Coronavirus KR – Un mese è appena passato

Crotone. Emergenza Coronavirus giorno 31. Oggi si può dire che è passato un mese vero e proprio, di quelli lunghi. Un mese di quarantena, la cui grandissima parte del tempo tra le mura di casa. Esci solo se vai a fare la spesa, e se hai il cane giusto nel raggio dei 200 metri.

   Un mese è tanto.

   Che cosa ho imparato in un mese?

   Che il caro Coronavirus esiste e fa paura.

   Fa molta paura nel racconto televisivo e anche su internet, dove la gente si rifugia per trovare conforto umano, e si trova a condividere immagini e filmati (di cui molti realizzati ad arte per condividere il terrore).

   Ho imparato a indossare la mascherina, soprattutto quando entro in un supermercato o in una farmacia.

   Ho imparato a organizzare la spesa per velocizzarmi meglio, e dare subito il posto di chi ha bisogni diversi da me.

   Ho imparato a star di nuovo da solo, ma la cosa non mi è mai pesata a dire il vero. Sono abituato alla solitudine. Semmai sono gli altri a non avere un dialogo con loro stessi.

   Ho imparato a usare i guanti, ma solo quando tocco le superfici comuni esterne.

   Ho imparato a lavarmi le mani spesso, ma lo facevo già prima.

   Ho imparato che c’è tanta gente che ha paura, e che ha bisogno di sfogarla in qualche modo. Manca l’ascolto, e dove non c’è ascolto si acuisce l’odio per l’altro, solo perché magari sfrutta la sua possibilità di uscire.

   Ho imparato che tutte le forze dell’ordine sono formate da esseri umani, con pregi e difetti, e che è sempre meglio scambiarsi informazioni prima di tutto. Il buonsenso è la prima regola, ma ovviamente deve essere accompagnato dallo scambio. Perché il capirsi è la prima regola, anche quando non si è d’accordo.

   Ho imparato a conoscere un Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ci mette la faccia sempre e comunque quando si tratta di assumere decisioni che sembrano impopolari.

   Ho imparato che ci sono Presidenti della Regione che parlano alla gente, come De Luca ai suoi campani, e Presidenti della Regione, come la magica Jole, che hanno difficoltà di comunicazione.

   Ho imparato che il mondo dell’informazione è in seria crisi con se stessa, tanto che non riesce a mettersi in ordine.

   Ho imparato che abbiamo tanti scienziati che parlano, parlano, parlano….

   Ho imparato che c’è una guerra silenziosa. Quella dei medici e degli infermieri nelle corsie degli ospedali, tutti adibiti al Covid-19.

   Ho imparato a prendere decisioni difficili e dolorose, soprattutto per quanto riguarda la mia sopravvivenza mentale, che è la più importante in questo momento.

   Ho imparato che la conta degli amici si riduce tantissimo, per poi scoprire che si può essere amici con il proprio vicino.

   Ho imparato ad ascoltare il silenzio del giorno, quando prima ascoltavo il silenzio della notte.

   Ho imparato che le persone hanno paura di mettersi in regola con la propria fragilità, che era mascherata dal finto benessere diffuso, e sapere che si deve uscire mascherati ne fa il simbolo di uno dei paradossi di questa esistenza.

   Ho imparato a voler sorridere e a voler sembrare folle nel mio essere anticonformista, pur rispettando le regole emanate, per essere ancora di più me stesso, nel bene e nel male.

   Ho imparato a essere presente, anche se nel virtuale. Una presenza giornaliera, anche nelle azioni quotidiane più comuni, aiuta a sorridere.

   Ho imparato che ci sono persone che avrei dovuto conoscere prima, e altre persone che forse sarebbe stato meglio non conoscere.

   Ho imparato che la paura va combattuta, anche quando gli altri ti urlano su Facebook che devi stare a casa, come se si potesse contraddire la legge del destino, dove ognuno è padrone di se stesso, perché alla fine è sempre così.

   Ho imparato che c’è tanta negatività in giro perché non si vuole dare un pugno alla paura.

   Ho imparato a dare un sorriso anche in una telefonata.

   Ho imparato tante cose, caro Coronavirus. Ma proprio tante cose.

   Grazie a te, non posso vedere la città di Crotone con gli stessi occhi, e perciò mi godo quei piccoli particolari che posso cogliere nelle brevi uscite necessarie.

   Ma di sicuro c’è una cosa che ho imparato, caro Coronavirus. Non ti sottovaluto, anzi ti rispetto sotto certi aspetti.

   Perché nella tua aggressività, ho capito quanto molta politica sia paurosa, quanti scienziati e medici che vanno in tivù siano molto confusi, quanto pressapochismo ci sia in giro, e quanta fuffa burocratica sia uno dei mali di quest’emergenza, quando forse si dovrebbe parlar di meno e dare maggior peso all’azione e alla reazione.

   Sono sicuro che ci saranno altre cose che imparerò.

   Ti ringrazio, Coronavirus. Ma veramente tanto. Credimi.

   Però c’è una cosa che voglio dirti sinceramente: io non ho paura di te.

   Forse un giorno le nostre strade si potrebbero incrociare. Ne sono consapevole. Ma non pensare che io abbia paura, soprattutto quando so che hai spezzato le vite di tante persone che avrebbero voluto respirare una seconda possibilità.

   Per questo motivo, non posso permettermi di avere paura di te.

Aurélien Facente, aprile 2020.

Coronavirus KR: La Domenica delle Palme

Crotone. Ventottesimo giorno di quarantena. Domenica, ma è come se fosse un giorno come un altro.

   Oggi, scendendo il cane, sono andato alla macchinetta del caffè sul piazzale Ultras. È un piccolo rito molto utile. Un caffè. Odorarlo. E poi sentire la brezza del mare, mentre il silenzio della città di Crotone continua. Ascolto qualche onda, mentre avverto un po’ di luce in questa domenica un po’ grigia sul mio viso. Poi risalgo. Giusto qualche auto che circola. E poi quando risali per Via Roma, ti senti estraneo.

   Perché è una domenica che ti aspettavi magari bella; e so di essere un privilegiato in questa breve camminata. Alzo lo sguardo verso l’alto dei palazzi, e vedo qualcuno sui balconi. Ognuno di noi, nel proprio silenzio, è tragico compagno di sventura in un periodo dove ogni giorno è uguale all’altro, in attesa che la catena venga in qualche modo sciolta.

   Ascolto musica in lontananza. Vite di persone che trovano rifugio in qualcosa che dovrebbe alleggerire una domenica che non è una domenica.

   Oggi è la Domenica delle Palme.

   Quand’ero piccolo, ma proprio piccolo, scendevo in piazza accompagnato da mio nonno Pasquale, fervido credente, e con lui andavo in Piazza Duomo, dove c’erano i venditori delle palme. Nonno Pasquale mi comprò una volta una barchetta fatte con le palme, e mi raccontò la storia di Gesù.

   Non potevo capirla allora. Avevo, penso, cinque anni.

   Piuttosto ero affascinato dal verde delle palme.

   Ognuno scendeva in Piazza Duomo per portare la propria palma a casa. Un rito che ho visto ripetersi anno dopo anno.

   Oggi, quasi quarant’anni dopo, quel rito non s’è ripetuto.

   Ci hanno detto di stare a casa il più possibile per non rischiare di essere colpiti dal mostro invisibile che si chiama Coronavirus.

   Oggi il sole non sembra esserci a Crotone. Un caldo leggero mi accarezza il viso. Alzo lo sguardo in alto, e persone che osservano la libertà che non c’è. Che scena triste! Già.

   Continuo il mio breve cammino, ritornando al ricordo di mio nonno che prese per me la barchetta delle palme. Sento ancora la sua mano sicura su di me, e mi domando se mio nonno, da qualche parte, sia in qualche modo fiero di quello che faccio, giorno dopo giorno.

   Io non ho mai visto mio nonno immerso nella paura. Qualche volta ha peccato d’imprudenza, ma non l’ho mai visto assalito dalla paura. Non l’ho mai visto piangere. Non credo che l’abbia fatto, se non verso la fine, mentre la vita lo abbandonava.

   Ho ripensato a lui oggi.

   E mentre stavo per ricordare il momento della sua fine, ho subito stoppato il pensiero.

   Succede che la memoria fa brutti scherzi se non sai fermarla.

   Mi rimetto a ricordare la scena di Piazza Duomo, davanti alla Chiesa principale di Crotone. Ogni giorno, mio nonno mi portava in chiesa. Si ascoltava la messa. Lui faceva l’offerta. Ogni volta che ci andava. Non grosse somme, ma piccoli spicci che distribuiva ad ogni cestino. E poi si fermava a contemplare sempre lui, il Cristo.

   Quand’ero piccolo, non capivo questo suo rito. Non ho mai osato chiederglielo. La fede è qualcosa che si può provare a capire solo quando si è adulti, e ognuno ha un suo percorso molto personale.

   Oggi, 5 aprile 2020, siamo senza palme.

   Persone che si affacciano sul balcone. Alcuni a respirare e altri a guardare l’estraneo che sono io che cammino sotto il loro balcone in questa breve passeggiata.

   Si chiude un’altra settimana strana, inedita, terribile e oscura.

   Ma oggi ho ricordato mio nonno e la barchetta di palme che volle comprare e darmela.

   Adesso ricordo bene.

   Lui la comprò da un signore che aveva problemi economici, ma non mi ricordo se aveva perso il lavoro o era tra quelli che si “arrangiavano”.

   Nonno non comprò la barchetta per omaggiare il Signore, ma solo per aiutare una persona.

   Oggi non ci sono le palme ad allietarci le case.

   La vera palma, il vero omaggio per chi crede nella Pasqua, si deve trovare dentro il cuore. Perché è lì dentro che si trova la vera essenza della fede. Almeno per chi vuole crederci.

Aurélien Facente, 5 aprile 2020

Coronavirus KR – Ho visto un uomo con la speranza per battere la paura

C’è un momento in cui la notte è più buia perché si prepara a lasciare il posto alla luce del mattino.

   Ho visto Papa Francesco parlare ad una piazza vuota, silenziosa, senza persone.

   Ho aspettato prima di pensare a scrivere qualcosa.

   Volevo rivedere con attenzione la fotografia di tale momento, augurandomi che il messaggio sia passato.

   Cerco di non guardare Papa Francesco come la massima autorità della Chiesa Cattolica.

   Ho voluto vedere l’uomo.

   Un uomo che affronta il male, alzandosi da solo e cercando di dare conforto alle tante persone lontane, che forse mai come in tal caso sono, in realtà, molto più vicine.

   Sì, perché la preghiera, qualunque essa sia, non conosce tempo e spazio.

   La preghiera ha il grande e unico pregio che può raggiungere l’umanità in ogni dove e in ogni quando.

   Ma, nella mia singola individualità, non ho voluto ascoltare la preghiera di Papa Francesco. Non me ne voglia, Sua Santità. Ero impegnato altrove, a casa, a dare conforto a qualche persona che in quel momento non guardava la tv. E credo che il Santo Padre mi perdonerà, perché poi tanto la preghiera la fai quando realmente ti senti in dovere di farla. La preghiera non ammette ipocrisie ed egoismi.

   Ma resta il fatto che Papa Francesco ha fatto il gesto che serviva.

   Quello di alzarsi di fronte al male e di fronteggiarlo, senza avere paura di esso.

   Ho visto tanta paura e incertezza in questi giorni.

   Nel mio piccolo antro, ho insistito che gli altri cominciassero ad affrontare la paura a piccoli passi. Perché la paura, se non governata, porta facilmente al male. La paura rende egoisti nel tempo.

   Perciò ringrazio il gesto di Papa Francesco.

   Più della preghiera stessa.

   Perché è il gesto di un uomo che si arma della speranza per battere la paura.

   In fondo, chi cerca conforto nella preghiera cerca proprio la speranza.

   Sono giorni bui e incerti.

   Ma alla fine c’è sempre qualcuno che affronta il buio per indicare che da qualche parte c’è una luce.

Aurélien Facente, marzo 2020

Coronavirus KR: Il funerale silenzioso

E. Manet . Le esequie di Baudelaire

21 marzo 2020. Un giorno grigio di una primavera che oggi non vuole arrivare. Primo pomeriggio del tredicesimo giorno di quarantena imposto dallo Stato per prevenire l’emergenza del Coronavirus.

   Giornate di odio si susseguono sui social. In fondo, a Crotone, non sono tutti lettori di libri o fumetti o patiti di cinema. Oltre al pallone, gli argomenti su cui confrontarsi diventano scarsi. Non offendetevi, amici e concittadini. Purtroppo nel DNA abbiamo abitudini contraddittorie. Un puro fatto culturale e antropologico. E con ciò non vuol dire che non ci siano bravi crotonesi.

   Tutt’altro. Collaborazione, cortesia, solidarietà. Questi sono elementi giganteschi che sono protagonisti giorno dopo giorno in un ruolo d’incertezza.

   Purtroppo sono i social che sono diventati un luogo di scambio di paure, insicurezze, psicosi. Perché la quarantena non rientra nelle abitudini di nessuno, e ognuno fa quello che può, in attesa che la catena si allenti.

   Stare a casa. Già. Come se fosse facile. Eppure uno va a comprarsi da mangiare, e se bada a qualcuno deve fare la spesa ogni giorno. Senza contare le medicine che possono servire. E vogliamo parlare dell’acqua, dei detersivi, di tutto ciò che serve per disinfettare il proprio ambiente. E poi c’è la decisione di non approfittarsi di un servizio come quello delle consegne. Perché sai che c’è qualcuno che realmente non può muoversi. E ha bisogno. E allora la fai l’uscita, ma sai di essere legato ad un guinzaglio.

   Non sono giorni belli. Neanche per i cani, che anche loro sono nervosi perché vivono la nostra libertà. E c’è l’uscita quotidiana.

   Ho imparato a osservare le piccole cose nell’isolato in cui mi posso muovere senza incappare in qualche sanzione. Bisogna essere forti mentalmente, come quel tipo del film “Le Ali della Libertà” che con una sola forchetta per venti anni ha scavato un buco per uscire da quel carcere dov’era stato ingabbiato ingiustamente. Certo, mi dirà qualcuno. Si tratta di un film. Ma la realtà è più di un film, soprattutto quando l’incertezza è dietro l’angolo da molti giorni.

   Scendo, scelgo l’incrocio e incappo in un funerale.

   Oggi si parla di tante vittime del Covid-19, ma nessuno parla dei funerali.

   Perché si continua a morire di altro. Non esiste solo il coronavirus.

   Il funerale di una signora.

   La macchina presente in attesa della salma.

   Poca gente, tutta distanziata, per un saluto silenzioso.

   In questo periodo a nessuno è permesso di avere un funerale religioso.

   Si viene caricati in macchina, e basta. Subito al cimitero.

   Un funerale silenzioso.

   Questa è una delle tante storie che non vi racconteranno. Perché è facile raccontare del bollettino dei morti. Ma nessuno vi racconta che l’ultimo addio è devastante. Perché magari si tratta di un tuo caro che non può nemmeno essere salutato come si fa abitualmente. Una carezza sulla bara. Un abbraccio. Un saluto da vicino. La messa di un sacerdote. L’odore di una chiesa, che è la casa che accoglie i fedeli. Questo oggi non c’è.

   E allora, nonostante cerchi di andare avanti, ti accorgi dello strano silenzio, dell’addio più silenzioso. Il sangue può solo raggelarsi, perché il funerale dovrebbe essere il più dolce degli arrivederci per poi portare dentro di sé il ricordo del proprio caro.

   Oggi è solo un freddo silenzio.

   Un freddo silenzio di un primo giorno di primavera abbastanza grigio.

Aurélien Facente, 21 marzo 2020

Coronavirus KR: Caro Giuseppe Conte…

Oggi è il 17 marzo 2020. In realtà volevo scrivere a Lei, Avv. Giuseppe Conte, Attuale Presidente del Consiglio italiano, già qualche giorno fa. Ma ho preferito aspettare, perché di lettere aperte ne avrà lette migliaia in questi giorni, molte pubblicate sui giornali.

   Può darsi che un giorno capiterà di trovarsi casualmente a leggere la mia, piccola e insignificante vista la situazione, lettera che le ho voluto scrivere.

   Mi sono preso il tempo di scriverla, senza farmi condizionare da nessun sentimento di rabbia e di paura, che attualmente sono i primi nemici dopo il Coronavirus. Nemici che ognuno di noi deve saper tenere sotto controllo.

   Inizio questa mia lettera con la foto, presa da uno Smartphone, che le farà vedere un tramonto urbano. Ebbene, quello è il tramonto dalle parti di casa mia. Vedo quella scena da 25 anni ormai, e il bello è che il sole tramonta alle spalle della chiesa, San Domenico per essere precisi, dando l’impressione che il sole vada ad accasarsi nella casa del Signore. Una scena suggestiva che sto cercando di rendere ovviamente poetica, senza nessun pregiudizio per chi crede o non crede. Però ho la fortuna di godere giorno dopo giorno di un’immagine simile.

   Purtroppo, ahimé, non tutti possono godere di cotanta bellezza, vista la quarantena imposta per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus.

   In pochi giorni, e Lei lo sa bene caro Presidente, abbiamo tutti dovuto cambiare drasticamente le abitudini. Qualcuno c’è arrivato prima, qualcun altro dopo. Ma nel giro di qualche giorno, diciamo, che l’equilibrio si è costruito e si sta mantenendo, almeno per ora.

   Perché il sacrificio è enorme, ma in linea di massima seguiamo le istruzioni. Lavarsi le mani, usare i guanti, mantenere le distanze, mantenere la fila (anch’essa a distanza), si cerca di uscire il meno possibile. Questi progressi sono stati fatti.

   Poi ci sono i però.

   La motivata paura delle persone, la non immediata reattività, il fatto di trovarsi perennemente su una linea di confine, neanche il tempo di imparare per bene le nuove regole. E queste cambiano spesso, a quanto apprendo dalle tante testate.

   Sia chiaro. Non voglio rimproverarla per il tremendo lavoro che sta facendo in questi oscuri giorni, Giuseppe. La capisco. Lei cerca di tenere dritta la barra di un timone molto fragile in questo momento, perciò Lei, da buon capitano da crociera, sta richiamando tutto l’equipaggio all’ordine. E cerca di farlo senza perdere la calma, perché siamo in piena tempesta.

   Già, Quel nemico invisibile che si chiama Coronavirus ci è piombato in fretta. E lo so che fa paura. Lo vedo negli occhi di chi cerca di mantenere l’ordine. Poliziotti e carabinieri che devono mettere da parte la loro umanità, e non hanno avuto il tempo di recepire bene le informazioni, anche se il loro impegno è massimo.

   La stessa cosa vale per i pompieri e per tutti quegli operatori che sono in mezzo alla strada cercando la via della logica.

   Il Coronavirus e il Caos. Due perfetti alleati in questo tempo sempre più buio abbattono le certezze di chiunque.

   Signor Presidente, a nessuno piace ammettere la propria fragilità. Siamo in una società dove conta solo il più forte, dove conta saper dimostrare di essere forti senza pietà. Una pura e mera illusione, perché il Coronavirus colpisce subdolamente, senza avere pietà. Fa solo quello che la sua natura impone. E non c’è da chiedersi perché.

   Non adesso che non abbiamo una narrazione certa della malattia. Ora si lotta contro il tempo, e sembra che questo ci condanni. No, signor Presidente, non siamo condannati dal tempo. Siamo condannati a renderci conto della nostra fragilità.

   Vede, io mi considero un privilegiato. Ho piccoli spazi di libertà durante la giornata. Le assicuro che nei miei brevi viaggi a piedi verso un supermercato, verso la banca, girando un po’ l’isolato con il cane… Già, mi sento un privilegiato perché assaporo il tempo, pur sapendo che il nemico potrebbe colpirmi.

   E prendo momenti da poter trasmettere agli altri quando posso. Pezzi di colore perché gli altri, che le assicuro restano ben chiusi in casa, hanno bisogno per tener duro. Non basta solo essere sintonizzati sul web o in televisione. Ci vogliono segnali di vita pura e semplice, perché trasmettere quei segnali portano forza nelle persone.

   Io non so se Lei potrà sapere della domenica di Crotone. Della prima domenica della quarantena.

   Solo silenzio. Giusto qualche auto. Sì, perché lei non lo sa ma qui abbiamo una comunità fatta di persone anziane da tutelare, ma anche di malati ad un passo dalla morte, e non per il Coronavirus. Crotone è una città che è stata maltrattata da un inquinamento selvaggio a causa delle industrie, ormai dismesse da più di vent’anni, ma ancora con scheletri presenti.

   Qui lo conosciamo un nemico subdolo e invisibile. Lo chiamano Tumore.

   Perciò, Presidente, tenga conto dei crotonesi. O i krotoniati. Ne tenga conto.

   Perché, a parte qualche grosso vocione, ognuno di noi fa il meglio che può.

   In una settimana, ad esempio, si sono organizzate tante microcomunità per organizzarsi meglio. Un esempio: uno va al supermercato per sapere se c’è l’alcol verde, e se non c’è lo dice agli altri. In altri casi ci si raccomanda di prendere poche cose per velocizzare la fila. Per non intasare. Per facilitare il lavoro del supermercato.

   Poi magari esci più volte. Capita. Non per passare il tempo. Assolutamente no. Dove vuoi passare il tempo a Crotone, se tutte le attività di ristorazione, di somministrazione, cinema, teatro e librerie sono chiuse?

   Non varrebbe nemmeno la pena di farsi un giro. Perché Crotone è già una città dove hanno chiuso ben altre cose, oltre al lavoro.

   Perciò forse abbiamo buon senso di fare le cose per bene.

   Perché il prezzo dei morti lo conosciamo bene.

   Perché il prezzo di chi è andato via per un futuro migliore lo conosciamo bene.

   E io, che son rimasto come tanti, lo sentiamo il vuoto di una casa vuota, senza persone.

   Però, nella prima domenica di quarantena, qualcosa s’è ascoltato.

   Un balcone con bambini che giocano. Qualcuno che canta. Qualcuno che suona. Un po’ di musica ad alto volume. La voglia di ritornare a essere vivi.

   Sono cose che ti fanno sorridere perché ti aiutano ad avere speranza.

   Vedo e ascolto.

   Sono abituato a farlo. Avrei la tentazione di prendere la mia macchina fotografica e fare un ritratto a tutte queste piccole storie belle. Ma non posso. Perché rispetto il tempo concesso della mia microlibertà. E allora mi limito soltanto ad ascoltare, e a pensare che questi sono momenti che almeno vanno scritti.

   C’è la voglia di essere migliori.

   Perciò, caro Giuseppe Conte, quando tutto sarà finito si prenda il tempo di leggere questa mia piccola lettera aperta, se mai ne avrà l’occasione. E magari la legga anche a chi istituzionalmente le è vicino.

   Noi non siamo numeri, signor Presidente.

   Siamo persone, ognuna con una sua storia e con una propria dignità.

   Non rivendichiamo il folle diritto di fare ciò che vogliamo. No. Rivendichiamo il diritto all’esistenza. Perciò quando sarà tutto finito, non pensi soltanto a circondarsi di linguaggi istituzionali, ma si faccia anche circondare da linguaggi molto umani.

   Facciamo il tifo per la vita.

   Con profondo rispetto.

Aurélien Facente, 17 marzo 2020

Coronavirus KR – La paura di un nemico invisibile

   Crotone, 11 marzo 2020, ore 1.56 del mattino

   Non credo di essere il solo ad avere problemi di sonno.

   Sono a casa. Scrivo. Ci provo.

   Il governo italiano dice che ci deve proteggere, e ci intima di stare dentro casa.

   Perché c’è un nemico che si chiama Coronavirus, o Covid-19 se vogliamo essere più tecnici.

   Dopo una breve pausa, riprendo con naturalezza a scrivere.

   Sono un blogger. Devo lasciare una traccia, una testimonianza, un qualcosa che possa darmi sollievo in questa notte silente.

   Ascolto mia madre dormire.

   Anche il mio cane dorme.

   Io no.

   Sono l’uomo di casa.

   Devo restare vigile. Avrò tempo di riposare. Sono abituato a dormire poco. Voglio essere sicuro che tutto sia a posto. Sono un guardiano ormai. Papà, dovunque sia adesso, mi ha lasciato l’eredità di una responsabilità.

   E non posso permettermi di avere paura.

   Mia madre ha paura. Il mio cane avverte la paura.

   Non è una situazione bella. Tempi duri, mi direbbe qualcuno. Già. Sono tempi duri. Ma non mi piego. Perché se mi piego, il male potrebbe approfittarne.

   Io so che è invisibile, piccolo, tremendamente minaccioso, che potrebbe bussarmi da un momento all’altro. Ma non posso permettermi di avere paura. Devo essere forte per mia madre. Devo essere forte perché c’è gente che sta peggio di me, molto peggio di me che magari sta combattendo per la sua seconda possibilità. E anche se dal canto mio potrei starmene comodo a casa a leggere, purtroppo non posso fare a meno di reagire per conto mio.

   Ho un’altra maledizione. Sono diabetico. Per me è importante muovermi. Vitale. Stare troppo fermo mi fa male. Mi alza la glicemia, e mi danneggia.

   Crotone è diventata una zona rossa. Viviamo la quarantena.

   Grazie, Coronavirus.

   Ti ringrazio con tutto il cuore.

   Già ho il diabete che mi ha regalato dei limiti prestabiliti, e prima di esso c’è la celiachia. Sai, quell’intolleranza che non ti permette di mangiare una pizza, un pane, un pasticcino. Cose che ho conosciuto in avanzata età adulta per stare con gli altri, per essere un po’ come gli altri.

   Ora ci sei tu.

   Non ti temo. Non ho paura di te, Coronavirus. So che potrai prendermi alla sprovvista quando vuoi, ma non mi posso permettere di avere paura.

   Sono uscito stanotte. Era l’una. Una breve passeggiata con il cane. Una cosa da incoscienti. Vero. Ma avevo bisogno di respirare. Non seguite il mio esempio. Mi faccio giusto il giro di un grande isolato. Il mio cane deve fare la pipì. Una breve passeggiata di quindici minuti. Quindici soli minuti per… Non lo so. Io sono uno che adora la notte. Sono stato un uomo di notte per tanto tempo, perché in essa il mio cuore trovava rifugio.

   Non tutti possono capire. Mi definisco una scheggia anomala.

   In meno di una settimana, la vita di tutti è cambiata.

   Scosse di assestamento dentro di me per evitare di cedere ai nervi.

   Conosco la mia fragilità. Ci vengo a patti ogni giorno.

   La verità è che la passeggiata notturna di quindici minuti circa è un’abitudine dura a morire. La faccio dopo l’ultima puntura, perché quella camminata aiuta in qualche modo l’insulina notturna a fare il suo dovere. Se sto fermo, mi alzo con una glicemia non accettabile.

   Non ho più l’età della movida. Ho 41 anni suonati, e per molti giovanotti potrei essere classificato come un vecchietto ormai. Dovrei essere più responsabile. Ma quando vivi il male che io ho vissuto… No, non fraintendetemi. Non voglio fare la vittima. E nemmeno voglio apparire come un eroe.

   Sono solo un uomo che passeggia di notte con il suo cane. Una sola piccola passeggiata.

   E sapete perché?

   Perché un cane può fare pipì dentro l’appartamento. E la regola numero 6 ti impone di tenere pulita la casa dove dormi. Quindi sai che seccatura…

   Ecco, caro Coronavirus, tu sei una bella seccatura. Ma veramente una brutta seccatura, anche se sei pericoloso e contagioso. Fattelo dire.

   Il lungomare è deserto. Solo un breve passaggio. Da Piazzale Ultras a Piazza Gramsci. Al distributore di bibite al piazzale, quattro poliziotti cercano di prendere un caffè. Per loro il lavoro stanotte è duro e solitario. Non provano nemmeno a fermarmi. È vero però che sono distante.

   Sul lungomare, incrocio un uomo di colore. Non so dove sta andando, ma nessuno si accorge di lui.

   Il cane fa quello che deve fare diligentemente. C’è umidità e fa freddo. Il mare. Ascolto il mare notturno. Un canto calmo, calmissimo, rincuorante.

   Poi una pattuglia dei carabinieri.

   Mi ferma.

   Mi chiede che ci faccio fuori.

   Gli dico semplicemente la verità al carabiniere, che però non è nemmeno sicuro di che cosa accusarmi. In fondo non posso evadere dalla zona rossa nemmeno se lo volessi, non vado a nessuna festa, non vado a trovare nessuno, sono ben coperto. Il carabiniere è un po’ imbarazzato. Mi dice che rischio la denuncia e che dovrei pagarmi un avvocato. Non mi chiede nemmeno i documenti. Perché la situazione è paradossale alla fine dei conti. Ci lasciamo cortesemente, e con un po’ di comprensione reciproca. L’atmosfera è surreale per entrambi. In fondo, un carabiniere non può permettersi di arrestare un uomo con il suo cane solo per 15 minuti di onesta passeggiata, soprattutto quando l’uomo che cammina a piedi è ben coperto e desideroso di rispettare le regole. La giornata è stata pesante per entrambi.

   Ho sbagliato io a scegliere quel percorso. Lo so.

   Potevo scegliere altro. Oppure potevo starmene a casa. E in questo momento sono a casa che scrivo. Si sono fatte le 2.31, e ancora il sonno non mi è venuto. Dubito che verrà presto.

   Non ho paura, Coronavirus.

   In realtà non ho il tempo di avere paura di te.

   Mi spaventa di più il signor Diabete. Lui sì che sa essere tremendo. Il signor Diabete ti mangia lentamente negli anni. Devi sempre stare a controllarti la glicemia e a rispettare i tempi delle iniezioni. Mi buco quattro volte nell’arco delle 24 ore. Nell’arco di un anno sono 1460 buchi al corpo se ti va bene. Mi buco quattro volte al giorno da 23 anni ormai. E ho fatto le mie cazzate anche.

   Il signor Diabete un giorno mi mangerà, ma non lo farà oggi. Perché mi controllo spesso, e cerco di mantenere la media accettabile per vivere una vita quasi normale.

   Sono abituato a convivere con il signor Diabete da tanti anni ormai.

   C’è gente che sta peggio di me. Lo so.

   Perciò non ho paura, e non posso permettermi di avere paura.

   Coronavirus, ormai sei un’opportunità per me.

   Racconto la tua storia. La sto scrivendo. Tu fai paura alle persone che io voglio bene. Permettimi di essere il tuo compagno di sventura in questo tuo caos nella mia amata e odiata Crotone.

   Sono le 2.40.

   Sono stanco. Ho finito di scrivere.

   Coronavirus, ci vediamo domani.

   Buonanotte.

Aurélien Facente, 11 marzo 2020

PS: Non fate come me se avete letto questa storia. Restate a casa e seguite le regole.

Il vero amore ai tempi del Coronavirus

Foto di Aurélien Facente

Crotone. Mattina. Primo giorno della chiusura delle scuola per l’emergenza coronavirus. Vedere le scuole vuote in una calda mattinata invernale è desolante, poco rassicurante. Ascoltare il vocio dei bambini è sempre un buon segnale di vita. Stamattina questo vocio non c’è. Cammino per la città di Crotone, non raggiunta dal virus, cercando di non farmi condizionare dalle voci sull’apocalisse.

   In Italia il giornalismo ufficiale cerca il sensazionalismo. Si cerca di arrivare per primi, senza preoccuparsi dei danni. È sempre meglio buttare veleno su veleno.

   Io non nego l’esistenza del virus. Assolutamente no. Lo so che la natura ogni tanto fa nascere qualcosa di più fastidioso, di più difficile da affrontare.

   Mi dà fastidio l’informazione disfattista, come se fosse normale arrendersi e piegarsi ad un nemico invisibile che ti mangerà in ogni caso.

   Curatevi, signori della comunicazione.

   Io non sono sconfitto. Non mi piegherò alla paura. Il male c’è? Okay. Bisogna conviverci? Okay. Ma c’è modo e modo di affrontarlo.

   Prima di tornare a casa si va al supermercato. La spesa quotidiana. Poca gente all’una meno un quarto. Normale. Le scuole sono chiuse. I genitori non si precipitano per fare la spesa. In realtà non si vede il classico supermercato dell’ora di punta.

   Poca gente. Silenzio. Guardi i prodotti in silenzio. Guardi la lista della spesa. Olio, pane, uova, sapone, zucchero, sale, e altro. Poi nel silenzio ascolti una voce.

   La voce di una bambina. Si lamenta con la mamma. Non è andata a scuola.

   “Perché il governo ha deciso così. Non posso farci nulla, cara.”

   “Ma mamma… Non è giusto… Non posso vedere i miei amici…”

   È inevitabile essere indiscreti, pur apparendo indifferenti.

   Però la vita è fatta di momenti che vanno osservati, o forse è meglio dire che vanno ascoltati. Mentre mi avventuravo per il supermercato, ascoltavo le paure della bambina che si poneva delle domande. La mamma non sapeva che cosa rispondere. Siamo, effettivamente, in una situazione del tutto inedita, e perciò tutti, anche il meno istruito, ci facciamo delle domande.

   Gli adulti si pongono ben più problemi dei bambini. È assodato. Poi in un’Italia come la nostra, tendiamo a dimenticare che forse è meglio pensare di stare bene, di trovare una sorta di armonia. Dovremmo ricordarci di essere stati bambini. Una lezione, questa, scritta da Saint-Exupéry nel celebre libro “Il Piccolo Principe”.

   La bambina è piena di energia, di vitalità, di ricerca della gioia. È il suo parlare è contagioso. Una bambina di sei anni forse, o qualcosa di più. O forse è più piccola, e dimostra di essere più adulta.

   “Mamma, ma è vero che il governo ha detto che non ci possiamo abbracciare?”

   Già. Evitare il contatto. Una misura precauzionale per provare a evitare il contagio.

   La mamma oserà rispondere qualcosa? Alimenterà la paura della figlia, facendole credere che il contagio passa attraverso il contatto umano? Come può un governo, con i media invadenti, pretendere una cosa del genere?

   La mamma non risponde. Si limita soltanto ad abbracciare la figlia calorosamente. Un abbraccio che non ha bisogno di altre parole.

   Viviamo tutti un incubo delirante, ma possiamo combatterlo.

   I bambini ce lo ricordano.

   Una mamma non negherà mai il proprio abbraccio al figlio che ha paura.

   Il figlio correrà sempre verso di lei.

   E quest’amore potrebbe essere la chiave per combattere il coronavirus.

   Il vero amore combatte la paura.

   Mi allontano. Mi ricordo, un po’ di tempo fa, che ero nelle vicinanze della spiaggia di Crotone. Una giornata grigia. Vicino la passerella esattamente. In lontananza una mamma e suo figlio. Il bambino corre sulla spiaggia, e poi torna dalla mamma, cercando proprio l’abbraccio.

   Sono proprio questi momenti che combattono, e sconfiggono, l’oscurità dell’incertezza.

Aurélien Facente, marzo 2020

Quell’Acido che ci riempiva le giornate all’università (Un ricordo dei Prozac +)

Oggi la testa si riempie di bei ricordi. Cosenza, correva l’anno 1998. Avevo 20 anni, e frequentavo l’università. L’appartamento dove alloggiavo si trovava nelle vicinanze del tribunale, a due passi dalla sopraelevata che ti portava sulla strada statale 107.

   Allora internet era agli albori. I social erano qualcosa di sconosciuto. Però noi giovanotti avevamo i nostri mezzi per socializzare.

  Allora dividevo l’appartamento con altri 4 ragazzi, e ognuno aveva la sua stanza, e ognuno aveva la propria radio, o il proprio walkman. I cd erano un piccolo bene di lusso, e facevamo incetta di musicassette. Certe volte, le nostre stanze si riempivano di musica ad alto volume, per sovrastare quella sala giochi frequentata da ragazzi che parlavano di pallone dalla mattina alla sera, mentre noi cercavamo di studiare e vivere la vita.

   A 20 anni, vivere l’università era la prima vera esperienza libera. Nessun controllo famigliare intorno. Ti crei un feeling con i nostri coinquilini. E se non è il calcio ad unirti, di sicuro è la musica.

   Già. A quell’epoca, per me che ero appassionato di fumetti (la Marvel era considerata qualcosa per adolescenti con problemi infantili) non era facile socializzare. Non ero (e non sono) un grande appassionato di pallone. Nel 1998 il Crotone Calcio giocava in C1, e vivevo la serie B del Cosenza. Ma non era tanto la mia passione.

   Però la musica, in qualche modo, fu il linguaggio che tutti parlavamo, e ci unì, noi ragazzi del sud in quell’appartamento non lontano dal tribunale.

   Io ascoltavo molto il rock, il mio coinquilino ascoltava la scena indipendente italiana, un altro il pop italiano e così via. Ci amavamo e ci detestavamo. Però quello era un modo di confrontarsi culturalmente. Perché c’erano i nostri “razzismi” meridionali, ma la musica spezzò le nostre barriere.

   Quando si pranzava in cucina, accendevamo la tv. Avevamo un vecchia tv in bianco e nero. E vedevamo spesso TMC2, una specie di MTV italiana con musica non stop tradotta in videoclip, ed era la nostra radio. La prima radio che vedevi in tv. Uno speaker che ti parlava, e la musica la guardavi.

   Ad un certo punto arrivarono loro, i Prozac + con la loro hit “Acida”

   Fummo invasi istantaneamente dal ritmo del ritornello: Acido, Acida, Acido, Acida…

   Un punk tutto italiano cantato da una voce femminile, accompagnata da altri due elementi, tra cui una donna che suonava il basso.

   Per settimane, ogni volta che passava il pezzo ci scaricavamo l’adrenalina canticchiando quel pezzo, perché noi sapevamo che cosa voleva dire quel pezzo.

   Erano gli anni delle discoteche dove circolava l’acido, se dovessimo prenderla sul serio.

   Ma ci davamo anche dell’acido quando litigavamo: “Quanto sei acido!”

   Il punk è ribellione, e quel brano punk divenne il nostro accompagnamento dei vent’anni verso un’età più adulta.

   Il tempo passò, ma i Prozac + ogni tanto tornavano, e noi cantavamo.

   Anche nell’appartamento successivo dove alloggiai, con altri ragazzi, i Prozac + erano di casa.

   Quel modo d’intendere e di ascoltare era il linguaggio che si usava. Anche le ragazze adoravano adottare un look più punk, perché noi detestavamo la rigidità di un certo mondo adulto calabrese.

   Già, la Calabria adulta che noi criticavamo e contestavamo.

   Volevamo riuscire con le nostre forze a fare qualcosa, senza l’intromissione del sistema che prevedeva l’omologazione e la raccomandazione. E quando si usciva tutti insieme, si andava alla ricerca di qualche concerto per esprimere il nostro dissenso.

   Io non ho mai visto i Prozac + dal vivo. Solo visti in tv o ascoltati per radio. Migliaia di volte, sempre con l’energia a mille per darsi la carica e affrontare la giornata universitaria, perché nel caldo estivo cosentino ti chiudevi nell’appartamento, dentro la stanza, e studiavi con una certa attenzione, addirittura combattendo contro te stesso, perché certi libri volevi mollarli, e buttarli.

   Allora, ti fermavi e accendevi la tv. Ti preparavi qualcosa di fresco, e in estate, quando c’è poca gente a guardare la tv, riuscivi ad incappare con Acido, Acida, Acido, Acida… e cantavi a squarciagola, oppure ti liberavi in un ballo pieno d’energia per scaricare la tensione. Era un modo, almeno per me, per affrontare al meglio quella parte seccante che ti tiene bloccato in casa.

   E così passava il tempo con più piacere, mentre in qualche modo si cresceva…

   Sono passati ventidue anni.

   Oggi ho saputo della triste notizia di Elisabetta Imelio, la bassista dei Prozac + che si è dovuta arrendere al male che non lascia scampo. Mi ricordo bene di lei, perché molto raro vedere una donna che suona il basso in una band molto punk. Mi ricordo di quanto fosse carina, e di come mi sarebbe piaciuto invitarla a bere qualcosa se l’avessi conosciuta. Ma non come probabile partner, ma perché di sicuro le avrei chiesto: “Scusa, ma come fa una come te a suonare in una punk band tutta italiana?”

   Una semplice fantasia da ventenne.

   Elisabetta, che dire? Solo grazie.

   In qualche modo ti ascolterò ancora. E così tanti ragazzi, oggi uomini e donne, che grazie a te hanno in qualche modo trovato stimolo nel fare un qualcosa di molto libero. E altrettanto vivo.

Aurélien Facente, 1 marzo 2020