Coronavirus KR – La storia di Mara e Angelo

Quando la notte scende a Crotone, soprattutto in questi giorni, il silenzio nelle strade farebbe impazzire chiunque. In realtà credo che ci sia già troppa paura alimentata da un’isteria di massa. La paura verso il virus ti porta nel tunnel dell’irrazionale.

   Conosco bene il male in questo caso, e me ne sto volentieri alla larga. Qualsiasi parola sarebbe inutile e superflua, poi in un caso come il mio sarebbe trascinarsi tanto odio dietro. Perché chi prova a ragionare dentro la paura viene sempre detestato. Perché nella paura cerchi la risposta, ma non ragioni.

   Accendo il PC. Leggo molto le notizie di notte. Cerco di trovare qualche spunto interessante e logico. Ho la fortuna di parlare e capire più lingue, però qui lotto con persone che vanno appresso alle tv nazionali. C’è chi pensa addirittura che i programmi con Barbara D’Urso sia dispensatori di verità. Non parlo degli altri programmi perché ci sarebbe un intero volumone da scrivere.

   Sulla mia scrivania, posta di fronte alla via centrale, vedo i lampeggianti gialli dei semafori accendersi e spegnersi, mentre provo a raccogliere notizie. Do uno sguardo su Facebook, e nella messaggeria della mia pagina pubblica trovo un messaggio di una certa Mara. Prima di leggere il messaggio, esploro il profilo. Non amo dare risposta ai fake, ma il profilo è tranquillo. Si tratta di una mamma. Due figlie quasi adolescenti. Bella famiglia. Sulla foto del profilo c’è la foto di lei in abito bianco con il marito. Un omone robusto. Una foto felice.

   Poi leggo il messaggio: “Scusami. Seguo di nascosto le tue dirette su Facebook, e ho letto tanta roba tua in queste settimane. Vorrei parlarti. Ti prego di rispondermi se ti è possibile.”

   Mezzanotte.

   Quella che segue è la conversazione avuta tra Mara e me. A sta per Aurélien, mentre M sta per Mara, che ovviamente è un nome fittizio. Lo faccio per proteggere la vita privata della signora, che per quello che mi racconterà in seguito. Una delle tante storie vere che non saranno mai prese in considerazione da un giornale, e se finisse in mano alla televisione peggio ancora.

   A: “In cosa posso esserle utile, signora?”

   La risposta è fulminea. Appena un minuto.

   M: “Ti disturbo? Scusa se ti do del tu.”

   A: “Non fa niente. Tanto qui le regole del dialogo si rompono.”

   M: “Ecco, io voglio parlarti di mio marito.”

   A: “Signora, io non credo di conoscere suo marito. Mi sono permesso di vedere qualche foto, e credo che quel signore robusto non rientri tra le mie conoscenze.”

   M: “Ecco, a dire il vero è deceduto.”

   Sapete la sensazione di aver fatto una grossa figura di merda? Eccola. Ma può capitare quando non si sanno le cose.

   A: “Mi scuso umilmente dell’errore commesso. Non volevo mancarti di rispetto.”

   M: “No, non scusarti. Angelo è deceduto la scorsa primavera. Non potevi saperlo. Non ci conosciamo nemmeno.”

   A: “Bene, ricominciamo. In cosa posso esserti utile?”

   M: “Volevo dirti grazie.”

   A: “E di che cosa?”

   M: “Ecco, io sono capitata sulle tue dirette per puro caso. All’inizio ero molto arrabbiata con te, ma poi ho cominciato ad ascoltarti e a leggerti. Sono capitata in quel tuo romanzo blog chiamato Responsibilities. L’ho letto con molta attenzione, e allora ho capito che cosa sei.”

   A: “Hai tutta la mia attenzione.”

   M: “Ecco. Hai avuto un’esperienza devastante e ora capisco che non ti attieni alla linea indotta da terzi. Vai per la tua strada. Come mio marito Angelo.”

   A: “Parlami di lui.”

   M: “Mi chiamo Mara. Ho 47 anni. Abito non lontano da Brescia. Io ho conosciuto quell’omone di mio marito ai tempi del liceo. Ci siamo piaciuti da subito, ma sono stata a fare io il primo passo. Non ci siamo mai staccati. Abbiamo fatto i nostri studi insieme. Lui aveva trovato lavoro subito dopo l’università, mentre io avevo avviato una piccola sartoria. Mio marito era un ingegnere meccanico. Avevamo la passione per la montagna. Ci piaceva tanto camminare tra i boschi…”

   A: “Continua a scrivere.”

   M: “Mio marito è una delle vittime del Covid. Sai così perché ero arrabbiata con te.”

   A: “Puoi raccontarmi com’è successo?”

   M: “Aveva una brutta tosse. Non la smetteva di soffrire, e aveva pure la febbre. Chiamai l’ospedale. Lo vennero a prendere. Mi raccomandarono di fare la quarantena. Io e le bambine. Ma lui non è più tornato. Mi fecero la telefonata direttamente dall’ospedale. Mi si è gelato il cuore. Ho passato un giorno intero in silenzio prima di dirlo alle ragazze.”

   A: “Capisco. E poi?”

   M: “Tu lo sai. Ti si rivolta tutta l’esistenza. La quarantena forzata è stato il modo per stare soli e provare a capire. Non dormivo. E per non piangere, passavo ore a cercare una risposta sul web. Poi ti ho trovato. La prima volta ho buttato lo smartphone a terra.”

   A: “So di fare quest’effetto. Continua.”

   M: “Poi però ho continuato a vederti. E poi ho iniziato a leggerti. E ho capito tante cose.”

   A: “Non penso di averti dato delle risposte, ma sono felice ad aver contribuito all’inizio di un percorso.”

   M: “Angelo, prima di salire sull’ambulanza, mi ha detto queste parole tossendo: Qualunque cosa accada devi vivere anche per me, anzi andrai in montagna a raccogliere qualche fungo, e poi vai a vedere il nostro tramonto.

   A: “Lì per lì non hai capito, vero?”

   M: “No. Non subito. Vedi, io non so come descrivere la situazione.”

   A: “Sei andata sulla montagna poi?”

   M: “Sì. Completamente da sola. Ho smesso di piangere quando ho visto il nostro tramonto.”

   A: “Sai perché hai smesso di piangere?”

   M: “Mi sentivo in pace. Quando mi trovai nel nostro luogo preferito, mi ricordavo uno dei motivi per cui lo amavo tanto. Una storia. Mio marito aveva una sorellina che purtroppo morì all’età di cinque anni. Era condannata da una leucemia. Mio marito aveva tredici anni quando accadde il fatto. Mi raccontava che la faceva sorridere e le raccontava un sacco di favole dove lui era il cavaliere e lui la principessa. Ha fatto di tutto per farla sorridere, e poi provò a raccontarmi… Ma s’interrompeva sempre. Anzi, poi riprendeva a sorridere e mi diceva che non bisognava piangersi addosso. Perché lui aveva il dovere di sfruttare quella possibilità che non aveva avuto la sua sorellina.”

   A: “Ora stai cominciando anche tu a trovare un percorso in mezzo al buio.”

   M: “Poi ho letto la tua personale esperienza. E ho cominciato a vivere esperienze simili, anche se tutto è accaduto quest’anno. Io non sto vedendo uomini e donne. Vedo solo persone. È un periodo brutto, dove vedi solo menefreghisti e codardi che si fanno mangiare dalla paura, e nessuno che vuole vedere una luce. Solo una brutta cappa di tragicità.”

   A: “Posso farti una domanda? Angelo avrebbe voluto vivere questa cappa di oscurità che ci avvolge da Nord a Sud?”

   M: “No. Angelo faceva tante piccole cose per gli altri, ma non si faceva piegare dalle oscurità altrui. Anzi, per lui erano uno stimolo a fare meglio. Io non lo capivo certe volte, ma poi ho iniziato a capirlo di più adesso. E tu di sicuro sai di che parlo. Quando ti viene fatto a pezzi il cuore, man mano che lo rimetti a posto tu non hai il tempo di andare dietro la paura. Io non so se ritornerò ad avere un sorriso, ma non posso deludere Angelo. Per nulla al mondo.”

   A: “Hai scelto la strada più difficile, ma la migliore. Angelo voleva vederti vivere e non piegata dal dolore. Il Covid-19 è un nemico come qualsiasi male che fa ammalare le persone. E purtroppo ha un suo prezzo. Mara, non viverla come una colpa. Si è trattato purtroppo di una tragica fatalità che di sicuro la tua famiglia non meritava. Ogni morte è una storia interrotta, soprattutto nei casi come il tuo. Ma tu hai la possibilità di continuare a raccontare questa storia. Ognuno di noi affronta un percorso proprio e incerto, e prima o poi questo percorso diventa più chiaro. Ma per gli altri è incomprensibile perché sono percorsi che si vivono, ognuno con un proprio tempo. Il fatto che già sei andata a vedere il tramonto è indicativo, importante. Ci sei tu e ci sono le vostre figlie. Potete raccontarla una storia. Io sono solo un elemento casuale al quale hai voluto fare una conversazione amichevole, anche se temevo il peggio.”

   M: “Ti ho fatto perdere tempo. Scusami tanto.”

   A: “No, amo sapere che c’è qualcuno che prova a parlare di vita in questi giorni. Vedi, io non so come la stiate vivendo tutti lassù al Nord. Ma qui ti posso assicurare che la paura c’è eccome. Certe volte prenderei a sberle i miei stessi concittadini.”

   M: “Non ti facevo così cattivo.”

   A: “No. Non è cattiveria la mia. Qui parlano troppo dei morti, ma mai di chi ha perso il proprio marito, la propria moglie, la propria mamma, il proprio papà. Nessuno si chiede il prezzo delle cicatrici che non si richiuderanno più. Senza contare il resto. Ecco perché mi arrabbio con i miei cittadini. Perché io ho avuto la mia cicatrice personale. Perché tu sai adesso che cosa vuol dire continuare a vivere e sfruttare appieno quella possibilità di vita che tuo marito non ha più. Io posso augurarti di tornare al sorriso più presto, anche perché le tue figlie hanno bisogno di quel sorriso. In fondo anche tuo marito.”

   M: “Posso farti una domanda indiscreta? Tu hai qualcuno nel tuo cuore adesso?”

   A: “In questo momento non lo so. Ma ti posso assicurare che quel cuore che vedi chiuso adesso si riaprirà in qualche modo. Ricordati quello che ti raccontava tuo marito. Adesso sei tu il cavaliere.”

   M: “Buonanotte. E grazie.”

   A: “Buonanotte.”

   Spengo il PC. Mi preparo un caffè, e sto sul balcone, al freddo, in attesa del primo mattino.

   Alle 5 scendo con il cane, e dopo un po’ comincia a spuntare il sole su di me. Nel momento più buio, spunta sempre il sole. E i suoi raggi sono come carezze.

Aurélien Facente, novembre 2020

Coronavirus KR – Diario dalla Zona Rossa, primo giorno

   Giorno 1, mattina.

   Mi sveglio tardi volutamente. Non ho fretta. Conosco bene le regole del lockdown. So già dove si trovano i miei confini. Mi vesto, dopo essermi opportunamente lavato. Colazione. Un saluto a mamma prima di uscire con il cane. Ispeziono la mia personale zona rossa. Ho cambiato casa da un po’. Più centrale, ma meno in vista direi. Più adeguata. Nuovi vicini. Meno confidenza. Paradossalmente più spazio di manovra.

   Ho sempre la mascherina addosso. Pochissime persone in giro. Rispetto delle distanze. Anzi, sembra proprio che la gente voglia proprio non incontrarsi. Ma ci si saluta comunque. Dopo essermi fatto il giro mattutino con il cane, riscendo con la telecamerina e faccio la mia diretta numero 1 della giornata. Ho deciso di apparire in video ogni giorno, in differenti momenti della giornata se necessario. Vale lo stesso detto del lockdown: la mia presenza rappresenta una speranza di sopravvivenza mentale per chiunque, anche se sono antipatico. Perché conferma che il virus si può in qualche modo combattere.

   Giorno 1, tardo pomeriggio.

   A casa mia non c’è la televisione. Lo smartphone e il PC sono le uniche cose che servono da ricettore di notizie. Sono convinto da tempo che il mondo mediatico in genere sia più alla ricerca del sensazionalismo verso l’orrore piuttosto che alla sostanza e alla rassicurazione. A Crotone arriva la notizia della protesta. In zona rossa molte attività restano chiuse. Bisogna prevenire il contagio. In verità è la crisi sanitaria che si vuole prevenire. Ospedali al collasso in Italia. Aumento dei contagiati. Il virus fa paura perché il racconto mediatico è impuntato sull’orrore, ma di virus ce ne stanno a migliaia sulla faccia della Terra. Solo che ogni tanto ne esce uno nuovo, figlio della sua epoca. Il Coronavirus è il perfetto virus del ventunesimo secolo. Un virus metropolitano. Un nemico minuscolo e invisibile. A distanza di qualche mese, la società ne prende inevitabilmente le misure. La scelta mediatica è quella di farne lo strumento perfetto per innalzare la paura nelle persone. La politica ne fa un uso misto. Da una parte la paura fa sempre comodo per tenere il potere in mano, che fa sempre comodo in una democrazia. Eccome se fa comodo. Non c’è mica bisogno della mascherina per affermarlo.

   Però sono sicuro che alla fine sarà sempre l’umanità a prevalere sul virus e sulla paura. Lo ascolto dalla voce di qualche amica, dalla sua voglia di sorridere e di vivere.

   Riprendo a scrivere un diario perché la mia personale testimonianza possa servire a qualcuno. Perché anche questa è una forma di solidarietà.

   Per me la mascherina non è una protezione. Assolutamente no. Per me la mascherina fa parte della corazza che indosso. Sono un cavaliere senza padrone adesso. Un cavaliere senza principessa si può dire. Ho una regina. Mia madre. Avrei voluto una principessa vicino a me. Un sorriso mi avrebbe aiutato. Ma terrò duro. Perché forse un giorno lo troverò. Ma in realtà non posso chiedermelo adesso. Ora devo soltanto pensare di essere degno del nome di mio padre, che prima di morire mi ha affidato il compito di proteggere la donna che lui stesso amava, a modo suo sempre, e che ha cercato di proteggere fino alla fine.

   Perciò non mi posso permettere di soggiogare alla paura degli altri. Perché devo fare in modo che mia madre possa sorridere. E così la mascherina diventa un elmo e il mio corpo una corazza. E devo mettere da parte il mio cuore che si dovrà accontentare di amare in silenzio.

Giorno 1, prima serata

   Un po’ di persone per le strade. L’urlo delle persone che vogliono farsi sentire, persone che vogliono vivere, che non vogliono arrendersi, che vogliono lavorare rispettando le precauzioni. Il contagio c’è. E a loro non fa paura. Sì, perché in natura l’essere umano è dotato di un meccanismo di reazione dovuto all’istinto di sopravvivenza.

   Quando vedi la gente reagire, non lo fa per mostrare la stupidità. Non è una questione di stupidità sopravvivere. È la vita che si esprime in questo modo.

   E sono felice di vedere le persone che reagiscono in questo modo. Perché il loro urlo è un segno chiaro di voler vivere e di prendere misura con la paura.

   La morte è un passaggio inevitabile dell’esistenza.

   La verità è che le persone non vogliono venire a patti con la propria fragilità, e allora puntano il dito contro per non venire a patti con le proprie paure.

   In una società dove si punta al top badando poco alla sostanza e avendo badato solo al superfluo, quando si affaccia la paura tutto viene devastato, a cominciare dall’egoismo con il quale ci ritroviamo a scontrarci.

   La polizia fa il suo mestiere di sorvegliante. Accompagna le persone per la città, facendole esprimere il proprio dissenso. I poliziotti sono esseri umani che hanno scelto di indossare la divisa, e per una volta riesco a vedere bene la loro umanità. Anche loro si unirebbero alla gente per far sentire la loro rabbia. Perché anche loro hanno una famiglia alla quale dare una risposta, una prospettiva.

   Un’epoca complicata questa. E mentre uso la mia voce per stare vicino alle persone, e mentre il mio smartphone riprende parte del racconto, la mia regola da ora in poi non sarà mai condannare qualcuno perché vuole vivere. Io condannerò solo chi vuole che gli altri si rassegnino perché bisogna assecondare la propria paura.

   Non è il periodo per assecondare l’egoismo altrui. Perché è proprio in questo genere di situazioni che lo sciacallo ama muoversi.

   Giorno 1, notte

   La mia pagina Facebook è lo strumento principale del racconto. Faccio un resoconto della giornata sempre. Non sono un giornalista. Sono un narratore. Ho cambiato l’orario del serale. Il coprifuoco è alle 22.

   La paura è presente. La gente che si collega con te a volte vuol sentirsi una favoletta contro la paura che assecondi le sue paure. E se glielo dici, ti condanna pure. Non me la prendo perché, per quanto possa ripeterlo, non è da tutti affrontare la paura a viso aperto. Ci vuole tempo, e bisogna accumulare un’esperienza in poco tempo. Si tratta di una scelta.

   Quando spengo il collegamento, vado sul balcone che affaccia su una via principale. Semafori lampeggianti, luci urbane, e un fottuto silenzio anomalo. E l’impressione di essere incatenato a qualcosa, ma non sai cosa. Provo a dormire.

Aurélien Facente, novembre 2020