Il vero amore ai tempi del Coronavirus

Foto di Aurélien Facente

Crotone. Mattina. Primo giorno della chiusura delle scuola per l’emergenza coronavirus. Vedere le scuole vuote in una calda mattinata invernale è desolante, poco rassicurante. Ascoltare il vocio dei bambini è sempre un buon segnale di vita. Stamattina questo vocio non c’è. Cammino per la città di Crotone, non raggiunta dal virus, cercando di non farmi condizionare dalle voci sull’apocalisse.

   In Italia il giornalismo ufficiale cerca il sensazionalismo. Si cerca di arrivare per primi, senza preoccuparsi dei danni. È sempre meglio buttare veleno su veleno.

   Io non nego l’esistenza del virus. Assolutamente no. Lo so che la natura ogni tanto fa nascere qualcosa di più fastidioso, di più difficile da affrontare.

   Mi dà fastidio l’informazione disfattista, come se fosse normale arrendersi e piegarsi ad un nemico invisibile che ti mangerà in ogni caso.

   Curatevi, signori della comunicazione.

   Io non sono sconfitto. Non mi piegherò alla paura. Il male c’è? Okay. Bisogna conviverci? Okay. Ma c’è modo e modo di affrontarlo.

   Prima di tornare a casa si va al supermercato. La spesa quotidiana. Poca gente all’una meno un quarto. Normale. Le scuole sono chiuse. I genitori non si precipitano per fare la spesa. In realtà non si vede il classico supermercato dell’ora di punta.

   Poca gente. Silenzio. Guardi i prodotti in silenzio. Guardi la lista della spesa. Olio, pane, uova, sapone, zucchero, sale, e altro. Poi nel silenzio ascolti una voce.

   La voce di una bambina. Si lamenta con la mamma. Non è andata a scuola.

   “Perché il governo ha deciso così. Non posso farci nulla, cara.”

   “Ma mamma… Non è giusto… Non posso vedere i miei amici…”

   È inevitabile essere indiscreti, pur apparendo indifferenti.

   Però la vita è fatta di momenti che vanno osservati, o forse è meglio dire che vanno ascoltati. Mentre mi avventuravo per il supermercato, ascoltavo le paure della bambina che si poneva delle domande. La mamma non sapeva che cosa rispondere. Siamo, effettivamente, in una situazione del tutto inedita, e perciò tutti, anche il meno istruito, ci facciamo delle domande.

   Gli adulti si pongono ben più problemi dei bambini. È assodato. Poi in un’Italia come la nostra, tendiamo a dimenticare che forse è meglio pensare di stare bene, di trovare una sorta di armonia. Dovremmo ricordarci di essere stati bambini. Una lezione, questa, scritta da Saint-Exupéry nel celebre libro “Il Piccolo Principe”.

   La bambina è piena di energia, di vitalità, di ricerca della gioia. È il suo parlare è contagioso. Una bambina di sei anni forse, o qualcosa di più. O forse è più piccola, e dimostra di essere più adulta.

   “Mamma, ma è vero che il governo ha detto che non ci possiamo abbracciare?”

   Già. Evitare il contatto. Una misura precauzionale per provare a evitare il contagio.

   La mamma oserà rispondere qualcosa? Alimenterà la paura della figlia, facendole credere che il contagio passa attraverso il contatto umano? Come può un governo, con i media invadenti, pretendere una cosa del genere?

   La mamma non risponde. Si limita soltanto ad abbracciare la figlia calorosamente. Un abbraccio che non ha bisogno di altre parole.

   Viviamo tutti un incubo delirante, ma possiamo combatterlo.

   I bambini ce lo ricordano.

   Una mamma non negherà mai il proprio abbraccio al figlio che ha paura.

   Il figlio correrà sempre verso di lei.

   E quest’amore potrebbe essere la chiave per combattere il coronavirus.

   Il vero amore combatte la paura.

   Mi allontano. Mi ricordo, un po’ di tempo fa, che ero nelle vicinanze della spiaggia di Crotone. Una giornata grigia. Vicino la passerella esattamente. In lontananza una mamma e suo figlio. Il bambino corre sulla spiaggia, e poi torna dalla mamma, cercando proprio l’abbraccio.

   Sono proprio questi momenti che combattono, e sconfiggono, l’oscurità dell’incertezza.

Aurélien Facente, marzo 2020

Quell’Acido che ci riempiva le giornate all’università (Un ricordo dei Prozac +)

Oggi la testa si riempie di bei ricordi. Cosenza, correva l’anno 1998. Avevo 20 anni, e frequentavo l’università. L’appartamento dove alloggiavo si trovava nelle vicinanze del tribunale, a due passi dalla sopraelevata che ti portava sulla strada statale 107.

   Allora internet era agli albori. I social erano qualcosa di sconosciuto. Però noi giovanotti avevamo i nostri mezzi per socializzare.

  Allora dividevo l’appartamento con altri 4 ragazzi, e ognuno aveva la sua stanza, e ognuno aveva la propria radio, o il proprio walkman. I cd erano un piccolo bene di lusso, e facevamo incetta di musicassette. Certe volte, le nostre stanze si riempivano di musica ad alto volume, per sovrastare quella sala giochi frequentata da ragazzi che parlavano di pallone dalla mattina alla sera, mentre noi cercavamo di studiare e vivere la vita.

   A 20 anni, vivere l’università era la prima vera esperienza libera. Nessun controllo famigliare intorno. Ti crei un feeling con i nostri coinquilini. E se non è il calcio ad unirti, di sicuro è la musica.

   Già. A quell’epoca, per me che ero appassionato di fumetti (la Marvel era considerata qualcosa per adolescenti con problemi infantili) non era facile socializzare. Non ero (e non sono) un grande appassionato di pallone. Nel 1998 il Crotone Calcio giocava in C1, e vivevo la serie B del Cosenza. Ma non era tanto la mia passione.

   Però la musica, in qualche modo, fu il linguaggio che tutti parlavamo, e ci unì, noi ragazzi del sud in quell’appartamento non lontano dal tribunale.

   Io ascoltavo molto il rock, il mio coinquilino ascoltava la scena indipendente italiana, un altro il pop italiano e così via. Ci amavamo e ci detestavamo. Però quello era un modo di confrontarsi culturalmente. Perché c’erano i nostri “razzismi” meridionali, ma la musica spezzò le nostre barriere.

   Quando si pranzava in cucina, accendevamo la tv. Avevamo un vecchia tv in bianco e nero. E vedevamo spesso TMC2, una specie di MTV italiana con musica non stop tradotta in videoclip, ed era la nostra radio. La prima radio che vedevi in tv. Uno speaker che ti parlava, e la musica la guardavi.

   Ad un certo punto arrivarono loro, i Prozac + con la loro hit “Acida”

   Fummo invasi istantaneamente dal ritmo del ritornello: Acido, Acida, Acido, Acida…

   Un punk tutto italiano cantato da una voce femminile, accompagnata da altri due elementi, tra cui una donna che suonava il basso.

   Per settimane, ogni volta che passava il pezzo ci scaricavamo l’adrenalina canticchiando quel pezzo, perché noi sapevamo che cosa voleva dire quel pezzo.

   Erano gli anni delle discoteche dove circolava l’acido, se dovessimo prenderla sul serio.

   Ma ci davamo anche dell’acido quando litigavamo: “Quanto sei acido!”

   Il punk è ribellione, e quel brano punk divenne il nostro accompagnamento dei vent’anni verso un’età più adulta.

   Il tempo passò, ma i Prozac + ogni tanto tornavano, e noi cantavamo.

   Anche nell’appartamento successivo dove alloggiai, con altri ragazzi, i Prozac + erano di casa.

   Quel modo d’intendere e di ascoltare era il linguaggio che si usava. Anche le ragazze adoravano adottare un look più punk, perché noi detestavamo la rigidità di un certo mondo adulto calabrese.

   Già, la Calabria adulta che noi criticavamo e contestavamo.

   Volevamo riuscire con le nostre forze a fare qualcosa, senza l’intromissione del sistema che prevedeva l’omologazione e la raccomandazione. E quando si usciva tutti insieme, si andava alla ricerca di qualche concerto per esprimere il nostro dissenso.

   Io non ho mai visto i Prozac + dal vivo. Solo visti in tv o ascoltati per radio. Migliaia di volte, sempre con l’energia a mille per darsi la carica e affrontare la giornata universitaria, perché nel caldo estivo cosentino ti chiudevi nell’appartamento, dentro la stanza, e studiavi con una certa attenzione, addirittura combattendo contro te stesso, perché certi libri volevi mollarli, e buttarli.

   Allora, ti fermavi e accendevi la tv. Ti preparavi qualcosa di fresco, e in estate, quando c’è poca gente a guardare la tv, riuscivi ad incappare con Acido, Acida, Acido, Acida… e cantavi a squarciagola, oppure ti liberavi in un ballo pieno d’energia per scaricare la tensione. Era un modo, almeno per me, per affrontare al meglio quella parte seccante che ti tiene bloccato in casa.

   E così passava il tempo con più piacere, mentre in qualche modo si cresceva…

   Sono passati ventidue anni.

   Oggi ho saputo della triste notizia di Elisabetta Imelio, la bassista dei Prozac + che si è dovuta arrendere al male che non lascia scampo. Mi ricordo bene di lei, perché molto raro vedere una donna che suona il basso in una band molto punk. Mi ricordo di quanto fosse carina, e di come mi sarebbe piaciuto invitarla a bere qualcosa se l’avessi conosciuta. Ma non come probabile partner, ma perché di sicuro le avrei chiesto: “Scusa, ma come fa una come te a suonare in una punk band tutta italiana?”

   Una semplice fantasia da ventenne.

   Elisabetta, che dire? Solo grazie.

   In qualche modo ti ascolterò ancora. E così tanti ragazzi, oggi uomini e donne, che grazie a te hanno in qualche modo trovato stimolo nel fare un qualcosa di molto libero. E altrettanto vivo.

Aurélien Facente, 1 marzo 2020

La storia di una Ford Orion 86’ (Storia di un prof calabrese e della sua auto)

Vorrei raccontarvi una storia. È la storia di un uomo, mio padre, che faceva il professore in una scuola media di Isola di Capo Rizzuto. Nel 1986 si innamorò di un’automobile, esattamente di una Ford Orion. Se la comprò, e con essa si mise a fare giornalmente il percorso della strada statale 106 per andare ad insegnare, a provare a educare una lunga serie di alunni per dargli un futuro.

   Papà prendeva la sua macchina tutti i giorni. Amava la sua Orion. Gli dava delle soddisfazioni che solo lui poteva provare.

   Io, invece, non l’ho mai tanto amata. Una macchina a quattro ruote ha le caratteristiche di chi la guida. Papà ci stava bene con quella Ford color marrone, e ogni mattina si alzava presto per andare a Isola di Capo Rizzuto. Una ventina di chilometri all’andata, e altrettanto al ritorno.

   Quella Ford Orion era il biglietto da visita di papà. In fondo era la sola ad aver quel colore in tutta la Calabria, forse anche in Italia.

   Durante le vacanze estive, papà non vedeva l’ora di andare in Francia (patria della mia mamma) anche solo per mostrare che un uomo del sud poteva portare la sua famiglia lontano.

   Ricordo che a Modane papà superò un’Audi targata Latina, e gli fece un saluto, dicendogli che lui era un uomo più a sud. Ci teneva a far vedere che era un uomo di Calabria.

   Non ha mai voluto cambiare la targa, e nemmeno l’auto. Quel CZ della sua auto era la sua carta d’identità.

   Papà usò la macchina anche per fare politica. Lui, segretario provinciale del PLI, andava avanti e indietro per la provincia di Crotone a trasportare manifesti e volantini dei candidati alle comunali e alle nazionali. Almeno fino a quando poi il partito non cessò di esistere.

   Papà girò gran parte dell’Italia con quel mezzo, non nascondendo mai la sua calabresità. E guai a chi toccava la sua auto. Era la sua compagna di viaggio. Una silenziosa compagna di viaggio, in verità un bel po’ rumorosa.

   Sì, perché io mi sedevo accanto a lui, quando mi accompagnava a Cosenza. Un avanti ed indietro per la Sila, a fermarci a bere l’acqua fresca oppure a fare una pausa pranzo a Camigliatello.

   Una volta glielo domandai: “Papà, perché non la cambi quell’auto?”

   Mi guardò storto, e mi rispose: “Tu non puoi capire l’amore che provo per quel volante appena lo tocco.”

   In realtà aveva mille scuse perché non voleva cambiare la sua amata Ford.

   Andò in pensione, e continuò a tornare ad Isola di Capo Rizzuto, anche solo per guardare il paese dove aveva visto crescere tanti suoi alunni, ormai uomini e donne, che magari lo riconoscevano e lo salutavano.

   In pensione, si permise ancora di farci dei viaggi per andare a trovare qualche amico, e ci ritornò anche in Francia, con il motore ormai ai limiti.

    Poi papà invecchiò.

   E la Ford Orion lo accompagnò pure durante il percorso.

   Smise di prendersene cura come prima, e l’auto cominciò a perdere qualche pezzo.

   Poi arrivò il giorno in cui papà si ammalò seriamente.

   Ebbe un cenno di ripresa, e guidò la sua Ford per andare a prendere il giornale dall’edicolante.

   Solo viaggi brevi, perché papà usava la stampella e non voleva farsi vedere in quel modo, acciaccato come la sua auto.

   Un giorno, papà ha smesso di scendere.

   E dopo un po’ smise di respirare.

   Il giorno del funerale, le forze dell’ordine, assieme al carroattrezzi, presero la sua auto, perché aveva ritardato il pagamento dell’assicurazione.

   Quel giorno del 7 agosto 2019, non dovetti solo salutare papà. Ma anche dare l’addio alla sua amata macchina.

   Dopo qualche mese, la macchina fu liberata dal verbale.

   Qualche giorno fa, sono andato in qualche modo a liberare la Ford Orion targata CZ.

   Oggi lo scrivo.

   Mi piace immaginare papà che ritrova la sua auto lassù da qualche parte, e che orgogliosamente si presenta alle porte dell’aldilà dove si lascia andare al seguente discorso: “La vedi questa macchina? Da Crotone sono arrivato fino al Nord della Francia, e lì ho beccato un napoletano, e gli ho fatto vedere un calabrese che ha saputo portare una macchina fin lassù…”

   Si chiude così la storia di un uomo che amava tanto la sua Ford Orion 1986.

Aurélien Facente, 2020