Ritratto di Gigino ovvero l’impotenza al potere giustificata dalla menzogna

Giggino Di Maio. Un uomo comune che è riuscito a essere scaltro nella sua roccaforte politica. Questo va detto. Ma non è stato sincero. Forse all’inizio, ma dal primo incarico di ministro qualcosa è cambiato.

Giggino Di Maio è l’essenza del potere che corrompe il brav’uomo. Tutti quelli che si autodefiniscono rivoluzionari prima o poi cadono nella corruzione del potere. Perché per cambiare le cose ci vuole volontà, intelligenza, anche un certo credo religioso. E soprattutto devi avere contenuti. Perché se non hai quelli, sei demagogo. E i demagoghi al potere non si prendono nessuna responsabilità, se non la volontà ferrea di non cambiare il beneficio del proprio portafogli.

Giggino si è rivelato, cadendo nella trappola costruita dallo stesso Movimento che lo ha reso politico prima e politicante dopo. Non offenderti, Giggino. Per me non sei un buon ministro degli esteri. Non hai la cultura e soprattutto non hai la testa adatta per farlo.

Giggino abbandona il Movimento. Già, perché ormai il Movimento affonda come il Titanic e ovviamente prende la migliore scialuppa per salvaguarsi le chiappe, ma non l’onore. Quella è un’altra cosa. Giggino ha l’onore corrotto dal potere, e ha preferito salvaguardarsi le chiappe.

Un anno di tempo, caro Giggino. Poi anche tu dovrai andare a raccattare voti per ritornare al dolce scranno del Parlamento. Sempre che la tua generazione politica non decida di mandare a puttane la Costituzione Italiana, e a quel punto si completa la verità della corruzione in nome della bugia del potere.

Già, caro Giggino. Lo so di essere duro con queste parole. Ma è una lettera aperta di chi ha osservato la crescita del Movimento. Pensa, l’ho pure votato perché credevo che ci fosse un reale bisogno di scuotere un bel po’ di politica italiana. Era necessario scuoterla perché il periodo lo richiedeva.

E alla fine?

A pochi mesi del compiere il fatto rivoluzionario, ovvero mettersi da parte dopo il secondo mandato, il potere che corrompe ti ha posseduto e con un discorso imbarazzante hai rivelato la tua reale natura.

I governi (sei al terzo) di cui hai fatto parte hanno gravi responsabilità storiche, e non mi va di elencarle tutte. Tanto sarà il popolo a giudicarti quando ci saranno le elezioni, ma di sicuro compi la più stupida delle mosse nel momento in cui la stessa politica dovrebbe preoccuparsi di ricucire il rapporto con la gente, perché se governi un Paese dove la metà della gente non ti considera nemmeno allora l’autorevolezza della politica perde. E si continua a raccontare la menzogna. Cosa che ovviamente hai ben fatto in tutti questi anni.

Certo, c’erano le regole della politica. Ma di quale politica, Giggino? La tua? Quella che offre la rivoluzione e poi la fa diventare l’ennesima illusione. Hai scelto tu, caro Giggino, di farti sedurre dal potere. Non è stata la gente a chiedertelo.

Peppino Conte se ne farà una ragione. Ma lui almeno in questi mesi un giro per l’Italia se lo sta facendo, cercando di promuovere una rivoluzione che è diventata un’illusione.

Ma era inevitabile che finisse così. Perché è il destino dei demagoghi al potere. Sguazzano come sanguisughe sulle spalle dei cittadini e amano restarci. Ma quando si tratta di cambiare, mostrano tutta la debolezza della loro corruzione.

Non parlo di corruzione in danaro, caro Giggino. Ma della corruzione che è dentro la tua anima adesso. Hai fatto una scelta rischiosa e azzardata. Ti sei dato troppa importanza. E quell’uno che valeva uno è diventato io esisto sopra di voi.

Che illusione! Eppure quasi ci credevo in un meridionale che potesse cambiare qualcosina. Sottolineo il quasi. Perché i “rivoluzionari” li conosco in Italia. Pronti a raccontare di tutto e di più, salvo poi gettare la maschera quando il gioco gli torna contro. Avrai anche ridotto i parlamentari, ma sei diventato il più obsoleto dei parlamentari. Alla fine ti sei rivelato per quello che sei. Libero di farlo, ma a discapito della tua credibilità elettorale.

Capisco l’ambizione e forse anche la passione per la politica. Ma la tua non è più politica. Si chiama opportunismo. E si tratta della peggiore malattia degli ultimi anni in politica. Quello stesso opportunismo che tu denunciasti e condannasti. Alla fine, hai parlato talmente male di loro che sei come loro.

Avevi un’altra chance, caro Giggino. Una chance azzardata, ma che ti avrebbe reso protagonista di una storia ancora migliore. Le tue dimissioni da ministro e da parlamentare. Un atto forte che avrebbe spaccato il Movimento comunque, ma che ti avrebbe dato quella credibilità che cercano i cittadini. Una scommessa azzardata dunque. Ma coraggiosa e non vile.

Ti ho seguito, Giggino, in tutto questo tempo pensando che un meridionale mi avrebbe reso orgoglioso di essere tale. Invece hai gettato la maschera mostrando quella che è una triste verità: quella di essere un bluff.

Buon proseguimento, Giggino. Prima o dopo anche tu farai i conti con la realtà, quella vera però. Quella di cui anche tu un tempo facevi parte. E non credo che sarà tenera con te. Il destino dei falsi rivoluzionari non è mai tenero. Staremo a vedere, ma di sicuro il tuo gesto contribuirà ancora di più al grande astensionismo che macchierà di disonore la storia della Repubblica Italiana.

Aurélien Facente, 22 giugno 2022

Coronavirus KR: La massa si muove

Nell’emergenza Coronavirus ho criticato apertamente due provvedimenti in particolare. Uno era la prossimità di duecento metri da casa, liberamente interpretata da qualche signore in divisa. La seconda era il divieto di passeggiare in solitaria, seppur munito di mascherina. Aggiungiamoci pure la chiusura di alcuni luoghi ideali per passeggiare, e ci siamo tutti dovuti atteggiare.

   Un altro aspetto da criticare è il terrorismo mediatico portato avanti da tanti organi di stampa e di televisione. Un terrorismo amplificato anche da buontemponi che sui balconi filmavano persone che, magari, erano uscite per necessità.

   Questo, nell’insieme, ha portato la gente ad odiarsi.

   Pur capendo la necessità del momento, la gente, nel 95% (dato sorprendente tra l’altro), si è comportata nel migliore dei modi.

   Ma la quarantena, o meglio la prigionia forzata, alimenta anche il malessere.

   Non tutti hanno la possibilità di godersi un bel panorama. Tanti non godono nemmeno di una buona compagnia dentro casa. Tanti eroi di tastiera pronti a giudicare e condannare il prossimo perché magari si è preso cinque minuti di respiro.

   Tengo a precisare una cosa: il virus esiste ed era necessario lasciare spazio ai nostri sanitari, se non altro per permettere loro di lavorare al meglio.

   Il governo, nel suo insieme, avrebbe dovuto porre un freno serio al terrorismo mediatico.

    Non l’ha fatto. Ha lasciato la palla al Presidente del Consiglio, che si è trovato gioco forza in una situazione inedita nel dover prendere provvedimenti molto discutibili tra l’altro. Ma questa è un’altra storia.

   Nel frattempo, una pattuglia di sindaci sceriffi che ti parla in video e ti colpevolizza anche per una carezza. E non una parola d’incoraggiamento. Molti a puntare il dito contro. Un terrorismo mediatico tale da alimentare l’odio piuttosto che la solidarietà.

   E così si accende la miccia di una dinamite pronta a scoppiare in qualsiasi momento.

   Aggiungete gli epiteti “fascisti” e “comunisti” che ormai ci perseguitano dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il regno dell’incertezza non ha voluto dare spazio alla speranza, il vero sentimento che unisce.

   Già, perché se si uccide la speranza uccidi le persone, o meglio le armi di qualcosa che non lascia spazio alla ragione.

   In questi mesi, il terrorismo mediatico (e se n’è reso conto pure il Governo guarda caso) ha solo alimentato un cancro: quello della disperazione.

   E c’è chi riesce a cavalcare quell’onda. Perché tutti noi ci nutriamo della speranza. Perché molti di noi hanno bisogno di ottimismo, di sentire che c’è un domani, che possiamo costruircelo.

   Nella paura del Coronavirus si è innescata la dinamite della reazione.

   Ormai le piazze iniziano a riempirsi, alla faccia delle regole imposte e delle ideologie politiche.

   A Piazza Duomo a Milano, nel giorno 30 maggio 2020, una manifestazione con tante persone vestite di gilet arancioni, guidate da un vecchio generale. Lasciamo perdere il contenuto per un attimo. Ho letto le opinioni e ascoltato i pareri, e letto anche gli articoli della stampa. Un effetto meteorite di opinioni, senza volersi rendere conto di un fatto essenziale: la massa, quando si muove, non si ferma.

   Sulla posizione politica se ne può discutere tranquillamente. Ma in mezzo a quelle migliaia di persone, erano tutte da condannare? Erano realmente tutti fascisti? O c’erano anche persone che avevano voglia soltanto di tornare a vivere con un po’ di dignità?

   Facile condannare. Troppo facile. Tra l’altro, con una domanda non posta: ma si poteva fermare, si poteva evitare? Certo, ma solo se non sottovaluti.

   Se chiedi un sacrificio, devi dare in cambio una speranza. Se prometti aiuti economici, caro Stato, sai che devono arrivare tempestivamente. Puoi sempre controllare dopo. Invece, più di qualcuno, nella macchina governativa ha fatto il bullo burocratico.

   E così, giorno dopo giorno, tra tanta paura e tante annunciazioni di morti ecco che la miccia si accende fino a far esplodere un’altra bomba.

   Alla fine esce sempre un generale o un nuovo capo politico o qualche antieroe improbabile. La storia ne è piena di esempi. E soprattutto c’è un dato naturale incontrovertibile. Fa parte del DNA umano. Nelle epidemie e nelle pandemie di vecchia data è sempre accaduto che l’umanità, nel suo insieme, prima o poi si muove per adattarsi al male. Andrà avanti rompendo le regole perché sentirà il bisogno di rimettere in ordine il proprio ruolo. E quando lo fa, la domanda è sempre la stessa: come lo farà?

   E questa domanda non ha mai una risposta, ma solitamente spaventa i governanti, dove si troveranno anche loro davanti a una domanda inevitabile: e adesso?

   Già. E adesso?

Aurélien Facente, maggio 2020

La triste storia di un piccolo palco in piazza

C’è una storia che è passata del tutto inosservata. Vale la pena raccontarla. È la storia di un palco messo in Piazza della Resistenza, Crotone. È la storia di un piccolo palco che è stato tante volte presente in quella piazza dove si trova il palazzo comunale.

   Il palco è stato usato per tante iniziative. Concerti, eventi benefici, e comizi politici. Quel palco messo lì in piazza è stato il simbolo di tanti incontri con i cittadini.

   Come in ogni avvicinarsi delle elezioni, il Comune mette a disposizione il palco per far incontrare i candidati con la cittadinanza. Il palco è uno strumento, tutto sommato, molto democratico, perché da lassù il candidato racconta il suo progetto, e regala la possibilità anche un piccolo gruppo di persone di ascoltare.

   L’essenza della democrazia al centro della piazza, la cosiddetta agorà.

   La piazza è l’incontro delle persone. La piazza è anche il simbolo del dissenso. La piazza è il luogo dove la democrazia s’individua meglio.

   Eppure, alle ultime tornate elettorali regionali, il palco è rimasto vuoto. Sì, è stato usato per un’iniziativa. Ma non era politica.

   Per giorni e sere, ho aspettato che qualcuno, nonostante il freddo, salisse sul palco per provare a raccontarsi alla città. Ho aspettato che qualcuno arrivasse con un impianto per preparare al meglio il candidato. Avevo voglia di vedere qualche faccia nuova, ma anche qualche faccia più conosciuta.

   La semplice curiosità dell’elettore fu disattesa.

   Quel palco, oggi riportato dentro i magazzini comunali, è rimasto deserto, vuoto, senza che nessun candidato lo calpestasse.

   È vero che la politica ha cambiato il suo modo di comunicare. Adesso si comunica molto con il web. Ma si tratta solo di uno strumento. La piazza deve aver il diritto di ascoltare e di dissentire.

   Nessuno dei candidati ha usato il palco.

   Vergogna? Cattiva coscienza? Paura di parlare alla gente? Paura di affrontare il popolo arrabbiato perché più povero?

   Che strani i politici/politicanti della mia Crotone. Codardi? Ipocriti? Cazzari?

   Tranne qualcuno, la maggior parte dei candidati ha preferito le sale d’albergo, le sale al chiuso, le sale dove loro potevano ergersi senza rischi di prendersi qualche fischio. Hanno preferito distanziarsi, e così la stessa gente, quella che poi ha preferito astenersi, percepisce il messaggio sbagliato: che la politica non è un qualcosa che si dovrebbe occupare di tutti, ma solo di incontrare altri elettori, quelli che hanno più soldini e che non possono camminare in piazza liberamente.

   La gente s’allontana dalla politica, perché la politica s’è allontanata prima, e paradossalmente dopo aver preso i voti della piazza.

   Si dice che ogni popolo ha il governo che si merita.

   Ma in Calabria c’è una maggioranza di persone che non ha voluto votare, soprattutto in queste ultime regionali.

   La Regione Calabria, o meglio la politica che l’ha amministrata sinora (c’è un nuovo consiglio e ci sarà una giunta, ma al momento non va processata e condannata, almeno per ora, per il passato) si è voluta allontanare, dando il messaggio che la Regione è una grande torta da ripartire in pochi.

   Normale che le persone si allontanino. La Regione non è cosa per i calabresi.

   La campagna elettorale è terminata da molti giorni. Un presidente è stato scelto, così come sono stati votati i consiglieri. C’è una maggioranza che governerà, ma è stata votata da una minoranza, non dalla maggioranza della popolazione.

   E così il palco rimase vuoto e silente.

   È vero anche che qualcun altro ha incontrato i cittadini in un’altra piazza, ma questa è un’altra storia.

   Perché adesso il piccolo palco è rientrato nella sua casa, tutto solo e triste.

   Triste perché una certa politica ha volutamente dimenticato il reale valore di una piazza.

Aurélien Facente, febbraio 2020

La Brexit è pur sempre il diritto di un popolo, anche se non piace

L’Inghilterra esce dall’Europa, e torna a essere Inghilterra. Per l’Europa, quella di Bruxelles, è una sconfitta che brucia. Lo scenario che si presenta è inedito, ma adesso c’è il precedente. E l’Europa, quella che sta a Bruxelles, sembra che non ami parlarne, il che fa capire che forse è meglio aspettare e osservare prima di fare le dovute conclusioni.

   L’uscita dell’Inghilterra è una sconfitta o una vittoria?

   La risposta non è certa.

   Di sicuro è la vittoria di un popolo che ha votato per un referendum per uscire dall’Europa.

   È la vittoria degli euroscettici, dei critici verso l’Europa, di un mondo intellettuale messo a tacere che non voleva questa Europa burocrate e basta. È la vittoria dello scrittore francese Michel Houellebecq che, nel 1996, Maastricht era un grosso sbaglio. È un po’ la vittoria di Craxi anche, che a suo modo si auspicava una riscrittura dei trattati europei.

   Fermiamoci qui per il momento.

   È anche una sconfitta ovviamente.

   La più cocente sconfitta dell’Europa economica.

   Era chiaro che gli Stati non potevano stare insieme solo esclusivamente tenuti da una catena economica, oltre che da un modo di fare ipocrita. Basti pensare a come viene affrontato il tema dell’immigrazione. Si trova il cucuzzaro di turno e deve vedersela lui e basta. L’Italia è il cucuzzaro dell’Europa, e allora i burocrati e i tecnocrati vogliono solo tenersi pulita la coscienza, e non affrontare il problema a viso aperto, tutti insieme, come dovrebbero fare le vere civiltà.

   L’Europa, però, non è una civiltà. È un insieme di popoli che, però, non hanno chiesto di stare per forza insieme. I trattati li hanno firmati i politici, ma non sono i popoli ad aver deciso.

   La Storia è chiara in questo almeno.

   Si è voluto realizzare un’Europa per realizzare un sogno, per scrivere un racconto fantastico da raccontare ai nipoti. Ma oggi i nipoti non hanno le opportunità dei nonni. Ecco il problema.

   L’Europa si tiene legata attraverso l’economia. Ci si dimentica, però, che l’economia è fatta anche dalle persone di tutti i giorni. Se uccidi le persone, le economie cessano di esistere.

   L’Europa, così concepita, ha ucciso le persone di tutti i giorni.

   Disordini sociali, differenze tra ricchi e poveri accresciute, possibilità ridotte di arrivare alla fine del mese con un buon respiro, svalutazioni dei propri patrimoni, debiti che crescono senza controllo. E un caimano che detta le regole, senza dare modo di respirare. Stare sempre sotto il 3% in nome di che cosa poi? Di quale prospettiva? Di quale possibilità di un lavoro che mi possa permettere perlomeno di pagarmi una stanza.

   Il gioco non funziona.

   Risultato? Il popolo inglese vota il referendum e decide di uscire.

   Certo, può permetterselo.

   E fa bene. Perché il popolo ha democraticamente deciso.

   E oggi festeggia.

   Gli inglesi non sono un popolo nobile al 100%. La loro storia è macchiata di episodi controversi pagati anche con il sangue. Non hanno mai preteso di essere perfetti. Ma democraticamente hanno deciso di esistere.

   Personalmente ho fatto il tifo per la Brexit.

   Perché si doveva creare e realizzare quel precedente che basterebbe a ridiscutere lo stesso concetto di Europa.

   Perché l’Europa deve essere un continente dei popoli, e non delle economie. Deve essere un’Europa delle prospettive e delle possibilità, e non solo delle costrizioni.

   Un’Europa molto più umana e coraggiosa.

   Fosse stato così, l’Inghilterra non ne sarebbe uscita.

   Ora si è realizzato il precedente che tutti aspettavamo.

   I politici e i burocrati possono sempre teorizzare le apocalissi. Ma alla fine sono sempre i popoli a decidere del loro destino.

Aurélien Facente, febbraio 2020