mia diretta numero 1 della giornata. Ho deciso di apparire in video ogni giorno, in differenti momenti della giornata se necessario. Vale lo stesso detto del lockdown: la mia presenza rappresenta una speranza di sopravvivenza mentale per chiunque, anche se sono antipatico. Perché conferma che il virus si può in qualche modo combattere.

   Giorno 1, tardo pomeriggio.

   A casa mia non c’è la televisione. Lo smartphone e il PC sono le uniche cose che servono da ricettore di notizie. Sono convinto da tempo che il mondo mediatico in genere sia più alla ricerca del sensazionalismo verso l’orrore piuttosto che alla sostanza e alla rassicurazione. A Crotone arriva la notizia della protesta. In zona rossa molte attività restano chiuse. Bisogna prevenire il contagio. In verità è la crisi sanitaria che si vuole prevenire. Ospedali al collasso in Italia. Aumento dei contagiati. Il virus fa paura perché il racconto mediatico è impuntato sull’orrore, ma di virus ce ne stanno a migliaia sulla faccia della Terra. Solo che ogni tanto ne esce uno nuovo, figlio della sua epoca. Il Coronavirus è il perfetto virus del ventunesimo secolo. Un virus metropolitano. Un nemico minuscolo e invisibile. A distanza di qualche mese, la società ne prende inevitabilmente le misure. La scelta mediatica è quella di farne lo strumento perfetto per innalzare la paura nelle persone. La politica ne fa un uso misto. Da una parte la paura fa sempre comodo per tenere il potere in mano, che fa sempre comodo in una democrazia. Eccome se fa comodo. Non c’è mica bisogno della mascherina per affermarlo.

   Però sono sicuro che alla fine sarà sempre l’umanità a prevalere sul virus e sulla paura. Lo ascolto dalla voce di qualche amica, dalla sua voglia di sorridere e di vivere.

   Riprendo a scrivere un diario perché la mia personale testimonianza possa servire a qualcuno. Perché anche questa è una forma di solidarietà.

   Per me la mascherina non è una protezione. Assolutamente no. Per me la mascherina fa parte della corazza che indosso. Sono un cavaliere senza padrone adesso. Un cavaliere senza principessa si può dire. Ho una regina. Mia madre. Avrei voluto una principessa vicino a me. Un sorriso mi avrebbe aiutato. Ma terrò duro. Perché forse un giorno lo troverò. Ma in realtà non posso chiedermelo adesso. Ora devo soltanto pensare di essere degno del nome di mio padre, che prima di morire mi ha affidato il compito di proteggere la donna che lui stesso amava, a modo suo sempre, e che ha cercato di proteggere fino alla fine.

   Perciò non mi posso permettere di soggiogare alla paura degli altri. Perché devo fare in modo che mia madre possa sorridere. E così la mascherina diventa un elmo e il mio corpo una corazza. E devo mettere da parte il mio cuore che si dovrà accontentare di amare in silenzio.

Giorno 1, prima serata

   Un po’ di persone per le strade. L’urlo delle persone che vogliono farsi sentire, persone che vogliono vivere, che non vogliono arrendersi, che vogliono lavorare rispettando le precauzioni. Il contagio c’è. E a loro non fa paura. Sì, perché in natura l’essere umano è dotato di un meccanismo di reazione dovuto all’istinto di sopravvivenza.

   Quando vedi la gente reagire, non lo fa per mostrare la stupidità. Non è una questione di stupidità sopravvivere. È la vita che si esprime in questo modo.

   E sono felice di vedere le persone che reagiscono in questo modo. Perché il loro urlo è un segno chiaro di voler vivere e di prendere misura con la paura.

   La morte è un passaggio inevitabile dell’esistenza.

   La verità è che le persone non vogliono venire a patti con la propria fragilità, e allora puntano il dito contro per non venire a patti con le proprie paure.

   In una società dove si punta al top badando poco alla sostanza e avendo badato solo al superfluo, quando si affaccia la paura tutto viene devastato, a cominciare dall’egoismo con il quale ci ritroviamo a scontrarci.

   La polizia fa il suo mestiere di sorvegliante. Accompagna le persone per la città, facendole esprimere il proprio dissenso. I poliziotti sono esseri umani che hanno scelto di indossare la divisa, e per una volta riesco a vedere bene la loro umanità. Anche loro si unirebbero alla gente per far sentire la loro rabbia. Perché anche loro hanno una famiglia alla quale dare una risposta, una prospettiva.

   Un’epoca complicata questa. E mentre uso la mia voce per stare vicino alle persone, e mentre il mio smartphone riprende parte del racconto, la mia regola da ora in poi non sarà mai condannare qualcuno perché vuole vivere. Io condannerò solo chi vuole che gli altri si rassegnino perché bisogna assecondare la propria paura.

   Non è il periodo per assecondare l’egoismo altrui. Perché è proprio in questo genere di situazioni che lo sciacallo ama muoversi.

   Giorno 1, notte

   La mia pagina Facebook è lo strumento principale del racconto. Faccio un resoconto della giornata sempre. Non sono un giornalista. Sono un narratore. Ho cambiato l’orario del serale. Il coprifuoco è alle 22.

   La paura è presente. La gente che si collega con te a volte vuol sentirsi una favoletta contro la paura che assecondi le sue paure. E se glielo dici, ti condanna pure. Non me la prendo perché, per quanto possa ripeterlo, non è da tutti affrontare la paura a viso aperto. Ci vuole tempo, e bisogna accumulare un’esperienza in poco tempo. Si tratta di una scelta.

   Quando spengo il collegamento, vado sul balcone che affaccia su una via principale. Semafori lampeggianti, luci urbane, e un fottuto silenzio anomalo. E l’impressione di essere incatenato a qualcosa, ma non sai cosa. Provo a dormire.

Aurélien Facente, novembre 2020

L’ipocrisia codarda dell’italiano ai tempi del Coronavirus

C’è una guerra che io personalmente non sopporto. Una litania che mi trovo ad assistere da almeno 30 anni, almeno quando ho cominciato a distinguere il bene dal male e quando ho cominciato a studiare i gravi fatti della Seconda Guerra Mondiale, e di conseguenza il male che i regimi dell’epoca hanno fatto a tante, troppe persone.

   Giusto non dimenticare, ma per tanti italiani che conosco di quella lezione dura non hanno capito nulla. Lo vedo su Facebook principalmente, ma mi ci scontro anche dal vivo.

   L’eterna guerra degli antifascisti contro i fascisti. Tutto quello che gli antifascisti (esercito formato principalmente da radical chic moralisti in primis) è una litania di odio verso quello che la pensa diversamente da loro. Un virus difficile da scacciare e con la quale non si riesce a ragionare il più delle volte. La loro fissa è quella. Tutto quello che non è partigiano è fascista e basta.

   Non è che dalle altre parti la questione è meglio, sia chiaro. Il succo è lo stesso, solo che usano l’epiteto “comunisti”.

   La cosa che hanno in comune le due tifoserie è il reciproco odio verso l’altro, e se vuoi startene per i fatti tuoi ecco che ti bollano come uno che non si vuole schierare, come se lo schierarsi per forza sia qualcosa di eccezionale.

   Quest’odio negli anni si è accresciuto sempre di più, facendomi capire che è sempre meglio restarne fuori. Li adoro, in entrambi i casi, quando predicano la tolleranza, eppure sono pronti a scannarsi.

   Con il loro modo di fare hanno infettato il web, i notiziari, i talk show e tutto quello che c’era da infettare. Quando ci si sono messi pure i 5stelle, definiti fascisti da uno schieramento e definiti ex comunisti dall’altro. Insomma l’apoteosi dell’ipocrisia assoluta. Tutto questa trasmissione di odio è diventata il cancro del pensiero libero.

   A volte, sembra di assistere ad un eterno litigio tra mamma e papà, e poi osano chiedere ad un figlio unico se è meglio la mamma o il papà. Il discorso più ipocrita che si possa fare.

   Per loro non esiste il pensiero indipendente, quello che si limita a ragionare e ad ovviare il pratico per risolvere i problemi. No, bisogna per forza essere di parte.

   Quando uno vive questa storiella per parecchi anni poi se ne allontana. Perché francamente rompe i cosiddetti, anche perché, nella maggior parte dei casi, uno vuole vivere tranquillo. Poi c’è anche chi ama il confronto. E ci sono stupendi confronti, ma lo diventano quando sono i pensieri a incontrarsi e non le bandiere.

   Fatta suddetta premessa, è bello notare il dibattito delle voci politiche su Facebook. Sempre le solite storielle. Ok. Rispettiamo le convinzioni, ma facciamo uscir fuori anche le ipocrisie.

   Primo fatto: un omicidio brutale a Minneapolis, USA, a danni di un uomo di colore da parte di alcuni poliziotti. Rivolta feroce da parte dei cittadini. Bruciano il commissariato. Nota bene: negli Stati Uniti siamo nel pieno della pandemia Coronavirus.

   Il pensiero medio italiano? Hanno fatto bene. Giustizia. Tutti insieme assembrati a condannare gli assassini.

   Pensiero personale, tanto per capirci: la brutalità, quando porta alla morte, va sempre condannata. A Minneapolis è accaduto qualcosa di estremamente grave che ha portato alla gente comune di protestare con ferocia. Molta gente si è messa insieme per realizzare una rivolta, e l’hanno fatto, in barba alla pandemia. Quindi, consegue che quando la gente si muove tutta insieme diventa una forza incontrollabile. Ovviamente questa brutta storia avrà una fine.

 

  Secondo fatto: Milano, Piazza Duomo, 30 maggio 2020. Un’enorme folla manifesta. La manifestazione è organizzata dai Gilet Arancioni, capeggiata dal generale in congedo Pappalardo. Migliaia di persone. In Lombardia siamo nel pieno epicentro della pandemia Coronavirus in territorio italiano. I manifestanti non hanno rispettato le distanze di sicurezza.

   Il pensiero medio italiano? Incoscienti, coglioni, fascisti, e quant’altro ancora. Tutti bravi a condannare una manifestazione che non ha bruciato un commissariato.

   Pensiero personale: al di là dei Gilet Arancioni, la piazza era formata anche da gente che aveva voglia di tornare a vivere in qualche modo. Da condannare? Tranne l’aspetto pittoresco, il tutto è da comprendere perché in mezzo a tutta quella gente ci sono tante persone che molto probabilmente non hanno goduto di un aiuto statale oppure si troveranno a fare i conti con un probabile fallimento o con un licenziamento. Semmai, quelli che puntano il dito dovrebbero chiedersi come ha fatto un personaggio pittoresco come il generale ad agire indisturbato e a organizzare una serie di manifestazioni in tutta Italia, e il bello è che lo stesso generale lo annunciava da giorni in diretta Facebook. Chi è che ha sottovalutato la questione?

   Obiettivamente, anche qui un’enorme folla che andava lasciata manifestare. Perché la gente non la fermi.

   Ora, ovviamente, i due eventi sono diversi per natura e motivazioni. Hanno solo in comune la massiccia partecipazione di persone che desiderano esprimere un malessere.

   Bene, in questi due eventi l’ipocrisia si è manifestata più che bene.

   Alla fine, in Italia, ho capito che forse Camillo Benso di Cavour ha fatto un errore di valutazione nel voler per forza unire l’Italia. Ma non credo che il Cavour avesse prospettato tutta quest’ipocrisia del tutto italiana.

Aurélien Facente, maggio 2020

Coronavirus KR: La massa si muove

Nell’emergenza Coronavirus ho criticato apertamente due provvedimenti in particolare. Uno era la prossimità di duecento metri da casa, liberamente interpretata da qualche signore in divisa. La seconda era il divieto di passeggiare in solitaria, seppur munito di mascherina. Aggiungiamoci pure la chiusura di alcuni luoghi ideali per passeggiare, e ci siamo tutti dovuti atteggiare.

   Un altro aspetto da criticare è il terrorismo mediatico portato avanti da tanti organi di stampa e di televisione. Un terrorismo amplificato anche da buontemponi che sui balconi filmavano persone che, magari, erano uscite per necessità.

   Questo, nell’insieme, ha portato la gente ad odiarsi.

   Pur capendo la necessità del momento, la gente, nel 95% (dato sorprendente tra l’altro), si è comportata nel migliore dei modi.

   Ma la quarantena, o meglio la prigionia forzata, alimenta anche il malessere.

   Non tutti hanno la possibilità di godersi un bel panorama. Tanti non godono nemmeno di una buona compagnia dentro casa. Tanti eroi di tastiera pronti a giudicare e condannare il prossimo perché magari si è preso cinque minuti di respiro.

   Tengo a precisare una cosa: il virus esiste ed era necessario lasciare spazio ai nostri sanitari, se non altro per permettere loro di lavorare al meglio.

   Il governo, nel suo insieme, avrebbe dovuto porre un freno serio al terrorismo mediatico.

    Non l’ha fatto. Ha lasciato la palla al Presidente del Consiglio, che si è trovato gioco forza in una situazione inedita nel dover prendere provvedimenti molto discutibili tra l’altro. Ma questa è un’altra storia.

   Nel frattempo, una pattuglia di sindaci sceriffi che ti parla in video e ti colpevolizza anche per una carezza. E non una parola d’incoraggiamento. Molti a puntare il dito contro. Un terrorismo mediatico tale da alimentare l’odio piuttosto che la solidarietà.

   E così si accende la miccia di una dinamite pronta a scoppiare in qualsiasi momento.

   Aggiungete gli epiteti “fascisti” e “comunisti” che ormai ci perseguitano dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il regno dell’incertezza non ha voluto dare spazio alla speranza, il vero sentimento che unisce.

   Già, perché se si uccide la speranza uccidi le persone, o meglio le armi di qualcosa che non lascia spazio alla ragione.

   In questi mesi, il terrorismo mediatico (e se n’è reso conto pure il Governo guarda caso) ha solo alimentato un cancro: quello della disperazione.

   E c’è chi riesce a cavalcare quell’onda. Perché tutti noi ci nutriamo della speranza. Perché molti di noi hanno bisogno di ottimismo, di sentire che c’è un domani, che possiamo costruircelo.

   Nella paura del Coronavirus si è innescata la dinamite della reazione.

   Ormai le piazze iniziano a riempirsi, alla faccia delle regole imposte e delle ideologie politiche.

   A Piazza Duomo a Milano, nel giorno 30 maggio 2020, una manifestazione con tante persone vestite di gilet arancioni, guidate da un vecchio generale. Lasciamo perdere il contenuto per un attimo. Ho letto le opinioni e ascoltato i pareri, e letto anche gli articoli della stampa. Un effetto meteorite di opinioni, senza volersi rendere conto di un fatto essenziale: la massa, quando si muove, non si ferma.

   Sulla posizione politica se ne può discutere tranquillamente. Ma in mezzo a quelle migliaia di persone, erano tutte da condannare? Erano realmente tutti fascisti? O c’erano anche persone che avevano voglia soltanto di tornare a vivere con un po’ di dignità?

   Facile condannare. Troppo facile. Tra l’altro, con una domanda non posta: ma si poteva fermare, si poteva evitare? Certo, ma solo se non sottovaluti.

   Se chiedi un sacrificio, devi dare in cambio una speranza. Se prometti aiuti economici, caro Stato, sai che devono arrivare tempestivamente. Puoi sempre controllare dopo. Invece, più di qualcuno, nella macchina governativa ha fatto il bullo burocratico.

   E così, giorno dopo giorno, tra tanta paura e tante annunciazioni di morti ecco che la miccia si accende fino a far esplodere un’altra bomba.

   Alla fine esce sempre un generale o un nuovo capo politico o qualche antieroe improbabile. La storia ne è piena di esempi. E soprattutto c’è un dato naturale incontrovertibile. Fa parte del DNA umano. Nelle epidemie e nelle pandemie di vecchia data è sempre accaduto che l’umanità, nel suo insieme, prima o poi si muove per adattarsi al male. Andrà avanti rompendo le regole perché sentirà il bisogno di rimettere in ordine il proprio ruolo. E quando lo fa, la domanda è sempre la stessa: come lo farà?

   E questa domanda non ha mai una risposta, ma solitamente spaventa i governanti, dove si troveranno anche loro davanti a una domanda inevitabile: e adesso?

   Già. E adesso?

Aurélien Facente, maggio 2020

Coronavirus KR: Il lavoro crocifisso

Credo che la foto parli per tutti coloro che hanno un’attività e che vivono con la partita IVA. I lavoratori autonomi tartassati, perseguitati da bollette, affitti e banche. Il vero motore economico dell’attuale Italia, dove il lavoro è stato precarizzato e il costo della vita è in aumento.

   Se a Cosenza il titolare dell’attività si lega come se fosse un po’ Gesù sulla croce, a Crotone una piccola delegazione fece una protesta, con tanto di manifesto affisso al muro, molto civile.

   L’Italia affronta un’emergenza sanitaria senza precedenti, e lo Stato ti parla di prevenire i cosiddetti focolai. Che bel termine! Però sottovalutano altri focolai. Quelli delle persone di tutti i giorni, di quelle che non possono nemmeno aprire un negozio di scarpe o di vestiti. Per non parlare di parte del mondo artistico, che stranamente in Italia accetta senza aprire un dibattito serio. Ci ha provato Tiziano Ferro, a dire il vero, ma nessuno ha voluto ascoltare la sua preghiera, o almeno appoggiarla almeno.

   Eppure anche qui si parla di partita IVA. E anche qui si parla di gente dipendente.

   Sacrificarsi per il bene comune è bello, ma prima o poi una risposta deve arrivare.

   Il governo non va criticato per le scelte che fa? Beh, diventa una sfida ardua non poter controbattere, soprattutto se lo stesso governo ritiene i suoi cittadini come dei bambini irresponsabili. Eppure stiamo parlando dello stesso governo che predica i valori del 25 aprile, dribblando abilmente il valore del primo giorno di maggio. Stiamo parlando dello stesso governo che annuncia gli aiuti attraverso i decreti, che poi vengono rallentati dall’intera macchina burocratica italiana, portando i numerosi cittadini sull’orlo del pozzo senza fine. Stiamo parlando dello stesso Stato che multa dei ristoratori che hanno fatto una protesta civilissima a Milano con tanto di distanziamento super rispettato: multe di 400 euro che non verranno pagate.

   Sì, perché l’economia è stata volutamente rallentata. Prima era una buona automobile che camminava senza fermarsi, ma poi è stata portata a frenare bruscamente.

   Eppure, dopo un mese di fermo, questa categoria di cittadini potrebbe dimostrare che con responsabilità può tenere aperta la propria serranda o il proprio ufficio, a costo anche di lavorar la sera. Perché l’italiano avrà anche mille difetti, ma quando si tratta del lavoro l’italiano eccelle.

   Eppure lo Stato preferisce dar spazio a chi racconta del mostro invisibile, dando spazio all’incertezza e a task force abbastanza improbabili.

   Se all’inizio era giusto fermarsi, adesso si è aperto un conflitto che non vogliono far vedere. Il conflitto tra le istituzioni nazionali e regionali, il conflitto politico tra vari scienziati che amano apparire in tv e i dottori che sul campo stanno iniziando a rilasciare verità terapeutiche efficaci, tra l’altro rivolgendosi non ai cosiddetta media nazionali. E infine il conflitto mediatico, portato avanti da editori assetati di visibilità e capaci di pubblicare notizie irreali e fantascientifiche e una comunità (piccola) di difensori della libertà di parola che ha dato voce a chi sul campo c’era.

   E in mezzo la crocifissione dei lavoratori autonomi.

   Il ritratto più triste di quest’epoca nefasta.

   In Italia ci sono due nemici da abbattere: il primo è di sicuro il virus. Ma il secondo è quella della cecità di chi sta al potere. Quello, se permettete, è un male ancora più pericoloso.

Aurélien Facente, maggio 2020

Coronavirus KR – La lettera di una mamma

Mi è arrivata stamane la lettera di una signora che ha in famiglia una persona affetta da autismo. L’ho letta con molta attenzione, e credo sia giusto trasmetterla per un solo e valido motivo: anche queste persone esistono, e vanno dunque ascoltate. Per questo concedo il mio spazio alla signora Angela che ha condiviso con me questo messaggio breve, ma che denuncia un chiaro concetto istituzionale: il diritto all’esistenza. Ci sono tante voci che non vengono ascoltate e che avrebbero bisogno di conforto, di qualche parola d’incoraggiamento. Sono le voci di persone che respirano, che hanno un battito nel cuore, che hanno diritto di avere puro e semplice rispetto. Ho letto la lettera della signora con molta attenzione. E perciò la trasmetto. Perché tutti possano leggere, sperando che la stessa possa in qualche modo essere trasmessa al Presidente Conte, con il solo intento di dirgli che anche queste persone meritano che il loro diritto di esistere sia considerato.

Aurélien Facente, aprile 2020

La Lettera di una mamma

   Terapie, giri, scuola e famiglia, la vita di un genitore con bisogni speciali, gira intorno alla disperata ricerca di una vita normale.

   Ma una mattina questa normalità viene a mancare, perché un virus nato in Cina, si è diffuso a macchia d’olio prima in tutta la stessa Cina e in seguito sul resto del pianeta, fermando tutto: il tempo, la vita e la speranza.

   La speranza di ogni genitore di dare una vita normale, migliore al proprio figlio.

   Tutto si è fermato lasciandoci soli ad aspettare, aspettare la fine della quarantena, con la speranza di non venire contagiati e con la ferma volontà di far vivere nel modo più sereno possibile tutto questo ai nostri figli.

   Non è semplice, perché in una mamma e papà, in un periodo storico come questo, si sono scatenate tante cose: la paura, la rabbia e una doppia preoccupazione per i nostri figli, doppia sì, perché chi ha un figlio autistico o con altre problematiche, oltre alla paura di vedere il proprio figlio sul letto di un ospedale, ha anche la paura che tutti i piccoli miglioramenti raggiunti cadano nel nulla.

   Ci siamo ritrovati ancora più soli, perché un bel giorno, ci è solo stato ordinato di stare a casa, senza pensare a cosa ci fosse dietro quella porta, così siamo stati semplicemente abbandonati a noi stessi e alle nostre lotte.

   Ogni giorno è una lotta, e l’unica cosa che ci è stata concessa è una passeggiata, per contenere gli stati aggressivi della patologia dei nostri figli.

   L’unica realtà che ci è venuta in soccorso è stata la Casa di Iulia, una ludoteca inclusiva, nata per volontà di un papà che voleva di più per la propria bambina, e ha allargato questa possibilità ad altri bambini con la stessa patologia della figlia o con altre problematiche; la Casa di Iulia ci ha accolti a braccia aperte e senza riserve, a differenza di altri centri che hanno addirittura definito i nostri figli  come dei mostri ingestibili, non pensando che loro sono i primi che soffrono e mettendo l’umanità e la sensibilità sotto la suola delle scarpe.

   La Casa di Iulia non lo ha fatto, ha accolto ogni bambino, non facendolo sentire un altro numero, un altro paziente, ma prendendosi a cuore quella creatura e creando per i genitori, una famiglia, perché ogni genitore è così che si sente, anche in questa circostanza, perché non hanno abbandonato nessuno, in virtù del fatto che ogni bambino ormai è diventato come un figlio, nipote, fratellino.

   La Casa di Iulia è una realtà che dovrebbe essere presa ad esempio da tanti centri e che dovrebbe crescere sempre di più, perché possa aiutare tanti altri bambini e famiglie.

Ci sono stati innumerevoli decreti, tanto che ormai la gente ironizzava sul fatto di aspettare una diretta del Presidente del Consiglio Conte all’orario di cena.

   Tutte queste dirette avevano un comune denominatore: la parola autismo non veniva mai pronunciata.

   Nessuno ha mai pensato a questi bambini e alle loro famiglie, che in questa circostanza sono diventati ancora più invisibili.

   L’Italia farà di tutto per rialzarsi, ma il lavoro più grosso lo faranno, come sempre, questi genitori per i propri figli, per vedere in loro qualche miglioramento e qualche sorriso che gli doni di nuovo la speranza, la speranza di un futuro meraviglioso per loro e la speranza che prima o poi lo stato si accorga di noi, con o senza Covid 19.

Angela Corace

Coronavirus KR – Vita da quarantena (Il racconto di Elvira)

Vi propongo una testimonianza scritta dell’esperienza di quarantena dovuta all’emergenza Coronavirus qui a Crotone. Il testo è stato scritto da Elvira Scaccianoce, che ha deciso di condividere la sua personale testimonianza. Mi auguro di poter pubblicare anche altre testimonianze, perché è importante esprimersi in un periodo fatto soprattutto di domande senza risposte e di incertezze, come quelle che stiamo vivendo in piena epoca Coronavirus. Vi rinnovo l’appello. Se avete voglia di condividere le vostre testimonianze, fatelo liberamente. Vi offro volentieri il mio spazio. Scrivetemi in privato sulla pagina Facebook https://www.facebook.com/aurelienfacenteblogger oppure sulla mail aurelienfacente@yahoo.it dove però vi chiedo di essere identificati con nome e cognome. Per un’eventuale pubblicazione sul blog, ovviamente mi atterrò alle vostre volontà qualora mi chiediate l’anonimato. Ora vi lascio al racconto di Elvira.

Vita da quarantena: diario di casa

Prima di scrivere questa mia breve riflessione, ho aspettato molto tempo, cercando di raccogliere i tanti pezzi di vita vissuta in quest’ultimo mese, dove non solo è cambiata la mia vita, ma il modo di vedere me stessa e gli altri. È cambiato tutto il mondo e lo scenario a cui eravamo abituati a vivere… ci siamo lasciati dietro le spalle giorni dove la nostra unica preoccupazione era quella di stare a tempo con gli altri, quel maledetto tempo a ritmo di jive nel quale ci siamo abituati, ovvero correre, correre sempre, senza guardare in faccia nessuno, vivendo come automi tanti giorni pieni di impegni da sbrigare… per poi raggiungere cosa?

   Improvvisamente questo Covid 19, un nemico invisibile di cui se ne parlava da qualche mese in maniera latente cominciò a insidiare le nostre vite come un parente scomodo che incontri il giorno di Natale… quest’essere invisibile proveniente da lontano ha cambiato totalmente le nostra vite. Mai e poi mai avrei pensato che poteva toccare anche a noi.

   I giorni passavano e pensai che il loro problema avrebbe potuto diventare il nostro. Ci siamo accorti troppo tardi che da un momento all’altro quella semplice influenza, come diceva lo stesso medico di famiglia con sorriso sornione o le massime autorità sanitarie davano per scontato… “Tranquilla,” dicevano, “il Covid 19 colpisce la generazione più debole, tipo quella anziana…”

   Mi ripetevano che non poteva stravolgere le nostre vite. Tutto scorre con la mente che è in verità piena di dubbi e in bilico tra realtà e finzione.

Giorno 4 marzo 2020

Sono a casa con il pensiero e la sensazione che qualcosa di più serio stia accadendo invade i miei pensieri.

La scuola del bambino che rimane chiusa, le continue notizie del tg, e il volto dei miei genitori che comincia a cambiare.

   Il focolaio di Codogno, e poi Lodi e Brescia e il famoso paziente zero allarmano tutti. Cerco di mantenere una calma, a dire il vero molto finta.

   Ma con l’edizione straordinaria delle 20 del premier conte confermo la mia non più infondata preoccupazione. Il maledetto ospite venuto da Oriente è diventato pandemia …e la nostra cara Italia, quella narrata dalla Meloni e da Salvini, ovvero dell’eterna lotta tra nord e sud era diventata zona rossa.

   L’ansia comincia a salire…

   I giorni a seguire sono un continuo altalenarsi di emozioni: ansia, sconforto, agitazione, nervosismo, notti insonni, e il caro amico cellulare dove fino a poco tempo fa usavo per scherzare con amici e parenti diventa fonte di continui bollettini di guerra, notizie discordanti, fake news.

   Dove sta la verità?

Giorno 15 marzo 2020

Passano i giorni. Notizie sconfortanti. Il famoso picco sta salendo. Vedo in tv i tanti militari che portano file di bare per essere cremati chissà dove. Cose mai viste se non forse su un qualche libro di storia alle scuole medie. L’incubo continua.

   Tempi duri per chi soffre d’ansia. La gastrite va a nozze con la mente preoccupata. Questa forzatura domiciliare non aiuta. Si cerca di cucinare, lavare, pulire lo stesso ambiente, subire le preoccupazioni degli altri membri di casa, cercando di minimizzare la situazione ormai palese. Mi appresto a fare spesa di continuo come riempire a più non posso di tutto perché non si sa mai quel che può accadere. I supermercati non vengono riforniti, vedo in tv lotte tra gli scaffali, detenuti sui tetti e altro ancora.

   L’incubo continua.

Giorno 21 marzo 2020

   Il famoso picco è arrivato. Non esco di casa da giorni. Sono stanca delle notizie. Cerco di dormire. La mia famiglia che vedevo tutti i giorni ora è su whatsapp. Le videochiamate, le foto, i video non migliorano la situazione.

Giorno 27 marzo 2020

Vedo un uomo solo vestito di bianco in tv. Il Santo Padre da solo sotto la pioggia battente di Roma prega stanco e vacillante è il santo Crocifisso miracoloso, e la Santa Vergine che si rivolge al popolo romano. Dio mio, siamo in mondovisione. Tutti uniti credenti e non a chiedere a Dio un miracolo.

   Mi ritrovo sul divano ormai campo di battaglia con mio marito, in silenzio dentro casa le lacrime scendono da sole.

   Chi siamo e cosa siamo diventati? Castigo divino? Oppure opera dell’uomo? Non lo so. Il flusso delle cattive notizie continua in tv, vedo gente ballare sul balcone e carri funebri che passano in Lombardia. Io rimango una telespettatrice di una tragedia e cerco di restare salda e ferma. Riscopro la fede. Prego. Riscopro i passi del Vangelo. Non può essere la fine del mondo.

   Nel frattempo tutto si ferma. Lavoro, vita, tutto. E scopri veri volti chi ti sta vicino. La forza nasce da te. Penso. Sono una donna. Noi donne diamo la vita tra atroci dolori. Ce la faremo. Spirito ribelle misto a rabbia e ansia sono compagne di questa quarantena forzata.

Giorno 1 aprile 2020

   Tanti medici morti. Penso ai miei 4 nonni morti di diabete qualche anno fa, e vedo in tv che i morti non hanno avuto neanche una funzione religiosa o una degna sepoltura Penso ai miei nonni, attorniati da tutta la famiglia negli ultimi giorni. Forse sono egoista a pensare chi ha avuto una morte migliore.

Giorno 12 aprile 2020

   Il famoso picco è sceso. Una piccola luce in fondo al tunnel. Calano i morti. La curva rallenta, la paura no. Cerco di mantenere i piedi saldi.

   Oggi è Pasqua.

   Ripenso alle feste di qualche mese fa. La nostalgia oggi è tanta, e sono di cattivo umore. Cerco una piccola quotidianità, e provo a informarmi dai social in modo razionale e corretto.

   Crotone sembra la Terra di Mezzo, quella della saga de Il Signore degli Anelli per capirci. Tutto tace. La politica crotonese inesistente. Tutto questo silenzio fa male, e i cittadini che non ricevono una parola di conforto. Dove sono i profeti della Crotone che cambia durante le promesse elettorali?

   Nulla. Mi imbatto tra le tante cavolate di Facebook con dirette di cucina, finti buonismi e balli dal balcone video esagerati. Vedo qualche diretta di un blogger scrittore, un certo Aurélien Facente lì per lì. Ascolto qualche diretta senza commentare.

Letture in quarantena. Chi? Io? Non amo leggere. Lo ammetto e questo si ripercuote sulla mia scrittura, ma ascolto volentieri tutto e tutti. Io sono una popolana e possiedo questo spirito curioso e ho voglia di imparare qualcosa che la tv nasconde o che ti vuol fare credere altro. Cerco di crearmi una nuova quotidianità, per adesso difficile e fatta di social da vivere e vita da vivere in casa.

   Mio figlio è molto piccolo… per fortuna.

   Parecchie emozioni cerco di nasconderle, e a volte mi riesce male, ma si va avanti. I giorni si susseguono come da calendario, anche se confondo il martedì con il mercoledì.

   La curva scende. Questo mi alleggerisce le giornate.

   L’estate, la scuola, gli impegni per ora sono chiusi nel cassetto. Ora devo sopravvivere per me stessa e per chi mi sta intorno. Non vivo di ricordi, ma faccio tesoro delle esperienze passate per proiettarmi sul futuro, come il tramonto che vedo dal balcone di casa mia.

   La fortuna di abitare a Crotone dove mare e monti si incontrano. Cerco di trarne energia positiva, perché come cantavano i famosi Ricchi e Poveri: “Del futuro sarà quel che sarà.”

   Vivo il presente, cercando conforto nelle mani di Dio.

Testo di Scaccianoce Elvira Liberata.

L’Europa ai tempi del Coronavirus

Tutti stanno toccando questo tasto. Tutti ne scrivono. C’è chi la ama e c’è chi la detesta. Di fatto, nessuno è d’accordo.

   L’Europa è un’illusione bella e buona. Sulla carta, i politici hanno firmato dei trattati, e quelli dopo si sono cullati nell’illusione che quello doveva durare per sempre. Come l’Impero Romano che credeva di essere immortale, e alla fine sappiamo come andò a finire. Giusto per un esempio ancora più lampante, perché non ricordare Alessandro Magno che cercò di costruire un larghissimo Impero, che poi si sfracellò appena il giovane imperatore perse la vita. La storia è piena di queste illusioni.

   Certo, di progressi ne abbiamo fatti tanti negli ultimi 80 anni, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Perché dopo la fine del conflitto, la volontà di quella politica era raggiungere un grado di civiltà tale da poter mettere una pietra sopra a quella tragedia immane che racconta tuttora oggi il prezzo che l’odio comporta.

   Ed era giusto sognare l’Europa.

   Ma certi processi unitari hanno bisogno di molto tempo per realizzarsi.

   Non si sono fatti i giusti calcoli.

   Nel 1992 c’erano ben altre aspettative, però non si è capito che le cose possono cambiare da un momento all’altro.

   Le nazioni dell’Unione Europea hanno insistito tanto sul progetto economico chiamato Euro, che prima ancora si chiama ECU.

   Ci hanno voluto far credere che quel progetto avrebbe portato benessere.

   E poi, guarda caso, non hanno tenuto conto di un elemento che nella storia umana è forse il principale protagonista, ovvero il tempo che cambia le cose.

   Si è voluto far credere che quella moneta fosse la base su cui consolidare la grandezza di un’unica grande nazione.

   Nel 1992 potevi crederci. Io ero un ragazzino delle medie, e ci credevano i miei insegnanti. Si doveva dimenticare di essere italiani per sentirsi cittadini europei. Me le ricordo bene le tante frasi che si dicevano a scuola. Beh, comprensibile. All’epoca, i miei insegnanti avevano vissuto le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale. La visione di una Europa più giusta era qualcosa di nobile. E a tredici anni non potevo mica contestare quel bel sogno.

   Però poi cresci, e inizi a capire.

   Dall’entrata fattiva in vigore dell’Euro, abbiamo avuto progressi tecnologici spaventosi. Internet, smartphone, digitalizzazione. Giusto per citarne tre. Ma poi, nello stesso tempo, siamo diventati più poveri. Ci siamo tagliati le possibilità di costruirci una propria vita professionale perché le imposizioni economiche sono mutate.

   E mentre eravamo diventati più poveri, ecco che le scuse per rimandare la discussione del problema sono aumentate, sempre con lo stesso leit motiv: ce lo chiede l’Europa.

   Come se l’Europa fosse una persona, quando in realtà la verità da dire: ce lo impone lo Stato centrale europeo.

   Uno Stato che si regge solo su trattati economici, dai quali poi sono stati fatti altri trattati. Ma l’interesse economico non regge se non c’è l’interesse per i cittadini. Perché, per quanto puoi essere laureato in economia, si sa bene che la stessa economia ha bisogno dell’essere umano per essere tale. Se l’essere umano muore, l’economia non esiste. Ma l’economia deve essere il primo e unico obiettivo. Si può capire che i bilanci devono essere a posto per una questione di credibilità, ma uno Stato centrale sarebbe più credibile e civile se pensasse di più alle persone.

   L’Europa non pensa alle persone?

   Facciamo un piccolo passo indietro nel tempo. Giusto uno. La Brexit. L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tra l’altro votata dai cittadini inglesi in un referendum.

   La democrazia umana trionfa. Il resto dell’Europa accusa il colpo, ma non si preoccupa minimamente di dibattere, di fare un passo indietro e capire che qualcosa è cambiato inevitabilmente. Invece, si continua sulla strada dell’economia.

   Già, senza soldi non se ne cantano messe.

   Ma è anche vero che i soldi senza gli esseri umani sono carta straccia. Anzi, quando si muore il portafogli è superfluo.

   Però bisogna mantenere gonfio il portafogli in ogni caso. Bisogna solo fare i compiti e basta, tagliando i diritti delle persone che devono solo compiere i doveri.

   Poi arriva il Coronavirus, il nemico invisibile per eccellenza, quel caos che ogni tanto la natura genera, rendendolo talmente forte da far vacillare tutto il castello europeo.

   Ed è questo che succede, mettendo a nudo tutte le fragilità di chi si sentiva forte.

   Nella storia del mondo non è la prima volta che accade una pandemia.

   E le pandemie mettono a nudo i primi due schieramenti: i coraggiosi e i vigliacchi.

   In epoca Coronavirus è successo sostanzialmente questo.

   La prudenza economica contro la difesa della vita.

   E quelli che sono per la prudenza economica inveiranno sempre contro chi vuole difendere la vita, a patto che la cosa non colpisca anche loro.

   Il Coronavirus ha colpito la Germania e l’Olanda, ma per loro le persone sono sacrificabili. Un concetto totalmente diverso di concepire le politiche nazionali e internazionali. Loro non esiterebbero a sacrificare i più deboli per difendere la loro economia. Non lo hanno fatto prima, perché dovrebbero farlo adesso. Per aiutare i mafiosi italiani e gli scalmanati spagnoli? Non sia mai.

   Che strano concetto di stare insieme. Eppure gli aiuti internazionali non sono mancati all’Italia. La Cina, anche se con dovute riflessioni, è stata la prima ad intervenire. Poi Cuba. Poi Russia. Poi Albania, Polonia, e ci sarà anche qualcun altro.

   Gli amici si trovano nel momento del bisogno.

   Una parte dell’Europa non vuole essere amica con noi nel vero senso della parola.

   E qui cade il castello di carte.

   Allo stesso tavolo mi siedo con gli amici di cui mi fido, che mi spingono e mi sostengono a fare del mio meglio, e se serve mi aiutano anche. Però, quando ci sono i soldi di mezzo, succede altro.

   Si dice che chi trova un amico, trova un tesoro.

   Ma qualcun altro dice che chi trova il tesoro, se ne fotte dell’amico.

   Io aggiungerei che dietro il tesoro ci può essere sempre la spada di un pirata che ti infilza.

   Ecco forse spiegata la più grande illusione dell’Europa svelata.

   C’è sempre tempo per cambiare, a patto che si consideri l’esistenza delle persone come essenziale ai fini del meccanismo economico. Altrimenti non serve a niente.

   Per quanto mi riguarda, l’Europa è bella vederla dallo spazio, in una posizione lontana, con l’idea di un sogno.

   Perché l’Europa, ora come ora, è un vaso dannatamente fragile che rischia di rompersi in qualsiasi momento.

   Fare un passo indietro non è mai un’umiliazione, ma un vero e proprio atto di umiltà.

   E che sia ben chiara una cosa: il Coronavirus se ne sbatte ovviamente dell’economia.

Aurélien Facente, aprile 2020

Coronavirus KR – Un mese è appena passato

Crotone. Emergenza Coronavirus giorno 31. Oggi si può dire che è passato un mese vero e proprio, di quelli lunghi. Un mese di quarantena, la cui grandissima parte del tempo tra le mura di casa. Esci solo se vai a fare la spesa, e se hai il cane giusto nel raggio dei 200 metri.

   Un mese è tanto.

   Che cosa ho imparato in un mese?

   Che il caro Coronavirus esiste e fa paura.

   Fa molta paura nel racconto televisivo e anche su internet, dove la gente si rifugia per trovare conforto umano, e si trova a condividere immagini e filmati (di cui molti realizzati ad arte per condividere il terrore).

   Ho imparato a indossare la mascherina, soprattutto quando entro in un supermercato o in una farmacia.

   Ho imparato a organizzare la spesa per velocizzarmi meglio, e dare subito il posto di chi ha bisogni diversi da me.

   Ho imparato a star di nuovo da solo, ma la cosa non mi è mai pesata a dire il vero. Sono abituato alla solitudine. Semmai sono gli altri a non avere un dialogo con loro stessi.

   Ho imparato a usare i guanti, ma solo quando tocco le superfici comuni esterne.

   Ho imparato a lavarmi le mani spesso, ma lo facevo già prima.

   Ho imparato che c’è tanta gente che ha paura, e che ha bisogno di sfogarla in qualche modo. Manca l’ascolto, e dove non c’è ascolto si acuisce l’odio per l’altro, solo perché magari sfrutta la sua possibilità di uscire.

   Ho imparato che tutte le forze dell’ordine sono formate da esseri umani, con pregi e difetti, e che è sempre meglio scambiarsi informazioni prima di tutto. Il buonsenso è la prima regola, ma ovviamente deve essere accompagnato dallo scambio. Perché il capirsi è la prima regola, anche quando non si è d’accordo.

   Ho imparato a conoscere un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ci mette la faccia sempre e comunque quando si tratta di assumere decisioni che sembrano impopolari.

   Ho imparato che ci sono Presidenti della Regione che parlano alla gente, come De Luca ai suoi campani, e Presidenti della Regione, come la magica Jole, che hanno difficoltà di comunicazione.

   Ho imparato che il mondo dell’informazione è in seria crisi con se stessa, tanto che non riesce a mettersi in ordine.

   Ho imparato che abbiamo tanti scienziati che parlano, parlano, parlano….

   Ho imparato che c’è una guerra silenziosa. Quella dei medici e degli infermieri nelle corsie degli ospedali, tutti adibiti al Covid-19.

   Ho imparato a prendere decisioni difficili e dolorose, soprattutto per quanto riguarda la mia sopravvivenza mentale, che è la più importante in questo momento.

   Ho imparato che la conta degli amici si riduce tantissimo, per poi scoprire che si può essere amici con il proprio vicino.

   Ho imparato ad ascoltare il silenzio del giorno, quando prima ascoltavo il silenzio della notte.

   Ho imparato che le persone hanno paura di mettersi in regola con la propria fragilità, che era mascherata dal finto benessere diffuso, e sapere che si deve uscire mascherati ne fa il simbolo di uno dei paradossi di questa esistenza.

   Ho imparato a voler sorridere e a voler sembrare folle nel mio essere anticonformista, pur rispettando le regole emanate, per essere ancora di più me stesso, nel bene e nel male.

   Ho imparato a essere presente, anche se nel virtuale. Una presenza giornaliera, anche nelle azioni quotidiane più comuni, aiuta a sorridere.

   Ho imparato che ci sono persone che avrei dovuto conoscere prima, e altre persone che forse sarebbe stato meglio non conoscere.

   Ho imparato che la paura va combattuta, anche quando gli altri ti urlano su Facebook che devi stare a casa, come se si potesse contraddire la legge del destino, dove ognuno è padrone di se stesso, perché alla fine è sempre così.

   Ho imparato che c’è tanta negatività in giro perché non si vuole dare un pugno alla paura.

   Ho imparato a dare un sorriso anche in una telefonata.

   Ho imparato tante cose, caro Coronavirus. Ma proprio tante cose.

   Grazie a te, non posso vedere la città di Crotone con gli stessi occhi, e perciò mi godo quei piccoli particolari che posso cogliere nelle brevi uscite necessarie.

   Ma di sicuro c’è una cosa che ho imparato, caro Coronavirus. Non ti sottovaluto, anzi ti rispetto sotto certi aspetti.

   Perché nella tua aggressività, ho capito quanto molta politica sia paurosa, quanti scienziati e medici che vanno in tivù siano molto confusi, quanto pressapochismo ci sia in giro, e quanta fuffa burocratica sia uno dei mali di quest’emergenza, quando forse si dovrebbe parlar di meno e dare maggior peso all’azione e alla reazione.

   Sono sicuro che ci saranno altre cose che imparerò.

   Ti ringrazio, Coronavirus. Ma veramente tanto. Credimi.

   Però c’è una cosa che voglio dirti sinceramente: io non ho paura di te.

   Forse un giorno le nostre strade si potrebbero incrociare. Ne sono consapevole. Ma non pensare che io abbia paura, soprattutto quando so che hai spezzato le vite di tante persone che avrebbero voluto respirare una seconda possibilità.

   Per questo motivo, non posso permettermi di avere paura di te.

Aurélien Facente, aprile 2020.

Coronavirus KR: La Domenica delle Palme

Crotone. Ventottesimo giorno di quarantena. Domenica, ma è come se fosse un giorno come un altro.

   Oggi, scendendo il cane, sono andato alla macchinetta del caffè sul piazzale Ultras. È un piccolo rito molto utile. Un caffè. Odorarlo. E poi sentire la brezza del mare, mentre il silenzio della città di Crotone continua. Ascolto qualche onda, mentre avverto un po’ di luce in questa domenica un po’ grigia sul mio viso. Poi risalgo. Giusto qualche auto che circola. E poi quando risali per Via Roma, ti senti estraneo.

   Perché è una domenica che ti aspettavi magari bella; e so di essere un privilegiato in questa breve camminata. Alzo lo sguardo verso l’alto dei palazzi, e vedo qualcuno sui balconi. Ognuno di noi, nel proprio silenzio, è tragico compagno di sventura in un periodo dove ogni giorno è uguale all’altro, in attesa che la catena venga in qualche modo sciolta.

   Ascolto musica in lontananza. Vite di persone che trovano rifugio in qualcosa che dovrebbe alleggerire una domenica che non è una domenica.

   Oggi è la Domenica delle Palme.

   Quand’ero piccolo, ma proprio piccolo, scendevo in piazza accompagnato da mio nonno Pasquale, fervido credente, e con lui andavo in Piazza Duomo, dove c’erano i venditori delle palme. Nonno Pasquale mi comprò una volta una barchetta fatte con le palme, e mi raccontò la storia di Gesù.

   Non potevo capirla allora. Avevo, penso, cinque anni.

   Piuttosto ero affascinato dal verde delle palme.

   Ognuno scendeva in Piazza Duomo per portare la propria palma a casa. Un rito che ho visto ripetersi anno dopo anno.

   Oggi, quasi quarant’anni dopo, quel rito non s’è ripetuto.

   Ci hanno detto di stare a casa il più possibile per non rischiare di essere colpiti dal mostro invisibile che si chiama Coronavirus.

   Oggi il sole non sembra esserci a Crotone. Un caldo leggero mi accarezza il viso. Alzo lo sguardo in alto, e persone che osservano la libertà che non c’è. Che scena triste! Già.

   Continuo il mio breve cammino, ritornando al ricordo di mio nonno che prese per me la barchetta delle palme. Sento ancora la sua mano sicura su di me, e mi domando se mio nonno, da qualche parte, sia in qualche modo fiero di quello che faccio, giorno dopo giorno.

   Io non ho mai visto mio nonno immerso nella paura. Qualche volta ha peccato d’imprudenza, ma non l’ho mai visto assalito dalla paura. Non l’ho mai visto piangere. Non credo che l’abbia fatto, se non verso la fine, mentre la vita lo abbandonava.

   Ho ripensato a lui oggi.

   E mentre stavo per ricordare il momento della sua fine, ho subito stoppato il pensiero.

   Succede che la memoria fa brutti scherzi se non sai fermarla.

   Mi rimetto a ricordare la scena di Piazza Duomo, davanti alla Chiesa principale di Crotone. Ogni giorno, mio nonno mi portava in chiesa. Si ascoltava la messa. Lui faceva l’offerta. Ogni volta che ci andava. Non grosse somme, ma piccoli spicci che distribuiva ad ogni cestino. E poi si fermava a contemplare sempre lui, il Cristo.

   Quand’ero piccolo, non capivo questo suo rito. Non ho mai osato chiederglielo. La fede è qualcosa che si può provare a capire solo quando si è adulti, e ognuno ha un suo percorso molto personale.

   Oggi, 5 aprile 2020, siamo senza palme.

   Persone che si affacciano sul balcone. Alcuni a respirare e altri a guardare l’estraneo che sono io che cammino sotto il loro balcone in questa breve passeggiata.

   Si chiude un’altra settimana strana, inedita, terribile e oscura.

   Ma oggi ho ricordato mio nonno e la barchetta di palme che volle comprare e darmela.

   Adesso ricordo bene.

   Lui la comprò da un signore che aveva problemi economici, ma non mi ricordo se aveva perso il lavoro o era tra quelli che si “arrangiavano”.

   Nonno non comprò la barchetta per omaggiare il Signore, ma solo per aiutare una persona.

   Oggi non ci sono le palme ad allietarci le case.

   La vera palma, il vero omaggio per chi crede nella Pasqua, si deve trovare dentro il cuore. Perché è lì dentro che si trova la vera essenza della fede. Almeno per chi vuole crederci.

Aurélien Facente, 5 aprile 2020