E il belga disse a me: “Non è cambiato nulla a Crotone” (Un ricordo molto attuale…)

Crotone, Maggio 2016. Il Crotone è appena salito in serie A. Un festeggiamento di quelli che non si vedevano da molto, moltissimo tempo. Strade piene di bandiere e di colori rossoblù.

   Una luce in mezzo a tanto buio.

   Intanto è sera, e scendo da casa perché è importante partecipare alla festa, in mezzo alla gente. Poi è giusto mettere alla parola fine a un equivoco che è stato nella testa di molti cittadini crotonesi.

   Per via del mio nome francese, Aurélien, sono tanti anni che lotto contro certi ignorantoni per ribadire la mia appartenenza sanguigna alla città di Crotone, e continuano a dire a bassissima voce che sono un francese di Parigi, come se Parigi fosse l’unica città francese esistente. Purtroppo per loro sono un crotonese di Crotone che sta a Crotone.

   A me il rossoblù m’è sempre piaciuto, perché se poi tra il rosso e il blu ci metti il bianco ecco che ti esce la bandieruola francese. Sarebbe bello vedere qualche crotonese cantare l’inno francese: “Allons enfants de la Patrie…”

   Ovviamente è un’esagerazione. Una cosa che potrei soltanto vedere nei miei sogni.

   Adoro l’inno francese quanto quello italiano, ma se poi lo dico ecco che ritorna l’ossessione collettiva del fatto che sono francese al 100%, anche se poi i documenti dimostrano che sono nato quasi 40 anni fa all’ospedale San Giovanni di Dio che si trova a Crotone, a due passi dallo stadio Ezio Scida.

   Tra i colori rossoblù mi sento a mio agio, perché per la prima volta avverto una gioia collettiva sincera. Per la prima volta ascolto le voci di un popolo unito. Certo, il tutto è dovuto al calcio, al merito della squadra. Ma se una squadra di calcio riesce a unire una città, vuol dire che si può iniziare a sperare.

   Quindi qualsiasi sorriso diventa contagioso.

   Entro in un bar sul lungomare di Crotone, il solito. Quello in cui mi trovo meglio. Perché è il bar in cui sono cresciuto tra alti e bassi.

   È sabato sera. Il giorno ideale per osservare la gente. Non amo spiare, ma osservare è una deformazione professionale del mio lavoro. Mi piace guardare quelli che mangiano e quelli che bevono, mi piace vedere i gesti tra i loro dialoghi, gli sguardi che s’incrociano. Poi trovo sempre qualcuno che sussurra di me, oppure qualcuno che urla il mio nome e tutto contento si nasconde come se avesse avuto un orgasmo. Tendenzialmente è maschio, leggermente imbecille, tendente a fare il figo. Ne ho conosciuti tanti di questi bulletti. A volte mi avvicino e li prendo di sorpresa. Amo chiamarli vigliacchi, ma in fondo li capisco. Mica possono dire in giro che prendere in giro il mio nome li porta ad avere qualche orgasmo mentale. Poi figuriamoci se io dovessi dire questa cosa alle loro ragazze.

   Perciò mi divertono. Certo, tendono a essere monotoni. Ma che ci volete fare? Simu à Cutrone…

   Basta parlare di me. Incontro gente. Alcuni amici. Ci si mette a ridere insieme. Il tempo passa. La notte continua fino a quando la gente non inizia a tornarsene a casa.

   I festeggiamenti per la serie A continueranno anche domani, e poi per tutto il mese di maggio, tranne nel weekend dedicato alla Festa della Madonna.

   Poi tutto finirà, e comincerà la lunga campagna elettorale per il sindaco.

   9 candidati a sindaco.

   Cazzo, ragazzi, abbiamo eguagliato il record di cinque anni fa.

   Altri 9 pazzi che si vogliono nell’avventura. Ma che cavolo di pensiero mi viene in mente adesso? Oggi posso dire di trovarmi in serie A.

   Sono al bancone del bar. Un amico si avvicina a me e mi presenta un tizio biondo. Parla inglese. Nella nostra immediata conoscenza riesco a scoprire la nazionalità del tizio. È un belga. Gli propongo di parlare in francese, perché in Belgio si parla il francese. E poi è più facile, vista l’ora tarda, di restare abbastanza lucido. Parlo l’inglese anche, ma con il francese ho più dimestichezza. Lo parlo fin da piccolo.

   Il belga si complimenta per la serie A conquistata. Poi scopro che lui è arrivato qui via mare con la sua barca di proprietà, che gli piace un sacco Crotone, e che sono almeno sei anni che attracca qui e ci passa qualche giorno volentieri.

   Poi mi fa una domanda alquanto strana: “Sono almeno cinque anni e mezzo che vengo qui, signor Facente. Le posso fare una domanda?”

   “Certo.”

   “Tutte le volte che vengo qui non vedo nessun cambiamento. A parte la vostra squadra di calcio che è appena salita in serie A.”

   Già. Non è facile cambiare le cose. Ma qui la fenomenologia parte da lontano, molto lontano. Simu sempre à Cutrone…

   “Posso sapere quando parti?”

   “Domattina, signor Facente…”

   “Ok. Te lo spiego la prossima volta che tornerai a Crotone. Ora mi voglio soltanto godere la festa. Comunque benvenuto a Crotone.”

   Ci vuole più di un libro per spiegare Crotone. Ma la faccia del belga è emblematica. Mi ha fatto notare che non è cambiato un cazzo, anzi che tutto è peggiorato. Eppure lui stesso vorrebbe che noi tutti migliorassimo, che costruissimo, che possiamo essere ben altro.

   Bene, amico belga, mi hai convinto. Torno a scrivere. E mò sono cazzi!!!

(Il seguente testo è tratto da un capitolo di un libro che non ho terminato di scrivere, giusto per essere chiari).

   Questa storia è accaduta nel 2016, e la riprendo perché, oltre al fatto che oggi, in questo momento storico a Crotone, non c’è un sindaco, ma un commissario prefettizio che ancora non ha ricevuto l’okay per lasciare il comune, ci sono due punti interessanti.

   Il primo, che è del signore belga, che denuncia l’immobilismo cittadino e urbano. Non che in Belgio siano migliori di noi, ma la percezione che si dà al viaggiatore che ritorna nella stessa città è purtroppo anche questa. La volontà di restare uguali a ieri e restare uguali anche domani. Questo non aiuta la comunità a crescere, e soprattutto non aiuta la percezione esterna che qui a Crotone si possono fare determinate cose, solo se questo desiderio di rivalsa diventa collettivo (e non individuale).

   E qui arriviamo al secondo punto, il più importante.

   Nel 2016 si candidarono in nove a fare il sindaco. Vinse Ugo che nel 2019 si trovò costretto a dimettersi da sindaco, e il perché lo sapremo quando i processi saranno celebrati in tribunale. Questo ovviamente ha lasciato la città senza una guida politica, tra l’altro molto discutibile.

   Però, in attesa della decisione dello Stato, c’è fermento politico. Già si parla in questa sessione incerta di qualcosa che molto probabilmente si concretizzerà come numero di candidati tra i 6 e i 9 che si contenderanno la fascia. E non parliamo poi dei candidati a consiglieri (e qui non basterebbe nemmeno l’elenco telefonico).

   Si ripeterà insomma la storia del ballottaggio, che qui, a differenza di 4 e 10 anni prima, sarà di sicuro più incerto.

   Mi auguro, a titolo personale, che il futuro sindaco possa quantomeno rispondere alla seguente domanda, la stessa che mi ha fatto quel signore venuto dal lontano Belgio: “Perché non cambia nulla a Crotone?”

   A questa aggiungerei: “E come mai peggioriamo, tra l’altro sapendo bene anche di peggiorare?”

   Chi mi risponderà con una certa serenità… ecco, mi rincuorerà un po’…

Aurélien Facente, febbraio 2020

La triste storia di un piccolo palco in piazza

C’è una storia che è passata del tutto inosservata. Vale la pena raccontarla. È la storia di un palco messo in Piazza della Resistenza, Crotone. È la storia di un piccolo palco che è stato tante volte presente in quella piazza dove si trova il palazzo comunale.

   Il palco è stato usato per tante iniziative. Concerti, eventi benefici, e comizi politici. Quel palco messo lì in piazza è stato il simbolo di tanti incontri con i cittadini.

   Come in ogni avvicinarsi delle elezioni, il Comune mette a disposizione il palco per far incontrare i candidati con la cittadinanza. Il palco è uno strumento, tutto sommato, molto democratico, perché da lassù il candidato racconta il suo progetto, e regala la possibilità anche un piccolo gruppo di persone di ascoltare.

   L’essenza della democrazia al centro della piazza, la cosiddetta agorà.

   La piazza è l’incontro delle persone. La piazza è anche il simbolo del dissenso. La piazza è il luogo dove la democrazia s’individua meglio.

   Eppure, alle ultime tornate elettorali regionali, il palco è rimasto vuoto. Sì, è stato usato per un’iniziativa. Ma non era politica.

   Per giorni e sere, ho aspettato che qualcuno, nonostante il freddo, salisse sul palco per provare a raccontarsi alla città. Ho aspettato che qualcuno arrivasse con un impianto per preparare al meglio il candidato. Avevo voglia di vedere qualche faccia nuova, ma anche qualche faccia più conosciuta.

   La semplice curiosità dell’elettore fu disattesa.

   Quel palco, oggi riportato dentro i magazzini comunali, è rimasto deserto, vuoto, senza che nessun candidato lo calpestasse.

   È vero che la politica ha cambiato il suo modo di comunicare. Adesso si comunica molto con il web. Ma si tratta solo di uno strumento. La piazza deve aver il diritto di ascoltare e di dissentire.

   Nessuno dei candidati ha usato il palco.

   Vergogna? Cattiva coscienza? Paura di parlare alla gente? Paura di affrontare il popolo arrabbiato perché più povero?

   Che strani i politici/politicanti della mia Crotone. Codardi? Ipocriti? Cazzari?

   Tranne qualcuno, la maggior parte dei candidati ha preferito le sale d’albergo, le sale al chiuso, le sale dove loro potevano ergersi senza rischi di prendersi qualche fischio. Hanno preferito distanziarsi, e così la stessa gente, quella che poi ha preferito astenersi, percepisce il messaggio sbagliato: che la politica non è un qualcosa che si dovrebbe occupare di tutti, ma solo di incontrare altri elettori, quelli che hanno più soldini e che non possono camminare in piazza liberamente.

   La gente s’allontana dalla politica, perché la politica s’è allontanata prima, e paradossalmente dopo aver preso i voti della piazza.

   Si dice che ogni popolo ha il governo che si merita.

   Ma in Calabria c’è una maggioranza di persone che non ha voluto votare, soprattutto in queste ultime regionali.

   La Regione Calabria, o meglio la politica che l’ha amministrata sinora (c’è un nuovo consiglio e ci sarà una giunta, ma al momento non va processata e condannata, almeno per ora, per il passato) si è voluta allontanare, dando il messaggio che la Regione è una grande torta da ripartire in pochi.

   Normale che le persone si allontanino. La Regione non è cosa per i calabresi.

   La campagna elettorale è terminata da molti giorni. Un presidente è stato scelto, così come sono stati votati i consiglieri. C’è una maggioranza che governerà, ma è stata votata da una minoranza, non dalla maggioranza della popolazione.

   E così il palco rimase vuoto e silente.

   È vero anche che qualcun altro ha incontrato i cittadini in un’altra piazza, ma questa è un’altra storia.

   Perché adesso il piccolo palco è rientrato nella sua casa, tutto solo e triste.

   Triste perché una certa politica ha volutamente dimenticato il reale valore di una piazza.

Aurélien Facente, febbraio 2020

La lunga corsa riparte da Crotone, ovvero la sfida di Tansi e di Voce

La Calabria, al termine delle elezioni regionali, non aveva riservato grosse sorprese. Tutto come previsto, come si legge dai sondaggi nazionali. Il centrodestra vince. Il centrosinistra all’opposizione. Gli altri fuori dalla Regione Calabria.

  Tra gli altri, c’era un certo signor Carlo Tansi, che ha avuto tra i suoi candidati l’ingegnere Vincenzo Voce.

   Nove anni fa, l’ingegnere Vincenzo Voce (era primavera) si candidò a sindaco con un piccolo movimento. Salì sul palco di fronte al Comune di Crotone ed esplicò un proprio programma, molto rispettoso dell’ambiente, davanti ad un pubblico poco numeroso.

   Il movimento scomparve, ma lui è rimasto a lottare.

   Anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Tra tante difficoltà, la costanza lo ha premiato. Le sue continue denunce e il suo progetto lo hanno premiato, entrando nei cuori delle persone, tanto da poter permettersi, giustamente, di camminare a testa alta tra la gente e per le vie di Crotone.

   In questo inizio anno si è candidato per le regionali a supporto dell’altro, quel signor Carlo Tansi che ha dimostrato costanza nel proprio progetto regionale. Se non fosse stato per l’alto astensionismo, forse sarebbe entrato in consiglio regionale.

   In verità, il signor Tansi ha pagato lo scotto del debuttante, così come nove anni fa lo aveva pagato l’ingegnere Voce.

   Non me ne vogliano i signori. Un piccolo riassunto è d’obbligo per capire il discorso che il sottoscritto vuole portare avanti.

   In Calabria ho visto tante liste scomparire nel dimenticatoio, pur avendo avuto qualche risultato interessante. La costanza è un valore raro in Calabria, molto raro. Non voglio parlare di coerenza, ma di costanza, che forse è oggi il valore più importante.

   L’ingegnere Vincenzo Voce è stato il candidato a consigliere più votato a Crotone (ma non nella circoscrizione intera). Segnale che indica che c’è una parte di cittadini che vuole cambiare proprio pagina, e l’ingegnere lo sa bene.

   Stamane, domenica 2.2.2020, s’è scritta una bella pagina di democrazia e di politica.

   È una bella pagina perché è molto raro vedere una lista rimettersi in piedi dopo qualcosa che altri vogliono vedere come una sonora sconfitta (anche se la vera sconfitta è l’astensionismo calabrese).

   Che Vincenzo Voce stesse pensando di rigiocarsi la candidatura a sindaco di Crotone in questo momento storico della città era un’ipotesi prevedibile, oltre che una possibilità da cogliere al volo. Che lo facesse con Carlo Tansi era un’ipotesi azzardata, che oggi è fattivamente realtà. Bello vedere che il signor Tansi, l’altro, abbia deciso di ripartire proprio da Crotone, e di candidarsi al consiglio comunale proprio per sostenere l’ingegnere Voce, e farlo davanti ad un pubblico di cittadini che si è riunito in una piazza della città, a pochi passi dal mare.

   Io, personalmente, non ci sono stato. Non potevo esserci. Preferisco essere il blogger a debita distanza di osservazione. Però in cuor mio speravo in una soluzione del genere, perché in passato ho assistito a tante storie interrotte. Posso testimoniare tutte le persone che si sono sentite umiliate dopo aver fatto il possibile per realizzare un progetto politico all’interno dell’ente, per provare a realizzare qualcosa di diversamente onesto. La Calabria, come Crotone tra l’altro, è una terra difficile, dove ormai l’astensionismo è una regola di chi ha assistito a tanta decadenza. Una terra dove è facile abbandonare piuttosto che restare in sella. Ho visto tanta gente andare via dopo che i progetti politici erano stati umiliati. Ho visto persone che non volevano ricandidarsi dopo aver visto solo il bicchiere mezzo pieno. Sono pochissime le persone rimaste a voler combattere per un qualcosa di diverso, di un qualcosa che vada oltre la classica immagine della Calabria delle salsicce e soppressate che si vuol far continuare a far vedere al resto dell’Italia.

  Perciò speravo che Carlo Tansi ripartisse proprio da Crotone, la città abbandonata da tutta la politica che conta. Speravo che il dato politico di Vincenzo Voce non si fermasse a quei 3187 voti (meritati), simbolo proprio di quel lavoro costante che negli anni ha svolto a Crotone, tra tutte le titaniche difficoltà che l’ingegnere ha sempre prontamente denunciato e raccontato.

   E oggi Carlo Tansi e Vincenzo Voce hanno scritto una bella pagina di politica dentro una piazza di tanti cittadini normali che hanno bisogno di voltare pagina.

   Sono piccole pagine che vanno scritte e ricordate, al di là se si possa sostenere il progetto politico o no.

   Perché alla fine questa terra chiamata Crotone, al di là dei problemi ambientali e strutturali, ha prima bisogno di avere dentro di sé persone che possano dimostrare prima di tutto costanza.

   Già. La costanza. Un valore di cui si parla sempre troppo poco.

Aurélien Facente, 2 febbraio 2020

La Brexit è pur sempre il diritto di un popolo, anche se non piace

L’Inghilterra esce dall’Europa, e torna a essere Inghilterra. Per l’Europa, quella di Bruxelles, è una sconfitta che brucia. Lo scenario che si presenta è inedito, ma adesso c’è il precedente. E l’Europa, quella che sta a Bruxelles, sembra che non ami parlarne, il che fa capire che forse è meglio aspettare e osservare prima di fare le dovute conclusioni.

   L’uscita dell’Inghilterra è una sconfitta o una vittoria?

   La risposta non è certa.

   Di sicuro è la vittoria di un popolo che ha votato per un referendum per uscire dall’Europa.

   È la vittoria degli euroscettici, dei critici verso l’Europa, di un mondo intellettuale messo a tacere che non voleva questa Europa burocrate e basta. È la vittoria dello scrittore francese Michel Houellebecq che, nel 1996, Maastricht era un grosso sbaglio. È un po’ la vittoria di Craxi anche, che a suo modo si auspicava una riscrittura dei trattati europei.

   Fermiamoci qui per il momento.

   È anche una sconfitta ovviamente.

   La più cocente sconfitta dell’Europa economica.

   Era chiaro che gli Stati non potevano stare insieme solo esclusivamente tenuti da una catena economica, oltre che da un modo di fare ipocrita. Basti pensare a come viene affrontato il tema dell’immigrazione. Si trova il cucuzzaro di turno e deve vedersela lui e basta. L’Italia è il cucuzzaro dell’Europa, e allora i burocrati e i tecnocrati vogliono solo tenersi pulita la coscienza, e non affrontare il problema a viso aperto, tutti insieme, come dovrebbero fare le vere civiltà.

   L’Europa, però, non è una civiltà. È un insieme di popoli che, però, non hanno chiesto di stare per forza insieme. I trattati li hanno firmati i politici, ma non sono i popoli ad aver deciso.

   La Storia è chiara in questo almeno.

   Si è voluto realizzare un’Europa per realizzare un sogno, per scrivere un racconto fantastico da raccontare ai nipoti. Ma oggi i nipoti non hanno le opportunità dei nonni. Ecco il problema.

   L’Europa si tiene legata attraverso l’economia. Ci si dimentica, però, che l’economia è fatta anche dalle persone di tutti i giorni. Se uccidi le persone, le economie cessano di esistere.

   L’Europa, così concepita, ha ucciso le persone di tutti i giorni.

   Disordini sociali, differenze tra ricchi e poveri accresciute, possibilità ridotte di arrivare alla fine del mese con un buon respiro, svalutazioni dei propri patrimoni, debiti che crescono senza controllo. E un caimano che detta le regole, senza dare modo di respirare. Stare sempre sotto il 3% in nome di che cosa poi? Di quale prospettiva? Di quale possibilità di un lavoro che mi possa permettere perlomeno di pagarmi una stanza.

   Il gioco non funziona.

   Risultato? Il popolo inglese vota il referendum e decide di uscire.

   Certo, può permetterselo.

   E fa bene. Perché il popolo ha democraticamente deciso.

   E oggi festeggia.

   Gli inglesi non sono un popolo nobile al 100%. La loro storia è macchiata di episodi controversi pagati anche con il sangue. Non hanno mai preteso di essere perfetti. Ma democraticamente hanno deciso di esistere.

   Personalmente ho fatto il tifo per la Brexit.

   Perché si doveva creare e realizzare quel precedente che basterebbe a ridiscutere lo stesso concetto di Europa.

   Perché l’Europa deve essere un continente dei popoli, e non delle economie. Deve essere un’Europa delle prospettive e delle possibilità, e non solo delle costrizioni.

   Un’Europa molto più umana e coraggiosa.

   Fosse stato così, l’Inghilterra non ne sarebbe uscita.

   Ora si è realizzato il precedente che tutti aspettavamo.

   I politici e i burocrati possono sempre teorizzare le apocalissi. Ma alla fine sono sempre i popoli a decidere del loro destino.

Aurélien Facente, febbraio 2020

Hammamet, un film di Gianni Amelio (visto da me)

L’ho visto sabato sera. E ho atteso qualche giorno prima di scriverci qualcosa. Forse non ne valeva la pena scriverci. Si è letto di tutto su questo film. Però mi ha incuriosito il contrasto tra pareri positivi e negativi.

   Accade sempre quando esce un film controverso, figuriamoci poi se questo film parla di Craxi, dei suoi ultimi giorni da latitante in esilio in Tunisia, in una villa a pochi passi da Hammamet.

   Craxi resterà sempre un politico controverso e fastidioso per taluni, geniale e patriottico per altri. In fondo, si tratta di un personaggio che è stato protagonista, nel bene e nel male, di un importante periodo italiano.

   Ma fermiamoci qui.

   La storia di Craxi la conosciamo, o almeno crediamo di conoscerla. E forse è meglio restarne un po’ a distanza, se non altro per rispetto di un uomo politico che ha amato a modo suo l’Italia, essendone stato un rappresentante politico.

   Sono stato combattuto nel vedere il film.

   Alcuni lo vedono come un tentativo revisionista con spunti commerciali. Altri lo vedono come un film non coraggioso.

   Per vedere un film del genere è meglio non farsi influenzare. Resta da ammettere che resta un film controverso.

   Fosse stato una graphic novel, forse avrebbe reso meglio. Un fumetto rende meglio una visione revisionista, e forse avrebbe reso meglio la storia. Anzi, l’avrebbe anche giustificata in alcune visioni.

   Però il film di Gianni Amelio trova il suo perché.

   Lo trova nel suo attore, un favoloso e perfetto Pierfrancesco Favino, che riesce a essere Craxi, a essere l’Attore con la A maiuscola. In queste due ore troverete quello che è la maestria di un attore vero. Certo, il merito va forse condiviso con il regista, perché alla fine è la camera diretta da Gianni Amelio che riesce a ridare in qualche modo vita a Craxi, o almeno all’idea che ci facciamo di lui.

   Due ore e passa volutamente lente, forse perché era meglio così.

   L’idea di un esilio lontano da tutto e da tutti.

   Una mossa che non è piaciuta a tutti.

   Ma forse la sola che ci ha permesso di godere al meglio dell’’interpretazione di Favino.

   Hammamet è un film controverso. Eccede nel voler essere estremamente rispettoso e riverente nei confronti del Craxi uomo, e si ferma alla superficie del politico.

  Quasi due ore e mezzo non sarebbero mai bastate per raccontare di Bettino Craxi, e non sarebbero nemmeno bastate per raccontare la sua visione politica.

   E allora meglio provare a raccontare quella che è la sua fine. La fine di un uomo che ha amato tanto la politica come mezzo nobile per contribuire a costruire una civiltà.

   Gianni Amelio fa di tutto per non canonizzare Craxi, per non renderlo il personaggio di una fiction dimenticabile. Usa la camera in modo molto delicato per provare a raccontare con semplicità l’essere umano e basta.

   Perciò il risultato finale del film ci lascia con l’amaro in bocca.

   Perché ci troviamo davanti ad un semplice racconto di un uomo.

   Sarebbe servito un film più vicino alla verità, quando in realtà tante verità non sono mai state raccontate fino in fondo? Sarebbe servito un film crudele, che maltrattava la figura di Craxi, il fuggiasco che si è rifugiato a Hammamet?

   Un film non è il racconto del reale a tutti i costi. Un film racconta e basta.

   E il film racconta di un uomo e dei suoi ultimi giorni a Hammamet.

   Lo fa in maniera molto romanzata, certo. Usa anche qualche escamotage per rendere digeribile una storia che già parte con una sua complessità. Usa delle ingenuità narrative (che in un fumetto sarebbero più giustificabili) per rendere il film più godibile.

   Ma sono difetti che scompaiono man mano che seguiamo il percorso attoriale che si è dato Favino per interpretare Bettino Craxi.

   Hammamet mi è piaciuto perché è un racconto e basta, è la sintesi perfetta di regia e attore. E da qui trae la sua forza migliore.

   Ci sono anche le musiche del maestro Piovani. C’è un’ottima fotografia. C’è una visione di un qualcosa che ci spinge a riflettere prima di condannare.

   Un film, appunto, controverso.

   Consigliato a chi ama scoprire e godere della recitazione di un attore che si lascia guidare dalla mano narrativa di un regista che può ancora dire la sua.

   Sconsigliato di sicuro a chi ha dentro di sé profondi sentimenti politici. Lo vedreste come un film che giustifica Bettino Craxi, e vi guastereste lo stomaco.

   Hammamet è un film controverso. Piace e non piace. Ma resta comunque un lume importante sulla capacità del cinema italiano che, a volte, è capace di produrre un film che spinge sempre alla riflessione.

Aurélien Facente, gennaio 2019

La grande buffonata

Ultimi giorni di campagna elettorale. E il protagonista è sempre lui, quell’odiato Salvini, che usa la tragicommedia per far parlare di lui. La citofonata in un quartiere popolare emiliano per scovare qualche presunto spacciatore.

   La formula del format non è nuova. Da mesi, il Brumotti di Striscia La Notizia gira tra i quartieri italiani a fare la sua lotta/inchiesta contro lo spaccio, mostrando il degrado di alcuni pezzi della società italiana, quella di cui non si osa parlare. Perché la vergogna è meglio metterla sotto un tappeto.

   E due giorni fa, ecco che l’odiato Salvini si fa filmare e pubblicare per aver citofonato e fatto le sue domandine: “Scusi, lei è uno spacciatore?”

   Fatto da un altro, sembrerebbe un omaggio all’irriverenza e provocazione comica di quel programma “South Park” che tanti anni fa trasmettevano in seconda serata. In una cittadina, le vicissitudini di quattro bimbi che non avevano paura di dire le parolacce e ne combinavano di tutti i colori in una cittadina di nome South Park, che era il ritratto contemporaneo di un’America che si stava affacciando nella sua epoca “politically correct”. Una serie geniale realizzata da due americani, Trey Stone e Matt Parker, che non aveva paura di andare contro il pensiero ipocrita del politicaly correct.

   E l’odiato Salvini, se fosse protagonista di quella serie inserito in quell’universo narrativo molto grottesco, ci starebbe benissimo.

   Una grande buffonata che ha servito ad accendere il solito fiume di polemiche che non cambieranno nulla.

   Matteo osa, e voi parlate, anzi sparlate e continuate ad alimentare la sua esistenza.

   Fatevene una ragione. Voi che lo criticate aspramente, voi che lo accusate, voi che lo temete, e forse qualcuno tra voi lo invidia pure tutto sommato, perché alla fine lui addirittura ha toccato il citofono e ha proferito la sua ennesima provocazione.

   Sporca provocazione o un lampo di genio tremendo da sembrare proprio una gag di South Park.

   Siamo in campagna elettorale, a sua volta all’interno di uno spietato circo mediatico.

   Voi avete visto soltanto lui e basta.

   Ed era quello che voleva.

   E voi, come tanti pesci, avete abboccato alla grande.

   Eppure non vi siete domandati dove si trovava, che ci faceva lì. Non avete visto il contorno. Non avete visto lo stato del quartiere popolare. Non ve l’hanno fatto vedere. Certo, sarebbe stato più utile vederlo forse, e domandarsi dove si trovavano i suoi fieri oppositori che hanno dimenticato di parlare delle persone, ovvero della dignità delle persone. Certo, meglio prendersela con lui, il capitano che con il suo nutrito gruppo di tifosi va a fare la citofonata più stupida della storia.

   Uno scherzo di cattivo gusto.

   Una buffonata da South Park.

   E non avrei voluto scriverlo.

   Ma intanto lui è il personaggio del momento. Lo avete reso voi il personaggio del momento. E qualsiasi cosa fa voi ne parlate.

   Se dovesse trionfare alle prossime elezioni, fareste bene a prendervela con voi stessi e basta. Perché, in fondo, molti di voi hanno voluto cadere nella trappola del pescatore.

   Buona votazione, sempre che ci andiate a votare.

Aurélien Facente, gennaio 2019

Politica social e le psicosi dell’elettore su Facebook

Politica strana quella di oggi. Oggettivamente non è la politica degli anni 80’, dove comunque c’era una politica che si occupava che l’Italia facesse la sua figura agli occhi del mondo. Al tempo delle elezioni, i politici ci mettevano la faccia e chiedevano personalmente il voto.

   Poi nel 1992 Tangentopoli.

   Arrivò il Berlusconismo che segnò la politica fino al 2010 più o meno. Silvio c’è ancora, ma ora è la zampa azzoppata del centrodestra. La sua storia caratterizzò molto l’Italia. Nello stesso tempo, i suoi avversari di sinistra furono tanti, ma mai così consistenti da farsi amare oggi.

   E nel frattempo i mezzi di comunicazione sono cambiati.

   Ma anche la politica è cambiata.

   E ciò ha influenzato la gente, e di parecchio.

   Un tempo, le elezioni erano un appuntamento atteso. C’era il dibattito tra le persone anche dentro un bar. C’era il culto della libera opinione. Ci si avversava, ma alla fine si sapeva che era il voto a fare la differenza. Nel bene e nel male.

   Oggi il voto passa attraverso i social. Ognuno si fa la sua paginetta Facebook, il suo profilo Facebook, su Twitter (per chi lo sa usare), e su Instagram (per chi lo sa usare). C’è anche chi si fa il canale YouTube personalizzato (molto utile a dire il vero). Tutti hanno il sito internet personalizzato.

   Ma tutti, più o meno, ti chiedono l’amicizia su Facebook o di mettere Mi Piace alle loro paginette elettorali.

   I candidati passano al virtuale e alla stupida legge del gradimento.

   Metti mi piace così sei figo anche tu.

   Ma se provi a criticare, allora non va bene.

   Certo, la critica va saputa scrivere. Non tutti possono criticare. Ma nella democrazia, quella che tutti predicano, è ipocrita chiudere la bocca.

   Siamo in una società strana.

   Oggi viviamo un eccesso di democrazia come non era mai avvenuto negli anni precedenti. Usiamo la parola con il commento. Scriviamo come parliamo. E veniamo fraintesi. E invece di essere noi stessi, facciamo in modo di piacerci. Oppure ci offendiamo, perché ognuno di noi pensa, sbagliando, di dover piacere per forza a tutti. E censuriamo se c’è qualcosa che non ci piace.

   Siamo dentro il mondo virtuale, dimenticandoci che il vero dialogo si fa fuori il PC.

   Non ci rendiamo conto, ma nel calderone Facebook ci mostriamo come tifosi e basta. Un eterno sfottò contro l’avversario. E ci scandalizziamo quando determinati comportamenti escono. Nei social diamo peso all’istinto, e non alla ragione. Anzi, se c’è qualcuno di più intelligente (e ragionevole) lo allontaniamo. Lo definiamo pesante. Non mette in foto le vrasciole (carne macinata fritta e impanata, secondo la classica ricetta crotonese, che in ogni famiglia è cucinata con i propri usi e tradizioni), perciò non è uno di noi. Salvo poi, magari, fare un passo indietro e fermarsi un po’ a osservarne i contenuti.

   Già, i contenuti. Quelli che fanno la differenza. Contenuto. Una parola troppo pesantuccia da capire oggi. Meglio la leggerezza. Tutto deve essere leggero. Guai a parlare di profondità. Guai a parlare di differenza. Qui devi essere figo e positivo. Sei su Facebook.

   E anche la politica, così, preferisce avere i like. E così tutto naviga nel leggero, nel superficiale, nel tragicomico.

   Un tragicomico che ha fatto molto male agli italiani.

   Non c’è nulla di male se andiamo dietro a una moda.

   Ma andando dietro la moda dell’uniformarsi all’interno dei social abbiamo scoperto che non ci amiamo proprio in realtà. Facciamo uno sforzo enorme a capire l’altro oggi, e allora preferiamo allontanarci.

   Quando arriva il periodo elettorale però, ecco che esce il tifoso cattivo dentro di noi. I politici sono tutti uguali. Ladri e delinquenti. Egoisti e ignoranti. In questo aggiungeteci lo scontro tra fascisti e comunisti, con l’inadeguatezza dei cinquestelle. Poi magari ti accorgi che c’è qualche persona molto brava, ma non sai se votarla. Non sai nemmeno se ci vai a votare, perché poi hai degli amici che non votano, perché votare non serve a niente. Già, non esprimersi non serve più a niente. Meglio la leggerezza, meglio continuare a essere fighi e simpatici su Facebook. Meglio questo. Almeno qui non ti attacca nessuno. Però poi scopri che vivi male, che non stai bene, e non sai nemmeno come dirlo.

   Oddio, sono diventato negativo. Come oso riflettere in questo panorama digitale? Beh, lo faccio e basta. Anzi, lo scrivo pure e non me ne pento. Proprio perché esprimo il mio pensiero, voglio farti capire che puoi farlo anche tu. E se non piaci, pazienza. Ma meglio essere se stessi e non piacere. Perché dall’altra parte sapranno che c’è una persona e non un misero like.

   La politica è social ormai. Fa tutto per piacersi.

   Ma l’elettorato si esprime in maniera psicotico. Ci odiamo perché vorremmo un mondo migliore, ma non lo abbiamo perché ci preoccupiamo dell’essere positivi su Facebook. Quello conta.

   Già. Ma poi?

   Lo sapete che un giorno avrete bisogno di altro, e che per averlo bisognerà saper andare ben oltre le superfici?

Aurélien Facente, 2019

L’ipocrisia dello schierarsi nella massa che segue o si scontra con il politico di turno (e l’importanza del voto)

   Conoscete Scott McCloud? Non lo conoscete? Pazienza. Questo signore, tra l’altro un artista, si occupa di fumetti. Nel mondo del fumetto è molto conosciuto, soprattutto per i saggi che provano a spiegare l’importanza del linguaggio del fumetto in una società come la nostra. Leggere i suoi saggi, tra l’altro realizzati con il linguaggio del fumetto, sono, anche per chi non legge vignette abitualmente, un ottimo modo per capire l’evoluzione del linguaggio nella nostra società, che oggi usa molto della cultura del fumetto. Ora, nel primo saggio di Scott McCloud intitolato Understanding comics ovvero Capire il fumetto, c’è una tavola che spiega il ruolo dell’artista all’interno della società odierna. È una sequenza molto importante, la vera chiave che vi fa capire senza giri di parole come funziona una mente più sensibile in confronto alla massa. L’artista si muove con la massa, poi a un certo punto si ferma e osserva la massa prendere una direzione che, molto probabilmente, lo stesso artista non seguirà, proprio perché si è fermato. Quella scelta lo porterà a realizzare un pensiero che sarà tramutato in un’opera d’arte, presumibilmente.

   Oppure una semplice opinione di dissenso verso la massa.

   In ogni caso questo è anche il principio della libertà di pensiero, e il pensiero differente è un pensiero libero, e finché il pensiero è libero ci sarà sempre un contrasto di opinioni, ed è in base a questo contrasto che la società prova a evolversi, tra tanti bui e tante luci.

   Avendo velleità prettamente artistiche, quella tavola stessa mi fece capire che non dovevo rinunciare alla mia natura. Per nessun motivo. Il mio essere “diverso” dagli altri era un’opportunità che io dovevo cogliere.

   Ho fatto esperienza giornalistica in passato. Mi è servito “essere giornalista”. Non rinnego ciò che ho fatto, e fa parte del mio percorso di conoscenza. Però, poi ho lasciato il giornalismo. Io non ero adatto per il giornalismo di oggi. Io sono cresciuto nella libertà di espressione, nel rispetto dell’altro, nel cercare di vedere le cose in maniera oggettiva per offrire la migliore testimonianza al lettore (o all’utente visto che ci troviamo oggi in pieno linguaggio Facebook).

   Alcuni di voi mi conoscono, altri no. Ci sono anche alcuni di voi, nella vita, che mi contrastano perché non mi schiero.

   Schierarsi in Italia, oggi, equivale a fare un patto con il diavolo.

   Tesserarsi in un partito o in un movimento diverrebbe parte integrante del mio curriculum lavorativo, e di fatto limiterebbe la mia libertà di potermi creare delle opportunità.

   Qui, nel meridione, non è facile essere “indipendenti”, o almeno avvicinarsi a qualcosa di simile.

   Perché esiste un insieme di persone che non lo concepiscono, e perciò non lo tollerano.

   Conosco i partiti, e sono abituato a fare la distinzione tra ideali e persone, e distinguo tra persona e persona.

   Ci sono persone che usano davvero gli ideali perché credono in una società migliore.

   Ma poi ci sono anche persone che usano gli ideali come maschera, e nascondendosi dietro quella stessa maschera si permettono di compiere qualsiasi cosa che non abbia un interesse pubblico. E quando vengono beccati, loro usano la scusa dell’ideale, della bandiera del partito.

   Oggi non viviamo in una società di coerenza. Viviamo in una società fatta di contrasti e di ipocrisie. E si usa la maschera politica per nascondere la propria ipocrisia, vero male di questa società che gioca a fare la “perbenista”, quando poi la stessa politica non ascolta più i suoi cittadini.

   Ci dicono che loro sanno quello che è meglio per noi, ma negli ultimi 20 anni la macelleria sociale ha fatto molti danni. Ora la classe media in Italia non è classe media.

   Certo, nel frattempo qualche piccolo traguardo è stato tagliato. Ma a quale prezzo?

   Dopo la crisi economica, è arrivata la crisi culturale.

   Guardate gli indici culturali in Italia, ma soprattutto guardate al Meridione.

   Forse la cosa non vi interessa, perché preferite sapere se stasera avrete il vostro pezzo di pizza oppure la vostra puntata del Grande Fratello. Magari non v’interessa quello che io scrivo perché voi non volete togliervi il velo che vi siete fatti mettere. È vostro diritto non leggere. Ma poi non prendetevela se poi un giorno vi scrivo: “Io ve l’avevo detto.”

   Ho ricominciato a scrivere di attualità, dopo una lunga pausa, e già qualcuno prova fastidio. Perché il mio misero punto di vista è una piccola opinione di dissenso, quanto basta per aiutare il lettore a riflettere.

   Ma non basta per rispondere alla domanda.

   Perché non mi schiero?

   Perché se voi vedete che ciò che è intorno a voi, a livello politico, è formato da una serie di soggetti che in realtà sono e fanno tutt’altro che la vera politica per il cittadino, come avreste il coraggio di schierarvi apertamente?

   Io ho un difetto che è pure un pregio: la diffidenza.

   La diffidenza ti permette di mantenere un equilibrio, di non farti cadere dal baratro se stai attento.

   La diffidenza è un difetto per chi ti chiede il voto.

   Perché chi ti chiede il voto, deve sapere di aprire tutte quelle porte per convincerti che loro sono il meglio, che loro cureranno il tuo futuro, che loro ti troveranno il lavoro, che loro sono migliori e che gli altri sono peggio. Perché l’avversario è cattivo, brutto, razzista, pazzo. Già, loro sono meglio. Ma in passato magari ti hanno scippato qualcosa alla quale tenevi tantissimo.

   Ma è qui che sta il loro punto debole.

   Perché un vero politico, spinto anche da un ideale diverso dal tuo, s’interessa della tua opinione, si chiede perché hai un pensiero diverso, vuole parlare con te perché sa che il tuo punto di vista può essere prezioso.

  Questo tipo di politico, però, è molto raro. Tremendamente raro.

  Oggi ti trovi davanti alla scelta di scegliere tra tanti soggetti, e ti viene anche la voglia di non andare a votare.

   Ecco perché trovo preziosa la mia diffidenza. Perché poi osservo meglio il mio candidato, e ciò mi convince a fare la mia scelta di dissenso.

   La esprimo attraverso il voto.

   Può anche non cambiare nulla intorno a me, dopo. Ma ho espresso la mia libertà di pensiero, ho espresso il mio dissenso, e così acquisisco anche un altro diritto, ovvero quello di esprimermi liberamente.

   Tra poco ci saranno le elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale della Calabria.

   Ho già verificato la presenza di tanti voltagabbana. Ho già scelto il mio candidato a dire il vero. Seguirò la ragione e il cuore. Contribuirò nel bene e nel male all’elezione di qualcuno. Ma voglio dare il mio segnale.

   Nello stesso tempo non chiedetemi di schierarmi. Non ve lo dirò mai da che parte sto.

   Ma soprattutto non seguo la massa.

   La massa si schiera e s’incatena.

   Io preferisco restare a osservare, oltre che a esprimermi ovviamente.

Aurélien Facente, gennaio 2019

Quel fenomeno di Matteo Salvini che molti si ostinano a non capire e a non vedere…

Da oltre un anno, chiuso nel mio antro, mi capita di vedere e ascoltare spesso Matteo Salvini, soprattutto nei video che fa e nelle interviste che rilascia. Osservo i suoi movimenti, ascolto il suo modo di parlare, sono un mezzo meridionale (la mia altra metà è francese) e non mi lascio trascinare dalle offese del passato.

   Conosco le provocazioni leghiste da quando andavo alle elementari. Pensate un po’. La maestra ne parlò apertamente una volta, definendo la Lega (che allora si chiamava Lega Lombarda) come pericolosamente razzista. Ne parlammo in quinta elementare, e correva l’anno 1989. Ma a dieci anni non ne capisci di politica.

   Poi negli anni 90’ fu Umberto Bossi il nemico da abbattere. Divenne protagonista antipatico del primo governo Berlusconi, e poi negli anni ne abbiamo viste di tutte, tra cui la celebrazione secessionista con tanto di bandiere nel Nord Italia.

   Poi, in pieni anni duemila, il terremoto giudiziario che di fatto distrusse il partito, riducendolo ai minimi termini. E infine iniziò l’era di Matteo Salvini.

   Un breve sunto di un soggetto che oggi fa pianta stabile in maniera preponderante del panorama politico italiano.

   Chi mi ha fatto guardare con occhi diversi Matteo Salvini è lo scrittore Mauro Corona, che occupa ogni martedì uno spazio televisivo nel salotto del programma “Carta Bianca” condotto da Bianca Berlinguer. Il buon Corona, noto per essere un uomo di montagna e un artista abbastanza poliedrico (non scrive solo libri, ha il suo pensiero da intellettuale tendente a sinistra, ma molto più indipendente. Ascoltare Mauro Corona è indicativo, anche perché è l’unico scrittore che dialoga con Salvini. E quando si accende il dialogo tra i due, ecco che la strategia del politico Salvini lascia spazio all’uomo.

   Sostanzialmente, in questa fase, è più utile ascoltare questo dialogo piuttosto che andare ad ascoltare o leggere uno come Saviano, che con Salvini vive una guerra mediatica che sa più di altro, ottenendo l’effetto che Salvini si è prefissato, ovvero maggior consenso.

   Ascolto Salvini, così come ascolto tanti altri figuri della politica contemporanea. Ascolto, osservo, imparo, e soprattutto non mi lascio condizionare dal pettegolezzo del web. Io ho amici che odiano Salvini. Lo scrivono su Facebook ogni santissimo giorno (neanche a Natale prendono una pausa). Al Sud Salvini è diventato un’ossessione.

   Ed è qui che Salvini gioca la sua partita.

   Se fosse un allenatore di calcio, Salvini entrerebbe di diritto nella storia dello sport.

   Il paragone sembra azzardato, ma l’esempio è chiaro.

   Ha preso un partito ridotto allo zero, spaccato, maltrattato. In pochissimi anni è diventato il primo partito del cosiddetto centrodestra. Anche Berlusconi ha dovuto mollare la presa (stiamo parlando di quel Silvio che in politica amava primeggiare a costo di far fuori i suoi migliori alleati).

   Se al posto della parola “partito” mettete l’espressione “squadra di calcio”, si capirebbe che sarebbe un allenatore di ottimo livello.

   Quindi, attenzione a definirlo “ignorante” o altro. È la tipica persona che sa incassare ogni genere d’insulto. Non si lascia impressionare. Anzi, addirittura risponde a tono. Nelle interviste, soprattutto quando l’avversario lo provoca, lui risponde a tono e nella maniera più democratica possibile. Anzi, a volte è pure fastidiosamente ironico. Però, centra il bersaglio. Lui forse non offre idee, ma gli altri nemmeno ne offrono di migliori. I suoi avversari più accesi usano lo scontro verbale con parole come “fascista”, “razzista”, “ladro” e altri epiteti, cadendo nella trappola. Sì, perché Salvini (con tutta la sua squadra) usa il web come non mai. Parla alla gente usando un linguaggio rassicurante. Usa spesso la parola “lavoro”. E soprattutto mantiene davanti al video sempre il controllo.

   Gli avversari lo denigrano, ma alla fine sono loro che devono rincorrere il primo in classifica.

   Ma nessuno risponde alla domanda? Come ha fatto la Lega a essere il primo partito del centrodestra in così poco tempo?

   La Lega nasce con un intento di realizzare un sistema federale all’interno dell’Italia, e nel passato non ha avuto paura di parlare di secessionismo federale. Ma questo poteva funzionare all’interno dell’Italia stessa.

   Quando l’Italia entra a far parte dell’Europa, lo scenario cambia totalmente.

   L’Europa è un insieme di Stati, ma non è una federazione. Questa caratterista è il vero limite dell’Europa. I primi a capirlo sono i leghisti, seguiti anche dai 5stelle (in Italia) quando erano all’opposizione del governo italiano. Tutto questo antieuropeismo nasce da come viene trattata la Grecia (altra situazione complicata), e da un blocco inglese che non le manda a dire (tanto che adesso c’è la Brexit).

   Quindi la Lega Nord diventa Lega perché per staccarsi da questa Europa e riportare l’indipendenza all’Italia, l’unica strada è proporre proprio il federalismo europeo (proposta interessante, a dire il vero) e per farlo bisogna prendere i voti dal nord al sud, e andare di persona a prendersi questi tanti voti.

   E cosa fa Matteo, eletto segretario generale della Lega?

   Inizia a viaggiare, e prende nota. Trasmette tutto sulla sua pagina Facebook e sugli altri canali social.

   All’inizio lo sottovalutavano, ma lui predica e ostenta pazienza (quella che non hanno i suoi avversari, e forse nemmeno i suoi alleati). Lui insegue la strada del consenso, e usa internet per farlo, tenendo conto che anche la televisione gioca un ruolo importante. Va in tutti i programmi televisivi e immaginabili, anche quelli dove Berlusconi (che un tempo era il primo riferimento del centrodestra) non andrebbe.

   Incassa, incassa, incassa. Ma non si abbatte. Anzi, addirittura la sfida è stimolante. E soprattutto dialoga. Eccome se dialoga. Non perde mai il controllo, anche quando lo scontro si accende.

   È come colpire un campione di boxe. Per essere campioni di boxe, non bisogna saper soltanto colpire, ma bisogna anche saper incassare. E il buon Matteo sa incassare. Anzi, lui si fa vedere mentre incassa gli insulti, e così facendo inizia la sua scalata verso il consenso, giocando proprio sul bisogno di semplicità che oggi l’italiano medio ha tanto bisogno.

   Gli altri si agitano. Lui non si scompone.

   Voi lo condannate? A lui non gliene frega niente, perché il dissenso fa parte del gioco.

   Lo chiamate fascista? Eppure lui usa i mezzi e non rifiuta le interviste scomode (oddio, rifiuta quelle che sono fattivamente inutili e ripetitive, e qui posso umanamente comprenderlo). Anzi, addirittura vuole che si parli di lui, perché aumenta il consenso.

   Lo chiamate pazzo? In politica come in guerra non esistono regole di fair play. O sai incassare e colpire, oppure è meglio stare zitti. Oggi la politica si semplifica così, e la vera politica non trova più spazi televisivi perché l’editoria varia non la concede.

   Quella la trovate in libreria, alla radio, forse in qualche programma notturno, e in qualche filmato via internet. Per il resto tutta la politica parla ormai un  linguaggio internet, e qui Matteo eccelle in materia. Lui, come la sua squadra, perché il Capitano è sorretto da una squadra che voi non vedete, ma c’è. Una squadra di comunicazione fatta apposta per lavorare per lui e con lui. Quindi non credete che sia solo. Lui è il segretario, ma non è solo.

   Dietro di lui, i sostenitori, i membri, gli attivisti… Tutta gente che sa come organizzarsi, e che può vantarsi di aver amministrato bene in alcune realtà (sempre a discapito del Sud, si sa). Quindi sa come andare a conquistarsi un Comune o una Regione. Ma il Capitano ha preso di balzo la volontà di conquistare la nazione, e per farlo ha capito (o gli hanno fatto capire) come immettersi nei posti non più frequentati dalla Sinistra perché preferisce sentirsi eletta oppure al sicuro di un caldo salottino da VIP.

   Guardate dov’è andato in Calabria.

   A Crotone venne quasi da solo. Non si mostrò in pubblico come altri leader, ma si fece intervistare. Con lui c’era la squadra che non vedevate. Andarono alla stazione dei treni di Crotone, e denunciarono il degrado della bidon ville che si era creata in quella zona perché le persone “extracomunitarie” erano in attesa di un documento, e non potevano muoversi. E aspettavano giorni e giorni alla stazione, abbandonati da un sistema che si definiva “accogliente”, ma che nelle vicinanze di un ufficio dei documenti non aveva previsto la costruzione di un dormitorio.

   Ecco, Matteo sarà pazzo e folle. Qualcuno lo vede come il diavolo, ma è innegabile il suo talento per guardare in faccia i problemi e portarli sul piatto del dibattito. Lui non avrà la soluzione (tranne quella drastica e forte), ma neanche gli altri hanno la soluzione pronta a dire il vero.

   Matteo è il Capitano della sua squadra. Ha fatto quello che qualsiasi segretario deve fare. Metterci la faccia e andare nei posti, e saggiare la realtà.

   Ma oggi Matteo è senza dubbio diverso. Ha fatto il ministro dell’interno in un governo ibrido con i 5stelle. È andato volutamente all’opposizione, scatenando una crisi politica pesante. Ha incassato il colpo, ma poi ha ripreso a fare quello che gli riesce meglio, ovvero parlare alle masse.

   In fondo lui è stato scelto dalla Lega per essere il segretario vincente.

   Punti deboli?

   Pochissimi, addirittura comici.

   Ma uno forte c’è. Un punto debole pesante.

   Un punto debole artistico, a dire il vero.

   Una scultura provocatrice, qualche tempo fa, che lo ritraeva come un assassino che sparava con i migranti lo ha fatto vacillare. C’è il video su YouTube. Quindi lui ha una sensibilità evidente per il dissenso che l’arte provoca. Una cosa che lui stesso non si aspettava. Provate a guardare e ascoltare i suoi dialoghi con Mauro Corona, uno scrittore con idee lontane dalle sue. Aprite le orecchie, e lì vedrete i limiti reali del Capitano. Ma solo se siete bravi e pazienti ad ascoltarlo.

   Ma ora il Capitano sta giocando la sua partita più grossa. Sta provando a prendersi l’Emilia Romagna per scardinare quel centrosinistra che, paradossalmente per tradizione, offriva una società funzionante. L’unica sacca di centrosinistra che funziona, ma che ha perso il consenso. Perché la sinistra si è mutata nel tempo, e lui, Matteo, lo sa bene.

   Dieci anni fa, nessuno avrebbe mai pensato che la Lega potesse candidarsi in Calabria. Oggi succede, e sta accadendo. La Lega ha preso voti importanti alle scorse europee, nella regione che si sente “più orgogliosamente terrona”.

   Conquistare la Calabria è importante per la Lega. Perché da qui parte la conquista per l’Italia. Conquistare l’Emilia sarebbe storico, ma conquistare la Calabria è strategicamente importante. Per una questione d’immagine, ma soprattutto per una questione di potere.

   Il popolo calabrese è chiamato a votare adesso.

   Su Facebook mi rendo conto delle spaccature anche tra persone che si conoscono. Addirittura un professore ha scritto una lettera personale perché le persone vadano a votare PD perché la Lega ha sempre insultato il Sud. Ma è anche vero che il Sud è stato maltrattato da politiche insane, approssimative, superficiali e clientelari. La gente, quella che va a votare, ha voglia di assaggiare il veleno che non ha assaggiato. È un fenomeno democratico del voto, e quando si tratta di mettere una ics la gente non esita a farlo.

   Però quanta gente andrà a votare? Cinque anni fa il 45% degli aventi diritto ha votato. Una minoranza ha votato. E sappiamo com’è andata a finire…

   Il Capitano ha letto questo dato, e da qui è partita la costruzione del partito in Calabria. Tutti a sfotterlo, ma intanto ha costruito e adesso si presenta all’esame del voto. Il primo vero voto importante a livello nazionale. Ha preso qualche Comune nel frattempo, ma sulle regionali sono caduti i migliori segretari di partito. E il Capitano non vuole cadere. Potrà anche perdere, ma a lui interessa impensierire, giocarsela, perché tanto il trofeo è vicino. E sa che a deciderlo saranno ovviamente gli elettori che andranno a votare.

   Perciò, caro professore, forse sarebbe meglio invitare le persone a esercitare la libertà del voto, senza indicare il PD. Lasciare che si esprima, perché il primo nemico della Calabria non si chiama Matteo Salvini, che è una conseguenza delle pessime politiche del passato. Perché queste politiche pessime hanno snervato l’elettore, portandolo a restarsene a casa e ad accettare passivamente.

   Il Capitano lo sa questo, e guarda caso si è fatto vedere in posti, compresa Crotone, fino a poco tempo fa impensabili.

   La partita è iniziata.

   Il Capitano ha portato la sua squadra dove voleva, ovvero a giocare una finale.

   Allora la domanda è: l’elettorato saprà parare il rigore del novantesimo minuto?

Aurélien Facente, gennaio 2019

Qui Crotone: la propaganda elettorale passa da Rino Gaetano a Fabri Fibra

Crotone. Piazza Pitagora. Ore 12.30. 13 gennaio 2020. L’aria del lunedì a Crotone non è mai allegra. Si riprende la solita routine, e sembra che tanti vogliano evitare di passare davanti agli uffici elettorali dei candidati alla Regione Calabria. Tra poco si voterà, e il malumore lo trovi su Facebook principalmente. I crotonesi sono messi in mezzo tra l’incudine e il martello.

   C’è chi accusa di votare l’entourage di Enzo, quel grosso animale politico (nel senso buono del termine) e che ciò porterà la rovina di Crotone. Poi c’è chi si lamenta della Lega, e vive lo psicodramma della visita di Matteo Salvini a Crotone. E se aprite i profili di molti vostri amici, si consuma il dramma sociale. E mancano almeno quasi due settimane. Si dice che il buongiorno si vede dal mattino, ma su Facebook è una tifoseria continua e ossessiva.

   Allora per evitare di stare troppo su Facebook (in realtà, io vado sulle pagine dei quotidiani per informarmi, ma questa è un’altra storia), e sapendo che non ho un gran da fare, ecco che decido di uscire e di farmi un giro in centro con una persona amica.

   Gli uffici elettorali si sono aperti la scorsa settimana. Inaugurazioni in pompa magna con solite facce che vedo da almeno 30 anni. Scene ripetitive che ti fanno capire quanto la tua amata Crotone è molto piccola a dire il vero.

   In tutti questi giorni, però, mi ero dimenticato di un particolare.

   Un grosso particolare.

   Era usanza dei tanti candidati, fino al più recente passato, di usare spesso e malvolentieri (per noi cittadini normali) le canzoni dell’indimenticato Rino Gaetano, perché secondo loro (i candidati appunto) trasmettere a palla la musica di Rino servivaa trasmettere simpatia e appartenenza. Tanto sono uno di voi, dice il candidato, facendoci credere che il buon Rino sia la chiave per votarlo. Un paradosso se poi leggiamo i versi delle canzoni che noi italiani e calabresi amiamo.

   Per tanti, troppi, anni ho ascoltato queste “storture” elettorali, e mi dicevo che non era giusto. Prima lo usava la Sinistra, poi ne fece anche uso la Destra, e poi il Centro, e poi gli improbabili. Tutti, più o meno, hanno usato Rino.

   Ma la gente, quella che ama la musica, fa le dovute distinzioni. Distingue la sincerità dell’Artista Rino dalla bugia del politicante (politico è una parola troppo grossa per certi candidati).

   Ma in questi giorni, almeno non ancora, non ho ancora trovato il camion o il furgone o la macchina con gli stereo ad alto volume a spararti le canzoni di Rino.

   Il che rendeva l’aria piacevole.

  Poi in lontananza ascolti un brano di Fabri Fibra ad alto volume.

   Pensi ad un’auto di giovanotti. Nulla di male. Fabri Fibra è un artista che si è fatto rispettare in questi anni, e ha portato delle innovazioni nel suo genere. Ha venduto tanti dischi, e se devo essere sincero mi sta pure simpatico.

   Però poi affronto la dura realtà.

   Piazza Pitagora è conosciuta per i portici e per la grande rotonda semidevastata. Il centro nevralgico di Crotone.

   Sono al centro di questa rotonda e vedo un camion elettorale con tanto di manifesto elettorale del sindaco contadino, candidato alla Regione Calabria, che gira intorno a me, mentre ad alto volume si ascolta “Stai pensando a me”, uno dei recenti successi del rapper italiano.

   Non vi dico l’impressione che ho avuto. Sembrava di trovarsi all’interno della scena di un film tragicomico.

   Il camion si allontana, e io resto stralunato. Il camion elettorale del sindaco contadino con la musica di Fabri Fibra ad altro volume. Questa è una pagina di storia da scrivere. Finalmente uno che non usa Rino Gaetano per la sua campagna elettorale.

   Mi dispiace per te, Fabri, che qualcuno usa le tue canzoni per la sua promozione. Ma sai. È toccato anche al grande Rino farsi usare a sproposito. È il destino dei grandi artisti.

   Dai. Almeno qualcosina di diverso.

Aurélien Facente, gennaio 2019