Coronavirus KR – Quel silenzio che non va bene

La mattina mi tocca passare da quella scuola elementare. Mi succede quando esco con il cane. Un breve giro dell’isolato per restare nella norma dei duecento metri imposto dalle ordinanze governative e regionali. Per cinquanta giorni almeno sempre lo stesso paesaggio. Palazzi con persone che stanno sul balcone che ti osservano come un oggetto estraneo, gatti selvatici che ormai hanno preso possesso del parco inutilizzato, e poi ad un certo punto ti ritrovi le scuole. Già, la scuola elementare della Santa Croce, poi magari ti ritrovi a guardare la scuola media Giovanni XXIII, e infine la Anna Frank.

   Solitamente a quell’ora del mattino, m’ero abituato ad ascoltare i clacson delle auto, e osservavo i genitori che accompagnavano i figli nelle loro scuole. Conversazioni tra mamma e figlio o tra papà e figlia, o viceversa. Scene di assoluta normalità di un giorno appena iniziato qui a Crotone.

   Oggi le scuole sono chiuse. Non sai quando riapriranno. Il dramma lo vivono certamente i ragazzi e i bambini, così come gli insegnanti. Obbligati a stare dentro casa e a evitare il contatto con i compagni. Una prova durissima che metterà in secondo piano lo studio, nonostante ci sia la migliore delle forze di volontà.

   Oggi c’è questo silenzio.

   Puoi ascoltare le auto passare, ma non ascoltare l’energia dell’infanzia e dell’adolescenza tra le aule è un duro colpo al cuore. Sembra di ascoltare il vuoto di una vita interrotta.

   Tutti a parlare del Coronavirus, e nessuno che si preoccupa di questo silenzio anomalo, brutto, dannoso.

   Certo, c’è la sicurezza e la salute da mettere in primo piano.

   Ma ciò non toglie che questo silenzio sia brutto.

   Ritorno alla mia memoria da ragazzo. Non ero uno che amava tanto andare a scuola. No di certo, ma sapevo che era importante. Ho i miei ricordi che tengo strettamente nel mio cuore, tra alti e bassi. Ma se fosse capitato a me, mi sarei angosciato nel sapere che non avrei potuto risedermi in quel banco accanto al mio compagno di classe.

   Il silenzio che ti zittisce ti rimette in moto un duro confronto con te stesso. Ti rendi conto di quanto manca il vocio dei ragazzi tra una lezione e un’altra. Ti manca sentire qualche maestra che si fa la voce grossa per tenere la disciplina. Ti manca il bidello che apre le porte della scuola, e magari lo vedi che alla fine delle lezioni si mette a pulire con impegno l’aula.

   Scene di quotidianità preziose.

   E ora silenzio.

   Un silenzio che non va. Anche se si tratta del prezzo della prevenzione e della quarantena. Non cambia la sostanza. Resta sempre un silenzio che non va.

Aurélien Facente, aprile 2020

L’Europa ai tempi del Coronavirus

Tutti stanno toccando questo tasto. Tutti ne scrivono. C’è chi la ama e c’è chi la detesta. Di fatto, nessuno è d’accordo.

   L’Europa è un’illusione bella e buona. Sulla carta, i politici hanno firmato dei trattati, e quelli dopo si sono cullati nell’illusione che quello doveva durare per sempre. Come l’Impero Romano che credeva di essere immortale, e alla fine sappiamo come andò a finire. Giusto per un esempio ancora più lampante, perché non ricordare Alessandro Magno che cercò di costruire un larghissimo Impero, che poi si sfracellò appena il giovane imperatore perse la vita. La storia è piena di queste illusioni.

   Certo, di progressi ne abbiamo fatti tanti negli ultimi 80 anni, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Perché dopo la fine del conflitto, la volontà di quella politica era raggiungere un grado di civiltà tale da poter mettere una pietra sopra a quella tragedia immane che racconta tuttora oggi il prezzo che l’odio comporta.

   Ed era giusto sognare l’Europa.

   Ma certi processi unitari hanno bisogno di molto tempo per realizzarsi.

   Non si sono fatti i giusti calcoli.

   Nel 1992 c’erano ben altre aspettative, però non si è capito che le cose possono cambiare da un momento all’altro.

   Le nazioni dell’Unione Europea hanno insistito tanto sul progetto economico chiamato Euro, che prima ancora si chiama ECU.

   Ci hanno voluto far credere che quel progetto avrebbe portato benessere.

   E poi, guarda caso, non hanno tenuto conto di un elemento che nella storia umana è forse il principale protagonista, ovvero il tempo che cambia le cose.

   Si è voluto far credere che quella moneta fosse la base su cui consolidare la grandezza di un’unica grande nazione.

   Nel 1992 potevi crederci. Io ero un ragazzino delle medie, e ci credevano i miei insegnanti. Si doveva dimenticare di essere italiani per sentirsi cittadini europei. Me le ricordo bene le tante frasi che si dicevano a scuola. Beh, comprensibile. All’epoca, i miei insegnanti avevano vissuto le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale. La visione di una Europa più giusta era qualcosa di nobile. E a tredici anni non potevo mica contestare quel bel sogno.

   Però poi cresci, e inizi a capire.

   Dall’entrata fattiva in vigore dell’Euro, abbiamo avuto progressi tecnologici spaventosi. Internet, smartphone, digitalizzazione. Giusto per citarne tre. Ma poi, nello stesso tempo, siamo diventati più poveri. Ci siamo tagliati le possibilità di costruirci una propria vita professionale perché le imposizioni economiche sono mutate.

   E mentre eravamo diventati più poveri, ecco che le scuse per rimandare la discussione del problema sono aumentate, sempre con lo stesso leit motiv: ce lo chiede l’Europa.

   Come se l’Europa fosse una persona, quando in realtà la verità da dire: ce lo impone lo Stato centrale europeo.

   Uno Stato che si regge solo su trattati economici, dai quali poi sono stati fatti altri trattati. Ma l’interesse economico non regge se non c’è l’interesse per i cittadini. Perché, per quanto puoi essere laureato in economia, si sa bene che la stessa economia ha bisogno dell’essere umano per essere tale. Se l’essere umano muore, l’economia non esiste. Ma l’economia deve essere il primo e unico obiettivo. Si può capire che i bilanci devono essere a posto per una questione di credibilità, ma uno Stato centrale sarebbe più credibile e civile se pensasse di più alle persone.

   L’Europa non pensa alle persone?

   Facciamo un piccolo passo indietro nel tempo. Giusto uno. La Brexit. L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tra l’altro votata dai cittadini inglesi in un referendum.

   La democrazia umana trionfa. Il resto dell’Europa accusa il colpo, ma non si preoccupa minimamente di dibattere, di fare un passo indietro e capire che qualcosa è cambiato inevitabilmente. Invece, si continua sulla strada dell’economia.

   Già, senza soldi non se ne cantano messe.

   Ma è anche vero che i soldi senza gli esseri umani sono carta straccia. Anzi, quando si muore il portafogli è superfluo.

   Però bisogna mantenere gonfio il portafogli in ogni caso. Bisogna solo fare i compiti e basta, tagliando i diritti delle persone che devono solo compiere i doveri.

   Poi arriva il Coronavirus, il nemico invisibile per eccellenza, quel caos che ogni tanto la natura genera, rendendolo talmente forte da far vacillare tutto il castello europeo.

   Ed è questo che succede, mettendo a nudo tutte le fragilità di chi si sentiva forte.

   Nella storia del mondo non è la prima volta che accade una pandemia.

   E le pandemie mettono a nudo i primi due schieramenti: i coraggiosi e i vigliacchi.

   In epoca Coronavirus è successo sostanzialmente questo.

   La prudenza economica contro la difesa della vita.

   E quelli che sono per la prudenza economica inveiranno sempre contro chi vuole difendere la vita, a patto che la cosa non colpisca anche loro.

   Il Coronavirus ha colpito la Germania e l’Olanda, ma per loro le persone sono sacrificabili. Un concetto totalmente diverso di concepire le politiche nazionali e internazionali. Loro non esiterebbero a sacrificare i più deboli per difendere la loro economia. Non lo hanno fatto prima, perché dovrebbero farlo adesso. Per aiutare i mafiosi italiani e gli scalmanati spagnoli? Non sia mai.

   Che strano concetto di stare insieme. Eppure gli aiuti internazionali non sono mancati all’Italia. La Cina, anche se con dovute riflessioni, è stata la prima ad intervenire. Poi Cuba. Poi Russia. Poi Albania, Polonia, e ci sarà anche qualcun altro.

   Gli amici si trovano nel momento del bisogno.

   Una parte dell’Europa non vuole essere amica con noi nel vero senso della parola.

   E qui cade il castello di carte.

   Allo stesso tavolo mi siedo con gli amici di cui mi fido, che mi spingono e mi sostengono a fare del mio meglio, e se serve mi aiutano anche. Però, quando ci sono i soldi di mezzo, succede altro.

   Si dice che chi trova un amico, trova un tesoro.

   Ma qualcun altro dice che chi trova il tesoro, se ne fotte dell’amico.

   Io aggiungerei che dietro il tesoro ci può essere sempre la spada di un pirata che ti infilza.

   Ecco forse spiegata la più grande illusione dell’Europa svelata.

   C’è sempre tempo per cambiare, a patto che si consideri l’esistenza delle persone come essenziale ai fini del meccanismo economico. Altrimenti non serve a niente.

   Per quanto mi riguarda, l’Europa è bella vederla dallo spazio, in una posizione lontana, con l’idea di un sogno.

   Perché l’Europa, ora come ora, è un vaso dannatamente fragile che rischia di rompersi in qualsiasi momento.

   Fare un passo indietro non è mai un’umiliazione, ma un vero e proprio atto di umiltà.

   E che sia ben chiara una cosa: il Coronavirus se ne sbatte ovviamente dell’economia.

Aurélien Facente, aprile 2020

Ciao, Joe (in ricordo di Joe Amoruso)

Non si è mai scritto tanto sui pianisti. Sulle vite dei pianisti. Certo, conosciamo la vita di talenti come Mozart, oppure come quel talento di David Helfgot, che conosciamo grazie al film Shine del 1996. Ma ogni pianista riesce a scrivere una storia, una vera storia.

   Io ho avuto il piacere e l’onore di conoscere e fotografare Joe Amoruso, quel pianista che si fece notare per aver contribuito al successo del ben più famoso Pino Daniele.

   Però non era solo il pianista di Pino Daniele.

   Joe era un artista di straordinario talento, e di sensibilità.

   Tanta sensibilità.

   Lo fotografai nel 2009 e nel 2010, e in quest’occasione era in compagnia di un altro musicista, Antonio Onorato, che gli riconosceva il grande talento e l’enorme preparazione musicale.

   Poi all’improvviso un male, e un percorso di lunga sofferenza.

   E oggi la triste notizia.

   Gli altri articoli che usciranno vi parleranno della carriera di Joe Amoruso. Ve ne parleranno, e qualcuno vi ricorderà la sua grandezza nella scena musicale di Napoli.

   Ma io ho conosciuto l’uomo, la persona.

   Ho visto una persona che, quando era venuta a Crotone, già usciva da un suo periodo buio. Ma le sue mani sui tasti del pianoforte elettrico vibravano di grande energia, di vivacità. Non si lasciava sconfiggere, tanto che poi non si fermava.

   Joe e il suo pianoforte.

   Anche in duetto con Antonio Onorato, gli veniva concesso uno spazio dove si esprimeva solo lui con la sua sensibilità.

   Poi magari il concerto finiva. E, ospitato da un amico a Capo Colonna, aveva fretta di andare a letto. Mi colpì molto questo suo particolare. Già, perché Joe non era uno che aveva voglia di dormire perché stanco. Aveva voglia di svegliarsi molto presto perché voleva vedere l’alba di Capo Colonna.

   Joe, continuerai a vedere l’alba adesso.

   Ciao, ci vediamo presto.

Aurélien Facente, 24 marzo 2020

Coronavirus KR: Caro Giuseppe Conte…

Oggi è il 17 marzo 2020. In realtà volevo scrivere a Lei, Avv. Giuseppe Conte, Attuale Presidente del Consiglio italiano, già qualche giorno fa. Ma ho preferito aspettare, perché di lettere aperte ne avrà lette migliaia in questi giorni, molte pubblicate sui giornali.

   Può darsi che un giorno capiterà di trovarsi casualmente a leggere la mia, piccola e insignificante vista la situazione, lettera che le ho voluto scrivere.

   Mi sono preso il tempo di scriverla, senza farmi condizionare da nessun sentimento di rabbia e di paura, che attualmente sono i primi nemici dopo il Coronavirus. Nemici che ognuno di noi deve saper tenere sotto controllo.

   Inizio questa mia lettera con la foto, presa da uno Smartphone, che le farà vedere un tramonto urbano. Ebbene, quello è il tramonto dalle parti di casa mia. Vedo quella scena da 25 anni ormai, e il bello è che il sole tramonta alle spalle della chiesa, San Domenico per essere precisi, dando l’impressione che il sole vada ad accasarsi nella casa del Signore. Una scena suggestiva che sto cercando di rendere ovviamente poetica, senza nessun pregiudizio per chi crede o non crede. Però ho la fortuna di godere giorno dopo giorno di un’immagine simile.

   Purtroppo, ahimé, non tutti possono godere di cotanta bellezza, vista la quarantena imposta per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus.

   In pochi giorni, e Lei lo sa bene caro Presidente, abbiamo tutti dovuto cambiare drasticamente le abitudini. Qualcuno c’è arrivato prima, qualcun altro dopo. Ma nel giro di qualche giorno, diciamo, che l’equilibrio si è costruito e si sta mantenendo, almeno per ora.

   Perché il sacrificio è enorme, ma in linea di massima seguiamo le istruzioni. Lavarsi le mani, usare i guanti, mantenere le distanze, mantenere la fila (anch’essa a distanza), si cerca di uscire il meno possibile. Questi progressi sono stati fatti.

   Poi ci sono i però.

   La motivata paura delle persone, la non immediata reattività, il fatto di trovarsi perennemente su una linea di confine, neanche il tempo di imparare per bene le nuove regole. E queste cambiano spesso, a quanto apprendo dalle tante testate.

   Sia chiaro. Non voglio rimproverarla per il tremendo lavoro che sta facendo in questi oscuri giorni, Giuseppe. La capisco. Lei cerca di tenere dritta la barra di un timone molto fragile in questo momento, perciò Lei, da buon capitano da crociera, sta richiamando tutto l’equipaggio all’ordine. E cerca di farlo senza perdere la calma, perché siamo in piena tempesta.

   Già, Quel nemico invisibile che si chiama Coronavirus ci è piombato in fretta. E lo so che fa paura. Lo vedo negli occhi di chi cerca di mantenere l’ordine. Poliziotti e carabinieri che devono mettere da parte la loro umanità, e non hanno avuto il tempo di recepire bene le informazioni, anche se il loro impegno è massimo.

   La stessa cosa vale per i pompieri e per tutti quegli operatori che sono in mezzo alla strada cercando la via della logica.

   Il Coronavirus e il Caos. Due perfetti alleati in questo tempo sempre più buio abbattono le certezze di chiunque.

   Signor Presidente, a nessuno piace ammettere la propria fragilità. Siamo in una società dove conta solo il più forte, dove conta saper dimostrare di essere forti senza pietà. Una pura e mera illusione, perché il Coronavirus colpisce subdolamente, senza avere pietà. Fa solo quello che la sua natura impone. E non c’è da chiedersi perché.

   Non adesso che non abbiamo una narrazione certa della malattia. Ora si lotta contro il tempo, e sembra che questo ci condanni. No, signor Presidente, non siamo condannati dal tempo. Siamo condannati a renderci conto della nostra fragilità.

   Vede, io mi considero un privilegiato. Ho piccoli spazi di libertà durante la giornata. Le assicuro che nei miei brevi viaggi a piedi verso un supermercato, verso la banca, girando un po’ l’isolato con il cane… Già, mi sento un privilegiato perché assaporo il tempo, pur sapendo che il nemico potrebbe colpirmi.

   E prendo momenti da poter trasmettere agli altri quando posso. Pezzi di colore perché gli altri, che le assicuro restano ben chiusi in casa, hanno bisogno per tener duro. Non basta solo essere sintonizzati sul web o in televisione. Ci vogliono segnali di vita pura e semplice, perché trasmettere quei segnali portano forza nelle persone.

   Io non so se Lei potrà sapere della domenica di Crotone. Della prima domenica della quarantena.

   Solo silenzio. Giusto qualche auto. Sì, perché lei non lo sa ma qui abbiamo una comunità fatta di persone anziane da tutelare, ma anche di malati ad un passo dalla morte, e non per il Coronavirus. Crotone è una città che è stata maltrattata da un inquinamento selvaggio a causa delle industrie, ormai dismesse da più di vent’anni, ma ancora con scheletri presenti.

   Qui lo conosciamo un nemico subdolo e invisibile. Lo chiamano Tumore.

   Perciò, Presidente, tenga conto dei crotonesi. O i krotoniati. Ne tenga conto.

   Perché, a parte qualche grosso vocione, ognuno di noi fa il meglio che può.

   In una settimana, ad esempio, si sono organizzate tante microcomunità per organizzarsi meglio. Un esempio: uno va al supermercato per sapere se c’è l’alcol verde, e se non c’è lo dice agli altri. In altri casi ci si raccomanda di prendere poche cose per velocizzare la fila. Per non intasare. Per facilitare il lavoro del supermercato.

   Poi magari esci più volte. Capita. Non per passare il tempo. Assolutamente no. Dove vuoi passare il tempo a Crotone, se tutte le attività di ristorazione, di somministrazione, cinema, teatro e librerie sono chiuse?

   Non varrebbe nemmeno la pena di farsi un giro. Perché Crotone è già una città dove hanno chiuso ben altre cose, oltre al lavoro.

   Perciò forse abbiamo buon senso di fare le cose per bene.

   Perché il prezzo dei morti lo conosciamo bene.

   Perché il prezzo di chi è andato via per un futuro migliore lo conosciamo bene.

   E io, che son rimasto come tanti, lo sentiamo il vuoto di una casa vuota, senza persone.

   Però, nella prima domenica di quarantena, qualcosa s’è ascoltato.

   Un balcone con bambini che giocano. Qualcuno che canta. Qualcuno che suona. Un po’ di musica ad alto volume. La voglia di ritornare a essere vivi.

   Sono cose che ti fanno sorridere perché ti aiutano ad avere speranza.

   Vedo e ascolto.

   Sono abituato a farlo. Avrei la tentazione di prendere la mia macchina fotografica e fare un ritratto a tutte queste piccole storie belle. Ma non posso. Perché rispetto il tempo concesso della mia microlibertà. E allora mi limito soltanto ad ascoltare, e a pensare che questi sono momenti che almeno vanno scritti.

   C’è la voglia di essere migliori.

   Perciò, caro Giuseppe Conte, quando tutto sarà finito si prenda il tempo di leggere questa mia piccola lettera aperta, se mai ne avrà l’occasione. E magari la legga anche a chi istituzionalmente le è vicino.

   Noi non siamo numeri, signor Presidente.

   Siamo persone, ognuna con una sua storia e con una propria dignità.

   Non rivendichiamo il folle diritto di fare ciò che vogliamo. No. Rivendichiamo il diritto all’esistenza. Perciò quando sarà tutto finito, non pensi soltanto a circondarsi di linguaggi istituzionali, ma si faccia anche circondare da linguaggi molto umani.

   Facciamo il tifo per la vita.

   Con profondo rispetto.

Aurélien Facente, 17 marzo 2020

La Brexit è pur sempre il diritto di un popolo, anche se non piace

L’Inghilterra esce dall’Europa, e torna a essere Inghilterra. Per l’Europa, quella di Bruxelles, è una sconfitta che brucia. Lo scenario che si presenta è inedito, ma adesso c’è il precedente. E l’Europa, quella che sta a Bruxelles, sembra che non ami parlarne, il che fa capire che forse è meglio aspettare e osservare prima di fare le dovute conclusioni.

   L’uscita dell’Inghilterra è una sconfitta o una vittoria?

   La risposta non è certa.

   Di sicuro è la vittoria di un popolo che ha votato per un referendum per uscire dall’Europa.

   È la vittoria degli euroscettici, dei critici verso l’Europa, di un mondo intellettuale messo a tacere che non voleva questa Europa burocrate e basta. È la vittoria dello scrittore francese Michel Houellebecq che, nel 1996, Maastricht era un grosso sbaglio. È un po’ la vittoria di Craxi anche, che a suo modo si auspicava una riscrittura dei trattati europei.

   Fermiamoci qui per il momento.

   È anche una sconfitta ovviamente.

   La più cocente sconfitta dell’Europa economica.

   Era chiaro che gli Stati non potevano stare insieme solo esclusivamente tenuti da una catena economica, oltre che da un modo di fare ipocrita. Basti pensare a come viene affrontato il tema dell’immigrazione. Si trova il cucuzzaro di turno e deve vedersela lui e basta. L’Italia è il cucuzzaro dell’Europa, e allora i burocrati e i tecnocrati vogliono solo tenersi pulita la coscienza, e non affrontare il problema a viso aperto, tutti insieme, come dovrebbero fare le vere civiltà.

   L’Europa, però, non è una civiltà. È un insieme di popoli che, però, non hanno chiesto di stare per forza insieme. I trattati li hanno firmati i politici, ma non sono i popoli ad aver deciso.

   La Storia è chiara in questo almeno.

   Si è voluto realizzare un’Europa per realizzare un sogno, per scrivere un racconto fantastico da raccontare ai nipoti. Ma oggi i nipoti non hanno le opportunità dei nonni. Ecco il problema.

   L’Europa si tiene legata attraverso l’economia. Ci si dimentica, però, che l’economia è fatta anche dalle persone di tutti i giorni. Se uccidi le persone, le economie cessano di esistere.

   L’Europa, così concepita, ha ucciso le persone di tutti i giorni.

   Disordini sociali, differenze tra ricchi e poveri accresciute, possibilità ridotte di arrivare alla fine del mese con un buon respiro, svalutazioni dei propri patrimoni, debiti che crescono senza controllo. E un caimano che detta le regole, senza dare modo di respirare. Stare sempre sotto il 3% in nome di che cosa poi? Di quale prospettiva? Di quale possibilità di un lavoro che mi possa permettere perlomeno di pagarmi una stanza.

   Il gioco non funziona.

   Risultato? Il popolo inglese vota il referendum e decide di uscire.

   Certo, può permetterselo.

   E fa bene. Perché il popolo ha democraticamente deciso.

   E oggi festeggia.

   Gli inglesi non sono un popolo nobile al 100%. La loro storia è macchiata di episodi controversi pagati anche con il sangue. Non hanno mai preteso di essere perfetti. Ma democraticamente hanno deciso di esistere.

   Personalmente ho fatto il tifo per la Brexit.

   Perché si doveva creare e realizzare quel precedente che basterebbe a ridiscutere lo stesso concetto di Europa.

   Perché l’Europa deve essere un continente dei popoli, e non delle economie. Deve essere un’Europa delle prospettive e delle possibilità, e non solo delle costrizioni.

   Un’Europa molto più umana e coraggiosa.

   Fosse stato così, l’Inghilterra non ne sarebbe uscita.

   Ora si è realizzato il precedente che tutti aspettavamo.

   I politici e i burocrati possono sempre teorizzare le apocalissi. Ma alla fine sono sempre i popoli a decidere del loro destino.

Aurélien Facente, febbraio 2020

Tutti parlano del coronavirus, ma nessuno del coglionavirus

Che cosa strana l’informazione oggi. Una volta, si prestava all’attenzione della qualità della notizia, cercando di arrivare alla comprensione del fatto attraverso l’uso del buonsenso. Perché la verità andava compresa, perché il fatto potesse essere parte della storia contemporanea, perché il lettore era una risorsa e non un imbecille.

   Oggi il lettore (inteso come massa) deve essere considerato come uno scemo, allora è lecito alzare i toni giocando anche sulla paura, e creare apocalissi inesistenti, anche su fatti meno gravi di quel che vi fanno vedere.

   Oggi si parla di questo coronavirus, un virus proveniente da un angolo sperduto della Cina e già si parla di apocalisse, buttando merda sulla Cina stessa, come se i cinesi fossero tutti portatori del virus che ucciderà l’umanità, come se i cinesi stessi fossero degli incapaci totali.

   La Cina avrà anche le sue pagine buie, ma i cinesi non sono degli sprovveduti (stiamo pur parlando della terza forza militare al mondo, oltre che la più potente economia al mondo, visto che i loro capitali fanno abbastanza gola un po’ a tutti quanti).

   In Italia i mezzi d’informazione sono fantastici, senza contare gli utenti su Facebook.

   Il coronavirus è uno dei tanti virus che popolano sul pianeta. Una forma diversa di polmonite che avrà di sicuro una sua forma violenta, visto che le polmoniti sono pur sempre dolorose. Ma ogni virus ha una sua percentuale di mortalità. Anche un raffreddore mal curato può uccidere.

   Eppure si promuove l’apocalisse, si promuove l’idea di un qualcosa che ci ucciderà per forza, e allora dobbiamo evitare i cinesi (tutto quello che ha a che fare con la Cina).

   E così si promuove il panico, il razzismo, l’isteria, e quant’altro ancora. Quindi, succede che poi uno è malato di qualcos’altro, chiede magari aiuto e nessuno chiama l’ambulanza perché il malato fa schifo ed è una minaccia che non merita. Questo è uno degli effetti dell’isteria collettiva. Vi trasforma in mostri.

Volete conoscere un altro effetto dell’isteria?

   Chiudere 6000 persone dentro una nave solo perché c’è un malato sospetto. Come? Invece di fare uscire le persone per farle visitare, le chiudete con il malato che le contagerà dentro la nave? Ci si rende conto di quello che sta avvenendo? E questa è solo una delle tante notizie…

   Certo, il blogger ha parlato. Però, a differenza di tanti, cerca di usare un po’ di buonsenso e non di farsi contagiare dal coglionavirus, che è un virus molto più pericoloso. Perché proviene dal cervello di altri che vogliono convincervi a farvi più male, così loro giustificheranno la loro mancanza di buonsenso. A cominciare dalle televisioni che prima hanno giocato con le vostre paure alimentandole, e poi vi diranno di stare tranquilli. E nel frattempo la parte peggiore di voi stessi è già uscita.

   La storia del malato che viene lasciato morire perché gli altri hanno paura di chiamare un’ambulanza vi dice niente? Potrebbe toccare anche a voi una storia brutta del genere, perciò è preferibile prendere delle precauzioni, ma non di lasciarsi contagiare dal coglionavirus che ha ormai contagiato il cervello di tanti giornalisti e di alcuni statisti (presunti tali) che poi si scuseranno per aver promosso il male con qualche supercazzole delle loro.

   Ora, la Cina, giusto per parlare, è lo Stato che è cresciuto economicamente e militarmente con livelli di eccellenza da far impallidire anche gli Stati Uniti d’America (che guarda caso teme la grande Cina Rossa). E secondo voi, i cinesi si lasceranno abbattere dal virus? Stiamo parlando di un popolo che in un paio di settimane ha messo in piedi due ospedali (quando in Italia per costruire un ospedale ci vogliono almeno 30 anni, tangenti permettendo).

   Cioè vi fidate di questa gente solo per due casi sospetti, tra l’altro con bollettini medici che parlano già di discreta salute?

   Se avete sintomi particolari, ovvero vi sentite male, chiamate il vostro medico o andate al pronto soccorso per farvi visitare.

   Non si scherza con i virus. È vero anche questo.

   Ma il coronavirus è trattato mediaticamente parlando da una serie di soggetti contagiati dal coglionavirus, gli stessi che più o meno hanno fatto credere che la SARS fosse un altro virus apocalittico.

   Sapete come andò a finire? Tanti danni alle economie varie, e soprattutto una psicosi che ha fatto esaurire le scorte di vaccini antinfluenzali che hanno causato più danni del resto, proprio perché il sottoscritto, malato cronico, quando ha avuto bisogno di farsi il vaccino s’è affrontato l’inverno con una broncopolmonite assurda, e mandando a quel paese tutti i media gestiti da contagiati dal coglionavirus…

   Danni di cui nessuno vi parla (tanto che la SARS finì nel dimenticatoio, solo recuperata oggi per giustificare l’isterismo da coronavirus).

   La serietà impone ben altro. Prima di tutto, nessun virus è da sottovalutare. Ma c’è virus e virus. Ogni virus ha una sua mortalità, anche il coronavirus stesso. Ma la mortalità, vista oggi attraverso le dichiarazioni ufficiali (quelle mediche per intenderci), resta bassissima. I deceduti sono morti per altre complicazioni anche. Parliamo di malati cronici e anziani, a dire il vero, e di tutte quelle persone che hanno problemi con il sistema immunitario. Sono drammi, presi singolarmente, ma fanno parte di una casistica inevitabile. Anche l’influenza ha la sua mortalità.

  Perciò vi rifaccio la domanda?

   Vi fidate dell’efficienza della Grande Cina o delle parole di qualche contagiato dal coglionavirus? Vi fidate del vostro medico o delle parole di qualche presunto statista contagiato dal coglionavirus?

   Meglio fidarsi del proprio dottore.

   Fidatevi di un malato cronico qual è il sottoscritto. Sono diabetico. Ho avuto una polmonite giorni fa. L’ho presa con molta calma, ma ne sono uscito. Curandomi e non facendomi prendere dal panico.

E oggi vedo tanto panico e tanta paranoia. La parte peggiore di voi stessi è già uscita. Dovreste solo rileggere quello che scrivete.

Aurélien Facente, febbraio 2020

Hammamet, un film di Gianni Amelio (visto da me)

L’ho visto sabato sera. E ho atteso qualche giorno prima di scriverci qualcosa. Forse non ne valeva la pena scriverci. Si è letto di tutto su questo film. Però mi ha incuriosito il contrasto tra pareri positivi e negativi.

   Accade sempre quando esce un film controverso, figuriamoci poi se questo film parla di Craxi, dei suoi ultimi giorni da latitante in esilio in Tunisia, in una villa a pochi passi da Hammamet.

   Craxi resterà sempre un politico controverso e fastidioso per taluni, geniale e patriottico per altri. In fondo, si tratta di un personaggio che è stato protagonista, nel bene e nel male, di un importante periodo italiano.

   Ma fermiamoci qui.

   La storia di Craxi la conosciamo, o almeno crediamo di conoscerla. E forse è meglio restarne un po’ a distanza, se non altro per rispetto di un uomo politico che ha amato a modo suo l’Italia, essendone stato un rappresentante politico.

   Sono stato combattuto nel vedere il film.

   Alcuni lo vedono come un tentativo revisionista con spunti commerciali. Altri lo vedono come un film non coraggioso.

   Per vedere un film del genere è meglio non farsi influenzare. Resta da ammettere che resta un film controverso.

   Fosse stato una graphic novel, forse avrebbe reso meglio. Un fumetto rende meglio una visione revisionista, e forse avrebbe reso meglio la storia. Anzi, l’avrebbe anche giustificata in alcune visioni.

   Però il film di Gianni Amelio trova il suo perché.

   Lo trova nel suo attore, un favoloso e perfetto Pierfrancesco Favino, che riesce a essere Craxi, a essere l’Attore con la A maiuscola. In queste due ore troverete quello che è la maestria di un attore vero. Certo, il merito va forse condiviso con il regista, perché alla fine è la camera diretta da Gianni Amelio che riesce a ridare in qualche modo vita a Craxi, o almeno all’idea che ci facciamo di lui.

   Due ore e passa volutamente lente, forse perché era meglio così.

   L’idea di un esilio lontano da tutto e da tutti.

   Una mossa che non è piaciuta a tutti.

   Ma forse la sola che ci ha permesso di godere al meglio dell’’interpretazione di Favino.

   Hammamet è un film controverso. Eccede nel voler essere estremamente rispettoso e riverente nei confronti del Craxi uomo, e si ferma alla superficie del politico.

  Quasi due ore e mezzo non sarebbero mai bastate per raccontare di Bettino Craxi, e non sarebbero nemmeno bastate per raccontare la sua visione politica.

   E allora meglio provare a raccontare quella che è la sua fine. La fine di un uomo che ha amato tanto la politica come mezzo nobile per contribuire a costruire una civiltà.

   Gianni Amelio fa di tutto per non canonizzare Craxi, per non renderlo il personaggio di una fiction dimenticabile. Usa la camera in modo molto delicato per provare a raccontare con semplicità l’essere umano e basta.

   Perciò il risultato finale del film ci lascia con l’amaro in bocca.

   Perché ci troviamo davanti ad un semplice racconto di un uomo.

   Sarebbe servito un film più vicino alla verità, quando in realtà tante verità non sono mai state raccontate fino in fondo? Sarebbe servito un film crudele, che maltrattava la figura di Craxi, il fuggiasco che si è rifugiato a Hammamet?

   Un film non è il racconto del reale a tutti i costi. Un film racconta e basta.

   E il film racconta di un uomo e dei suoi ultimi giorni a Hammamet.

   Lo fa in maniera molto romanzata, certo. Usa anche qualche escamotage per rendere digeribile una storia che già parte con una sua complessità. Usa delle ingenuità narrative (che in un fumetto sarebbero più giustificabili) per rendere il film più godibile.

   Ma sono difetti che scompaiono man mano che seguiamo il percorso attoriale che si è dato Favino per interpretare Bettino Craxi.

   Hammamet mi è piaciuto perché è un racconto e basta, è la sintesi perfetta di regia e attore. E da qui trae la sua forza migliore.

   Ci sono anche le musiche del maestro Piovani. C’è un’ottima fotografia. C’è una visione di un qualcosa che ci spinge a riflettere prima di condannare.

   Un film, appunto, controverso.

   Consigliato a chi ama scoprire e godere della recitazione di un attore che si lascia guidare dalla mano narrativa di un regista che può ancora dire la sua.

   Sconsigliato di sicuro a chi ha dentro di sé profondi sentimenti politici. Lo vedreste come un film che giustifica Bettino Craxi, e vi guastereste lo stomaco.

   Hammamet è un film controverso. Piace e non piace. Ma resta comunque un lume importante sulla capacità del cinema italiano che, a volte, è capace di produrre un film che spinge sempre alla riflessione.

Aurélien Facente, gennaio 2019