Cultura da Virus: Resident Evil di Paul W. Anderson

Resident Evil è prima di tutto una serie di videogiochi prodotti dalla Capcom. Un successo commerciale per un videogame che ti dava la possibilità di vivere un’avventura quasi in prima persona in una città infestata da zombie infettati con un virus letale. Il successo fu tale verso la fine dei 90’, che si cominciò a pensare di farne un film.

   Nel 2002 uscì il primo film di Resident Evil, diretto da Paul W. Anderson, che tra l’altro aveva già diretto un altro film tratto dai videogiochi, quel Mortal Kombat mezzo riuscito nel 1995 che aveva già un ritmo indiavolato.

   Resident Evil è un film veloce. Appena meno di cento minuti. I primi dieci minuti sono un capolavoro. Descrivono l’incidente dentro il palazzo/laboratorio con tanto di fuoriuscita del virus. Una scena che farebbe felici i complottisti del coronavirus che sostengono l’esistenza di un virus militare realizzato in Cina, proprio a Wuhan. Magari il laboratorio è anche uguale. Ma torniamo al film.

   La telecamera del regista si sposta su Alice, interpretata da una efficace Milla Jovovich, di cui non sappiamo niente che si sveglia in una villa stupenda, ed è senza memoria. Dentro la villa appare un personaggio maschile, e subito dopo entra la squadra di mercenari mandata dall’Umbrella Corporation, e si scopre che la villa è l’ingresso di un super laboratorio sotterraneo dove vengono compiuti esperimenti genetici e si realizzano virus super distruttivi, ma talmente intelligenti da uccidere le persone e renderle zombie. Come la squadra oltrepassa la porta d’ingresso, inutile dire che ha inizio l’incubo.

   La sceneggiatura non offre spunti geniali, ma il film è uno spettacolo di tensione. Offre anche i suoi buoni colpi di scena. I personaggi sono abbozzati il giusto. Forse solo la donna mercenaria interpretata da Michelle Rodriguez è antipatica, sgradevole, rude e cazzuta. Il contrario di Milla Jovovich, che è una bella donna, ma saprà essere cazzuta il giusto. Un ruolo che ricorda molto quello di Sigourney Weaver in Alien e Aliens – Scontro finale, ovvero quello di una donna apparentemente fragile.

   Poi il film alza il ritmo, e non mancherà di mostrare i suoi effettacci speciali.

   Il particolare originale è la visione scientifica dello zombie, qui trattato come vero e proprio virus da abbattere e da evitare.

   Pur essendo l’adattamento infedele di un videogioco, Resident Evil entra di diritto nei film di fantascienza, del genere “virus”. In particolare proprio questo film, che purtroppo non regge il peso del tempo dal punto di vista degli effetti speciali, che ha un’atmosfera che non si ripeterà nei suoi cinque seguiti (che saranno ben più d’azione, alzando il tasso di spettacolarizzazione).

   Una menzione, però, la meriterebbe il diretto seguito, “Resident Evil: Apocalypse”, di qualche anno successivo per un motivo che si lega all’attualità dei giorni nostri.

   La scena della quarantena imposta alle porte della città immaginaria di Racoon City, che sarà isolata dal resto degli Stati Uniti.

   Una scena molto ben diretta.

   Okay, ci sono gli zombie. È horror puro. Fatto per divertire soprattutto. Dopotutto è un videogame adattato a film. Solo che, a rivedere oggi il primo film della saga, sembra che forse i media italiani ci stanno danneggiando il nostro senso di realtà proprio con una sceneggiatura presa da Resident Evil.

Aurélien Facente, marzo 2020

Qui il video degli Slipknot, la cui canzone funge da colonna sonora al primo film della saga di Resident Evil

Cultura da Virus: Doomsday di Neil Marshall

Mentre impazza in Italia ormai la fobia del coronavirus, vi consiglio di recuperare il film Doomsday di Neil Marshall, uscito nel 2008. Lo troverete in dvd, e forse su qualche emittente Mediaset (visto che fu Medusa a distribuirlo in Italia), ma guardatelo solo se avete lo stomaco forte. Il film è violento, tamarro, esagerato. Ma dannatamente fatto bene.

   La trama? Scozia, 2008. Un virus mortale impazza in una Scozia contemporanea, e la madre Inghilterra costruisce un enorme muro per imporre una quarantena con la forza. Si scatena la guerriglia. Una bimba riesce a fuggire, non senza difficoltà e perdendo anche un occhio. Ma la Scozia resta condannata a se stessa, e l’Inghilterra, in questa storia, costruisce la sua pagina più sanguinosa pur di contenere il virus.

   Passano gli anni. La bimba diventa adulta, e scopriamo che è una specie di super agente segreto, interpretata da una brava Rhona Mitra, al servizio del governo inglese. Adottata e cresciuta da un super commissario, interpretato ottimamente da Bob Hoskins, le sarà affidata la missione di andare in Scozia, perché un focolaio del virus mortale si è sviluppato a Londra, e pare che oltre il muro ci siano dei sopravvissuti, il che li rende ideali per sviluppare un vaccino.

   La super agente quindi ha l’occasione di tornare nella sua terra natia, dove scoprirà che dopo tanta morte si è eretta una società anarchica e violenta, molto medioevale nella crudeltà, e il viaggio la porterà ad incontrarne addirittura il re, interpretato da un ottimo Malcolm McDowell in uno dei suoi ruoli più nichilisti.

   E nel frattempo a Londra la pandemia scoppia.

   Vi ho raccontato il film, ma la fine no.

   Non serve. Tanto è prevedibile.

   Il film di Neil Marshall è un multigenere. Inizia come un film apocalittico, prosegue come una sorta di “Fuga da New York”, diventa un film horror barbarico per poi addirittura inglobare una corsa automobilistica da rivaleggiare benissimo con l’ultimo Mad Max (che uscirà anni dopo).

   Un mix che potrebbe risultare indigesto, anche perché il ritmo è indiavolato, il che è un pregio per un qualcosa che ha dei déjà-vu. Ma al di là di ciò, il film è importante riscoprirlo per due motivi principali.

   C’è un discorso fantapolitico, ma molto politico. Dinanzi a un’emergenza, i politici non temono di sporcarsi le mani. Anzi, usano la storia del virus e del probabile vaccino per rilanciare la propria campagna elettorale, a discapito della verità. Il che fa sembrare Doomsday, visto oggi in pieno periodo coronavirus, come un qualcosa di terribilmente profetico. Sì, perché poi c’è l’excursus sociale. La quarantena imposta, la zona chiusa, le regole ferree della cosiddetta zona rossa, ovviamente in un contesto più violento e più esagerato.

   Basta solo questo elemento per rendere appetibile il film, che però ha il difetto di essere estremamente violento, perciò pubblico avvertito: il film non è per bambini.

   Neil Marshall si era fatto conoscere per un horror spaventosissimo e notevole come “The Descent”, e in questo film mostra di saper usare bene la telecamera, soprattutto nelle numerose scene violente.

   Poi c’è il ritratto di una società disgregata, con i sopravvissuti lasciati nel più completo abbandono dalla madre Inghilterra, ma anche dal resto del mondo.

   In effetti, se uno ci riflette bene, l’indifferenza può essere un focolaio di un virus chiamato violenza.

   E poi c’è lei, l’eroina senza macchia interpretata da un’affascinante Rhona Mitra, che qualche anno più tardi interpreterà una serie tv che ha a che fare con un virus distruttivo, ovvero “The Last Ship”, ma qui ci si ferma.

   Doomsday è un film disturbante. Ecco, questo sì. Ma molto probabilmente è il solo che riesce a farci vedere l’estremismo di determinate scelte.

   E oggi, in periodo coronavirus, sembra proprio di vivere qualcosa di simile a Doomsday, solo che in questo film chiamato realtà non abbiamo ancora trovato l’eroe che possa farci dormire sonni tranquilli.

Aurélien Facente, marzo 2020