14 ottobre 1996, Crotone: una storia da ricordare, non solo per l’alluvione.

Sono passati 25 anni ormai da quel lontano 1996.

   Era il 14 ottobre 1996.

   Avevo appena compiuto diciotto anni. Frequentavo il Liceo Classico Pitagora. Ultimo anno. A scuola non ero un granché. Lo ammetto. Non volevo essere un granché. Volevo che l’ultimo anno passasse soltanto liscio. Non avevo passato un bel periodo nei mesi precedenti (questioni personali), e volevo soltanto staccarmi psicologicamente dal brutto periodo.

   Però era l’ultimo anno di scuola per me. Come me, tanti altri ragazzi.

   Poi quel giorno del 14 ottobre si mise a piovere.

   Ad un certo punto la corrente elettrica s’interruppe, e restammo al buio. Il cielo s’era fatto cupo, e la lezione scolastica si chiuse così, senza motivo apparente. Ci fu un silenzio strano. Cioè, la scuola era piena di ragazzi. Gli insegnanti c’erano. Un giorno normale, ma quella sensazione di silenzio… Una cosa strana… La verità? Era la pioggia. Un po’ più forte del solito. La nostra preoccupazione fu di tornare a casa e basta, senza neanche bagnarsi troppo.

   Il turno di scuola finì un po’ prima, perché la corrente elettrica non tornava.

   Fu la sola buona notizia per i ragazzi. Terminare un po’ prima le lezioni.

   Ma quel cielo grigio… Ancora lo ricordo bene… Ci penso ogni volta che passo dal Liceo Classico. Uscii da scuola in un momento che non pioveva. Mi preoccupavo soltanto di tornare a casa, e di terminare la mia giornata tra vari fumetti.

   Invece…

   Durante l’ora di pranzo si ebbero notizie sconfortanti. La città si era bloccata.

   Papà tornò più tardi dal lavoro (era insegnante a Isola di Capo Rizzuto), e disse che l’avevano obbligato a fare un altro giro, che di fatto gli allungò il percorso.

   Che cos’era successo? Era la domanda che mi frullava nella testa, e nel 1996 non c’era internet. Dovevi aspettare il tg per le notizie immediate.

   Poi le prime immagini dell’alluvione.

   Un’onda di distruzione dentro la città.

   Passa il tempo, e poi i nomi dei dispersi, poi morti.

   La città divenne in pochi attimi una terra di nessuno.

   Tutto si fermò.

   Ed io, come altri ragazzi, ci trovammo a vivere una delle settimane più strane della nostra vita. Non riuscivamo a comprendere quello che era appena capitato. Cioè, io ero fortunato perché abitavo in una zona lontana dal fatto, ma tremendamente vicina. L’ondata non m’aveva colpito. Anzi, abitavo in uno dei pochi palazzi che l’acqua corrente se la poteva permettere. Ma a due passi da casa, tutto si trasformò in un gigantesco campo di soccorso.

   La mattina scendevo sul Comune (Piazza della Resistenza, davanti al palazzo comunale) e vedevo le autobotti piene d’acqua e interminabili file di persone con varie borracce e bidoni per prendere razioni.

   E poi i racconti che sopraggiungevano.

   Una settimana lunga dove non potevi riposarti mentalmente, dove non sapevi che fare se non prestare un minimo d’aiuto se avevi una coscienza. Una settimana snervante prima di ricominciare la scuola (il Liceo Classico non era stato colpito). E poi si fecero i nomi delle vittime (pochissime rispetto ad altre realtà alluvionali, e fu molto duro immaginarsi che fu tutto frutto di un mostro dovuto ad un temporale eccezionale. Vittime di una tristissima casualità.

   L’alluvione non fu causata dal maltempo che fece ingrossare già di per sé il fiume Esaro (che colpì in modo violento tutti quartieri limitrofi), ma perché cedette un pezzo di cavalcavia nord sul fiume, e questo fece da diga e impedimento, causando tutto il disastro. Un evento casuale e sfortunatissimo.

   La città di Crotone era inevitabilmente costretta a cambiare, se non altro perché già da qualche anno stava cercando una sua identità dopo la chiusura industriale.

   Passai quella settimana a pensare parecchio, a fare volontariato silenzioso, a cercare di essere utile in un altro modo. Non mi sporcai le mani di fango a dire il vero. Per fortuna c’erano altre persone a farlo.

   Mi occupai di fare il facchino per quelle persone che non potevano muoversi (e ne conoscevo un po’), soprattutto portando acqua a chi ne aveva bisogno.

   Poi passavo dei momenti ad avventurarmi in zone silenziose. Avventure solitarie.

   E la sera t’incontravi con gli amici, e ascoltavi i loro racconti, in parte molto agghiaccianti e terribili. Si avventuravano nel quartiere Gesù, e raccontavano storie di abitazioni improvvisate, ed era solo l’inizio della storia. Ascoltavo quelle storie con attenzione, e andavo oltre. Guardavo da lontano quello scenario apocalittico, pensando che l’alluvione stava portando fuori il marcio della città, che s’era accontentata di vivere all’interno di un “sistema” stantio, e quelle erano effettivamente le tremende conseguenze.

    Si stava prendendo coscienza che Crotone non poteva restare ancora in quel modo, perciò speravamo che da lì in poi si poteva pensare a costruire una città migliore, un posto migliore, diventare persone migliori…

   Sono passati 25 anni da allora.

   Le promesse di 25 anni fa… qualcuno le ha mantenute forse, ma molto a livello personale e intimo direi. La città, dopo un’iniziale ripresa (i primi anni dell’era Senatore sindaco), ha poi continuato ad affondare in uno stagno, dove adesso si trova in una fase di stallo enorme e scoraggiante (Crotone è stata maltrattata in tutti i sensi, sia a livello politico che criminale), e oggi si trova ad essere un enorme boh, e questo lo pagano tutti (me compreso).

   È inutile nascondere l’evidente. Giusto ricordare la tragedia, le vittime, ma c’è da scrivere anche il resto, da riconoscere lo sbagliato…

   Sono passati 25 anni da allora…

    Ricordo ancora quel cielo grigio e quel rumore di pioggia che sapeva d’inquietante, e m’immagino quelle poche persone che non trovarono scampo, persone che potevano ancora vivere una vita e costruire qualcosa, vittime sulle quali si poteva e doveva costruire un posto migliore per tutti.

   Ora restano dei fiori e dei silenzi, promesse mancate, situazioni precarie, continue situazioni precarie.

   Ricordiamo il 14 ottobre, per carità…

   Ricordiamo le vittime.

   Ma poi ricordate di guardare Crotone per bene. Non guardatela come città. Guardatela come individui all’interno di una città. Guardatela bene. Ascoltatela, soprattutto di notte, nel silenzio.

    Abbiate il coraggio di farlo.

    Lo dico soprattutto a coloro che si sono succeduti nei posti di potere nella città, ad ognuno di loro. Non so se avete la capacità o la sensibilità di poterlo fare, perché alla fine si tratta di fare i conti con la propria coscienza, e ci vuole molto coraggio.

   Ma, detto con franchezza, credo che la risposta sarà sempre la stessa….

   Una risposta di silenzio che spiega molto più di migliaia di parole dette e sprecate in due decenni.

Aurélien Facente, 14 ottobre 2021

Caro Roberto, a fare il bullo è facile…

Nota dell’autore: per precisazione, la seguente lettera era stata già pubblicata, ma il contenuto tematico (bullismo) resta lo stesso. Buona lettura.

Ti chiamerò Roberto. Un nome generico. Non ti preoccupare. Non farò il tuo nome, né il tuo cognome, e cercherò di evitare allusioni al tuo aspetto fisico e alla tua vita privata. Però qualcuno capirà chi sei, caro Roberto, e magari te lo riferirà. Ti potrai arrabbiare quanto vuoi, ma se sono arrivato a scriverti una lettera pubblica, beh… ti prego… Non prenderla come un atto di guerra, ma nemmeno come un atto di pace. Ti voglio solo invitare a riflettere sulle tue azioni, sulle tue parole, sul tuo modo di atteggiarti con me.

Devo essere sincero. Sono settimane che ci penso, però è doveroso farlo, perché io quello che voglio, mio caro Roberto, è solo godermi un’esistenza tranquilla e basta.

In verità, caro Roberto, ho deciso di scriverti e di rendere pubblica questa mia lettera perché c’è una cosa che mi ha colpito di te.

Mi è stata mostrata una foto di te con tua nonna. Una foto tenerissima, a dire il vero. Mi ha fatto piacere che dietro la tua scorzetta da bullo si nasconda un essere umano, il che è già qualcosa di straordinario. Io sono felice che tu abbia la fortuna di goderti la tua amata nonna. Non tutti hanno la fortuna, vista la tua età anagrafica adulta, di godersela. Ed è bello che tu lo abbia testimoniato questo enorme affetto.

Ma vedi, caro Roberto, poi succede che m’immagino che magari un giorno tua nonna veda il tuo comportamento di te nei miei confronti… e allora mi domando che cosa proverebbe nel vederti mentre mi segui con la macchinina a gridare che io sono frocio, ricchione, coglione, cretino? Che cosa proverebbe nel vederti mentre punti il laser di un giocattolino comprato alla fiera contro la mia faccia? Secondo te, sarebbe orgogliosa di vedere il nipote a fare queste cose?

Vedi, caro Roberto, io credo proprio di no.

Magari non te lo dirà, ma il suo sguardo cambierebbe verso la delusione, e non credo che la voglia vedere delusa, anche perché è una donna che ha dimostrato nel tempo di essere molto forte e paziente, e sai che non merita questo.

Oddio, caro Roberto, mi rendo conto che questo discorso non potrebbe essere opportuno, perché magari alimenta il tuo elemento di rivalsa nei miei confronti, e rischio di peggiorare la situazione. Ma tu non sei un ragazzino. Sei un adulto, cazzo! E perciò mi appello alla tua parte umana, chiedendoti di smetterla di credere di passare il tempo sulla mia pelle, solo perché tu e qualche tuo amico vi annoiate…

Vedi, caro Roberto, non sei il primo bullo che conosco, e credo che non sarai nemmeno l’ultimo. Non rientri nemmeno nella classifica dei migliori “bulli” con cui ho avuto a che fare nei miei miseri 38 anni di vita. NdA: la lettera è stata scritta nel 2017.

Tu, come tutti i bulli, pensi che io sia una persona incapace di reagire, una persona da prendere in giro e offendere solo perché devi passare il tempo o addirittura per dimostrare la tua superiorità o per farti figo. Il discorso è sempre lo stesso alla fine dei conti. Tu, forse, non lo sai e nemmeno vorrai saperlo, ma io il bullismo lo conosco molto bene. L’ho subìto per anni a Crotone, a causa di mentalità ristrette e ottuse. Tu non conosci i danni che mi ha fatto quando lo subivo, e non ti racconto le conseguenze emotive e fisiche che mi sono trascinato per anni. Certo, diventi strano agli occhi degli altri, e allora poi un bullo trascina l’altro, come se tutti foste autorizzati a massacrare una persona che non sa perché è condannata.

Poi un giorno qualcosa cambia. Anche la vittima può reagire. E se lo fa con una certa intelligenza, magari ribalta i ruoli. Oppure un giorno ti accorgi che tu hai un problema che non riesci a risolvere, e la vittima delle tue brutte parole è la sola persona che potrebbe aiutarti. Sai come di solito finisce? Che non riceverai quell’aiuto, perché ogni volta che mi prendi di mira è un colpo che ferisce la mia fiducia.

Perché dovrei fidarmi di te? Perché dovrei aiutarti, soprattutto se mi vedi dall’alto del tuo piedistallo e mi definisci “frocio” solo perché ti va di passare il tempo? E nelle tue imprese dove vuoi giocare a essere il “the best” ti trascini tanti amici diversi… e c’è qualcuno che ti regge il gioco. Lo so perché lo vedo, e ascolto.

Tu pensi che non reagirò, ma intanto sto prendendo appunti… e poi arriverà quel giorno dove tu avrai bisogno… perché poi un giorno potrebbe capitare che la vittima del bullo possa essere un tuo nipote o forse tuo figlio… e allora che farai? Gli dirai di sfidare una banda di bulli a mani nude pur non avendo il fisico adatto per farlo? Perché quando questo bimbo nascerà, a te non importerà come sarà fisicamente perché sarà tuo figlio, sarà parte di te, della tua anima. Sarà quella gioia che ti darà forza nei momenti difficili della tua esistenza, e farai di tutto per dargli quelle possibilità che tu non hai mai avuto.

Roberto, io questi sentimenti li conosco bene e un giorno magari ti spiegherò perché li conosco bene.

Io non ti sfiderò nel dirti che sono migliore di te, caro Roberto.

Io ti sfido nel dimostrarmi che tu puoi essere migliore di quello che sei adesso, mascherato da un orgoglio stupido che ti rende mediocre ai miei occhi.

Roberto, non pretendo di essere capito. Pretendo di essere rispettato nello stesso modo in cui tu rispetti gli altri.

Io lo so perché mi hai scelto come vittima. Perché hai sentito parlare di questo Aurélien molto strano che non si sa bene quello che fa, e siccome è strano allora bisogna massacrarlo d’insulti.

Bene, Roberto, vuoi che ammetta le mie debolezze?

Devo vergognarmi del nome che mi ha dato mia mamma?

Devo vergognarmi perché non posso bere una birra Peroni in quanto celiaco?

Devo vergognarmi perché mi faccio quattro punture al giorno d’insulina causa diabete?

Devo vergognarmi di chi ho amato e di chi amo?

Devo vergognarmi perché scrivo queste cose, con la consapevolezza che le mie parole scritte serviranno a ben poco…

Sottovaluta, Roberto. Ne ho visti passare bulletti prima di te. Tutti poi a vergognarsi di quello che hanno detto. Dopo un po’ se ne stanno in silenzio, oppure mormorano a voce bassa. Perché poi arriva un momento dove la vita ti prende e ti porterà a fare la scelta che non vorresti fare o ad affrontare quello che non auguri nemmeno alla persona che ami di più.

E allora che fai, Roberto? Continui a fare il bulletto? Continui a voler passare il tempo insultando e sbeffeggiando il prossimo?

Io sono cresciuto in una città che amo e che odio. Amo i colori della mia terra, ma odio le persone che si comportano come te pronte a prendersele con il prossimo solo perché appaiono più deboli, o solo perché hanno fatto una scelta diversa dalla tua.

Io lo so perché mi sfidi certe volte, caro Roberto. E mica te lo dirò qui, caro Bob. Perché se lo dico poi ti dovrai guardare allo specchio e vederti per quello che sei adesso agli occhi miei.

Vedi, caro Roberto, tu e i tuoi compagnucci avete urlato che faccio schifo perché scrivo… Non la prendo come un’offesa perché voi riconoscete che io scrivo, e mi basta quello per urlare la mia misera vittoria, una vittoria della quale nemmeno m’interessa più di tanto.

Perché la mia vittoria, caro Roberto, è farti vedere che alla fine dei conti sono una persona capace di pensare e di risponderti, anche a tono visto che poi copi apertamente le mie battute, e questo mi fa capire che tu, dentro la tua parte più intima, in qualche modo provi ammirazione per me. E sai perché? Perché mi dai importanza? M’insulti, e sai che non ti ascolto… eppure ti prendi il lusso di far fare all’amichetto di turno il giro dell’isolato per dimostrare che cosa?

Che sono “gay”, “frocio”, “coglione” o altro? È questo il passatempo che insegnerai a un tuo eventuale figlio? È questo che vuoi far vedere alla tua splendida nonna?

Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te.

È una legge che vale sempre.

Roberto, vedi… Io ho imparato che cos’è toccare il fondo dell’abisso… Potrai picchiarmi, insultarmi, offendermi… ma niente di quello che potrai farmi mi farà male… perché sono cose già vissute, e già superate… Continuerò la mia strada come sempre, e fischietterò anche…

Io forse faccio schifo perché scrivo, ma tu fai più schifo di me ogni volta che ti mostri nella tua misera mediocrità, sapendo che puoi essere migliore quando vuoi.

Con stima e rispetto,

Il tuo amico di quartiere Aurélien Facente

Coronavirus KR: Il lavoro crocifisso

Credo che la foto parli per tutti coloro che hanno un’attività e che vivono con la partita IVA. I lavoratori autonomi tartassati, perseguitati da bollette, affitti e banche. Il vero motore economico dell’attuale Italia, dove il lavoro è stato precarizzato e il costo della vita è in aumento.

   Se a Cosenza il titolare dell’attività si lega come se fosse un po’ Gesù sulla croce, a Crotone una piccola delegazione fece una protesta, con tanto di manifesto affisso al muro, molto civile.

   L’Italia affronta un’emergenza sanitaria senza precedenti, e lo Stato ti parla di prevenire i cosiddetti focolai. Che bel termine! Però sottovalutano altri focolai. Quelli delle persone di tutti i giorni, di quelle che non possono nemmeno aprire un negozio di scarpe o di vestiti. Per non parlare di parte del mondo artistico, che stranamente in Italia accetta senza aprire un dibattito serio. Ci ha provato Tiziano Ferro, a dire il vero, ma nessuno ha voluto ascoltare la sua preghiera, o almeno appoggiarla almeno.

   Eppure anche qui si parla di partita IVA. E anche qui si parla di gente dipendente.

   Sacrificarsi per il bene comune è bello, ma prima o poi una risposta deve arrivare.

   Il governo non va criticato per le scelte che fa? Beh, diventa una sfida ardua non poter controbattere, soprattutto se lo stesso governo ritiene i suoi cittadini come dei bambini irresponsabili. Eppure stiamo parlando dello stesso governo che predica i valori del 25 aprile, dribblando abilmente il valore del primo giorno di maggio. Stiamo parlando dello stesso governo che annuncia gli aiuti attraverso i decreti, che poi vengono rallentati dall’intera macchina burocratica italiana, portando i numerosi cittadini sull’orlo del pozzo senza fine. Stiamo parlando dello stesso Stato che multa dei ristoratori che hanno fatto una protesta civilissima a Milano con tanto di distanziamento super rispettato: multe di 400 euro che non verranno pagate.

   Sì, perché l’economia è stata volutamente rallentata. Prima era una buona automobile che camminava senza fermarsi, ma poi è stata portata a frenare bruscamente.

   Eppure, dopo un mese di fermo, questa categoria di cittadini potrebbe dimostrare che con responsabilità può tenere aperta la propria serranda o il proprio ufficio, a costo anche di lavorar la sera. Perché l’italiano avrà anche mille difetti, ma quando si tratta del lavoro l’italiano eccelle.

   Eppure lo Stato preferisce dar spazio a chi racconta del mostro invisibile, dando spazio all’incertezza e a task force abbastanza improbabili.

   Se all’inizio era giusto fermarsi, adesso si è aperto un conflitto che non vogliono far vedere. Il conflitto tra le istituzioni nazionali e regionali, il conflitto politico tra vari scienziati che amano apparire in tv e i dottori che sul campo stanno iniziando a rilasciare verità terapeutiche efficaci, tra l’altro rivolgendosi non ai cosiddetta media nazionali. E infine il conflitto mediatico, portato avanti da editori assetati di visibilità e capaci di pubblicare notizie irreali e fantascientifiche e una comunità (piccola) di difensori della libertà di parola che ha dato voce a chi sul campo c’era.

   E in mezzo la crocifissione dei lavoratori autonomi.

   Il ritratto più triste di quest’epoca nefasta.

   In Italia ci sono due nemici da abbattere: il primo è di sicuro il virus. Ma il secondo è quella della cecità di chi sta al potere. Quello, se permettete, è un male ancora più pericoloso.

Aurélien Facente, maggio 2020

Coronavirus KR: Respirare un pochino di libertà vuol dire vivere

Il 4 maggio c’è stato un allentamento deciso nella quarantena imposta dallo Stato e dalla Regione per quanto riguarda l’emergenza Coronavirus. Il 4 maggio 2020 è stata una data liberatoria sotto certi aspetti. In fondo, la gente era confinata in casa, limitando la propria autonomia al minimo.

   Tutti pensano che la gente abiti in un appartamento uguale al proprio. È il classico errore di chi punta il dito. Il leggero “Rompete le righe” è diventato l’argomento dei social. Tutti a puntare il dito contro. Gente che s’improvvisa fotografa e pensa di far vedere quanto è stata brava nell’osservare le regole, salvo poi andare sul lungomare e fotografare gli altri, senza capire che la foto da sola può giocare effetti illusori. Chi usa lo smartphone non sempre capisce di prospettiva.

   E allora ecco l’esagerazione. Tanta gente. Sembrava la festa della Madonna.

   Beh, di gente ce n’era.

   Ma quando vedi che la stragrande maggioranza era con la mascherina, con i guanti, e tutti più o meno rispettosi della distanza di sicurezza. Sì, c’è stato qualche ingorgo. Piccoli errori non decisivi, però. Tutto frutto di uno sfogo dovuto alla clausura. Uno sfogo che andava liberato in qualche modo.

   Ed è importante psicologicamente se si vuole ristabilire un equilibrio con sé e con l’altro.

   Assembramenti? Non puoi evitare che le persone che si conoscono si salutino e si scambiano qualche parola. Ci sono state famiglie in giro? Sì, verissimo. Ma mica clan numerosi. Il fatto è che forse ci si è trovati ad impattarsi con una norma che impone l’uso della mascherina e della distanza per potersi rivedere dopo un po’ di tempo.

   E allora il lungomare è stato il luogo del ricominciare a vedersi.

   Ma c’erano anche i fidanzati. Verissimo. Ma con enorme discrezione.

   Uno sfogo di respiro dunque.

   Quand’è iniziata l’emergenza, c’è voluta una settimana buona per la gente ad abituarsi.

   Per capire le regole, bisogna esplorarne in qualche modo i confini. Altrimenti non ci si abitua.

   Si chiama umanità.

   Poi ci sono quelli che puntano il dito. Umani anche loro, ma che dimenticano che c’è gente che magari per 60 giorni circa ha visto solo l’androne di un cortile stretto, o peggio ancora un garage, o quattro mura di un appartamento da 60 metri quadri. Facile puntare il dito e lo smartphone per giudicare la coscienza altrui, quando in verità bisogna guardare la propria.

   I dati ufficiali parlano chiaro.

   Il territorio provinciale di Crotone, capoluogo compreso, ha avuto un numero basso di contagiati da Coronavirus. Certo, le vittime ci sono state. Ma la mortalità è stata nella norma. Per Coronavirus sono state sei. Però l’umanità deve guardare avanti.

   L’umanità vive. Non si ferma. È capace di sacrificarsi per il bene comune. E i crotonesi lo hanno fatto. Perché a livello di sanzioni, i numeri sono stati bassi. Il che vuol dire che la maggior parte ha fatto di tutto per osservare le regole.

   Però poi c’è il desiderio del sole, del colore, del mare, dell’aria, del sapore del mare. Per una città che si affaccia sul mar Ionio, è un elemento vitale almeno respirare quell’odor di mare, anche se si tratta di pochi minuti al giorno.

   Solo e semplice umanità.

   Una piccola esplosione di sentimento del tutto naturale.

   Le persone hanno semplicemente preso dimestichezza con i nuovi confini.

   Tant’è che oggi la circolazione a piedi è diminuita, quindi è ritornato tranquillamente il buonsenso.

   Il Commissario Prefettizio, con tutto il rispetto per la sua figura di responsabilità, avrebbe il dovere di mostrare un po’ più di umanità perché in fondo si è trattato solo di un piccolo respiro.

   Per quelli che puntano il dito. Beh, prima o poi qualcuno vi punterà il dito addosso. E alla fine resterete zitti, perché a quel punto non avrete argomentazioni. Invece del dito, usate il cervello e un po’ di cuore anche.

Aurélien Facente, maggio 2020

Coronavirus KR – La lettera di una mamma

Mi è arrivata stamane la lettera di una signora che ha in famiglia una persona affetta da autismo. L’ho letta con molta attenzione, e credo sia giusto trasmetterla per un solo e valido motivo: anche queste persone esistono, e vanno dunque ascoltate. Per questo concedo il mio spazio alla signora Angela che ha condiviso con me questo messaggio breve, ma che denuncia un chiaro concetto istituzionale: il diritto all’esistenza. Ci sono tante voci che non vengono ascoltate e che avrebbero bisogno di conforto, di qualche parola d’incoraggiamento. Sono le voci di persone che respirano, che hanno un battito nel cuore, che hanno diritto di avere puro e semplice rispetto. Ho letto la lettera della signora con molta attenzione. E perciò la trasmetto. Perché tutti possano leggere, sperando che la stessa possa in qualche modo essere trasmessa al Presidente Conte, con il solo intento di dirgli che anche queste persone meritano che il loro diritto di esistere sia considerato.

Aurélien Facente, aprile 2020

La Lettera di una mamma

   Terapie, giri, scuola e famiglia, la vita di un genitore con bisogni speciali, gira intorno alla disperata ricerca di una vita normale.

   Ma una mattina questa normalità viene a mancare, perché un virus nato in Cina, si è diffuso a macchia d’olio prima in tutta la stessa Cina e in seguito sul resto del pianeta, fermando tutto: il tempo, la vita e la speranza.

   La speranza di ogni genitore di dare una vita normale, migliore al proprio figlio.

   Tutto si è fermato lasciandoci soli ad aspettare, aspettare la fine della quarantena, con la speranza di non venire contagiati e con la ferma volontà di far vivere nel modo più sereno possibile tutto questo ai nostri figli.

   Non è semplice, perché in una mamma e papà, in un periodo storico come questo, si sono scatenate tante cose: la paura, la rabbia e una doppia preoccupazione per i nostri figli, doppia sì, perché chi ha un figlio autistico o con altre problematiche, oltre alla paura di vedere il proprio figlio sul letto di un ospedale, ha anche la paura che tutti i piccoli miglioramenti raggiunti cadano nel nulla.

   Ci siamo ritrovati ancora più soli, perché un bel giorno, ci è solo stato ordinato di stare a casa, senza pensare a cosa ci fosse dietro quella porta, così siamo stati semplicemente abbandonati a noi stessi e alle nostre lotte.

   Ogni giorno è una lotta, e l’unica cosa che ci è stata concessa è una passeggiata, per contenere gli stati aggressivi della patologia dei nostri figli.

   L’unica realtà che ci è venuta in soccorso è stata la Casa di Iulia, una ludoteca inclusiva, nata per volontà di un papà che voleva di più per la propria bambina, e ha allargato questa possibilità ad altri bambini con la stessa patologia della figlia o con altre problematiche; la Casa di Iulia ci ha accolti a braccia aperte e senza riserve, a differenza di altri centri che hanno addirittura definito i nostri figli  come dei mostri ingestibili, non pensando che loro sono i primi che soffrono e mettendo l’umanità e la sensibilità sotto la suola delle scarpe.

   La Casa di Iulia non lo ha fatto, ha accolto ogni bambino, non facendolo sentire un altro numero, un altro paziente, ma prendendosi a cuore quella creatura e creando per i genitori, una famiglia, perché ogni genitore è così che si sente, anche in questa circostanza, perché non hanno abbandonato nessuno, in virtù del fatto che ogni bambino ormai è diventato come un figlio, nipote, fratellino.

   La Casa di Iulia è una realtà che dovrebbe essere presa ad esempio da tanti centri e che dovrebbe crescere sempre di più, perché possa aiutare tanti altri bambini e famiglie.

Ci sono stati innumerevoli decreti, tanto che ormai la gente ironizzava sul fatto di aspettare una diretta del Presidente del Consiglio Conte all’orario di cena.

   Tutte queste dirette avevano un comune denominatore: la parola autismo non veniva mai pronunciata.

   Nessuno ha mai pensato a questi bambini e alle loro famiglie, che in questa circostanza sono diventati ancora più invisibili.

   L’Italia farà di tutto per rialzarsi, ma il lavoro più grosso lo faranno, come sempre, questi genitori per i propri figli, per vedere in loro qualche miglioramento e qualche sorriso che gli doni di nuovo la speranza, la speranza di un futuro meraviglioso per loro e la speranza che prima o poi lo stato si accorga di noi, con o senza Covid 19.

Angela Corace

Coronavirus KR: Volete essere umani o preferite essere sciacalli?

Nell’ultima settimana a Crotone ne sono successe di cose, di cui alcune molto brutte, che in una situazione di emergenza nazionale purtroppo fanno parte del bollettino giornaliero.

   Non voglio parlare di morti, di guariti, di contagiati, ma di come si sta comportando l’essere umano comune dinanzi a tutto questo.

   Se da una parte c’è un continuo bombardamento di notizie (tra l’altro con titoli a effetto che contribuiscono al panico delle persone), dall’altra non abbiamo un’organizzazione statale tale da garantire regole uguali e chiare (tanto che ogni giorno cambiano regolamenti) e soprattutto non garantisce nemmeno una comunicazione chiara, netta, sincera. E diciamoci la verità: va bene il bollettino di guerra, ma una parola dolce per chi sta dimostrando di rispettare le regole? Niente? Non esiste il rincuorarsi un po’?

   Certo, le priorità sarebbero altre.

   La prima priorità è combattere il Coronavirus. Giusto. Tutti in prima linea a cantare per i medici, gli infermieri e le tante forze dell’ordine che si sacrificano.

   Ma c’è un ma.

   Perché semmai lo avete dimenticato, è giusto ricordarlo.

   Ci sono le persone di tutti i giorni. Operatori di supermercato, fruttivendoli, macellai, pescivendoli, operai, camionisti, autisti, avvocati, e l’elenco continua per un bel po’. Ci sono anche i disoccupati e i senzatetto. Si chiama popolo, e ognuno ha le sue esigenze.

   Ma la critica qui non va al governo, che sta giocando una terribile partita a scacchi con il tempo e l’organizzazione (il processo si fa alla fine di questa brutta pagina storica, mai durante), ma con una piccola classifica di episodi che non vanno per niente bene.

   Cominciamo subito dal primo episodio: rimbalza la notizia di 300 operatori sanitari in malattia? Pane per i sciacalli dell’informazione, che subito ci costruisce la storia del secolo.

   Tutti poi a condannare, senza aspettare che la storia, seppur anomale, ha bisogno di chiarimenti. Al momento in cui si scrive è intervenuta la Procura, e le carte sono state acquisite dalla Guardia di Finanza. Lo Stato quindi funziona perché verifica, ma intanto quanto veleno addosso si è buttato e si butta in questa situazione?

   Ci scandalizziamo. Ci inorridiamo. Ma non sappiamo più aspettare, e come sciacalli ci nutriamo del cadavere che non c’è. Leggiamo la letterina che qualche operatore si fa pubblicare da qualche giornale, ma noi non vogliamo credere al fatto che dietro un camice bianco c’è un essere umano come noi.

   Non esiste l’eroe invincibile e imbattibile. Oddio, ci sarebbe. Ma si tratterebbe di una rarità. Il resto sono esseri umani che, per quanto condannati per ruolo professionali, saranno costretti a scendere in prima linea se servirà. E se succederà, vuol dire che nel territorio crotonese allora il controllo sul contagio è perso. E continueremo ad avvelenarci.

   Capita una barchetta di pochi migranti che attracca sulla passerella di Crotone. E vai con le foto e le parole di fuoco. Altro veleno. Dimentichiamo che sono esseri umani come noi, respirano come noi. Magari non avrebbero dovuto partire, ma intanto sono partiti. E noi sappiamo da dove scappano? Magari scappano da alcune raffiche di mitra dal loro paese di origine. Però non lo vogliamo accettare. E diventiamo sciacalli.

   Poi ci sono le amicizie che si spezzano inevitabilmente. Oggi si spezzano via social, perché nel proprio profilo tutti devono apparire forti e invincibili. Quando sarebbe meglio ammettere la propria fragilità davanti a qualcosa che non possiamo vedere, né toccare. Ripetiamo tutti bravi nel dire che dobbiamo stare a casa.

   Ma nessuno ha la forza di fare i conti con se stesso.

   Si condanna la persona che va a piedi a fare la spesa, o solo perché fa uscire il cane, e si allontana il giusto per non sporcare il marciapiede. E allora qualcuno ti scrive anche che faresti meglio a uccidere il cane.

   E devi sopportarlo. Anzi, devi proprio fregartene.

   Tu devi stare a casa e devi stare zitto.

   Noi possiamo fare ironia.

   Tu no.

   Anzi, devi metterti a piangere come noi. Devi sentirti prigioniero come noi. Devi sentirti debole come noi, devi essere sciacallo come noi.

   La mia risposta è no.

   Preferisco essere umano. Continuare ad apparire in video ogni giorno e più volte al giorno. So che non piace, ma se la mia presenza rincuora qualcuno e lo spinge a fare meglio nel proprio piccolo allora so che si tratta di un pezzo di umanità che si rimette in funzione. Perché io so che ci sono persone che stanno peggio di me e non sanno a chi rivolgersi anche solo per un bicchiere di acqua. Voi non li vedere, non li sentite, perché in fondo chi è debole si vergogna a volte di chiedere aiuto. Perché sa che in questo mondo di sciacalli tutti punterebbero il dito contro il più debole, anche solo per vederlo piangere. Già, perché condannare il debole vi rende più puri e più forti. All’apparenza, visto che siete chiusi in casa a puntare il dito.

   E così vi comportate da sciacalli.

   Quando in verità dovreste ammettere la vostra umanità.

   La rabbia può servire, ma l’odio no.

   Ognuno di noi legge la paura a modo suo.

   Chi crede di essere forte, non ammetterà mai di essere fragile. Anzi, la fragilità fa orrore. E quando ti fa orrore, la verità è che tu stai vedendo in faccia la fragilità, e ti si piazza davanti il prezzo che serve perché tal fragilità diventi un punto di forza.

   Non c’è nulla di male nell’ammettere di essere fragili.

   Ma lo sciacallo non l’ammetterà mai, e perciò trasmette il suo veleno, contagiando anche gli altri. Altro che Coronavirus.

   Mi dispiace, cari sciacalli.

   Preferisco essere umano. Preferisco provare a capire. Preferisco riconoscere che nell’altro, anche se ha una divisa, ci sia dell’umanità, e che come me può avere attimi di fragilità. Gli parlo da umano e basta se serve a rincuorarlo.

   Non punterò mai il dito addosso ad un altro come me solo perché si rivela nella sua fragilità. Gli dirò sempre: “Reagisci.”

   Perché c’è un momento in cui bisogna reagire alla paura.

   Perché quella stessa paura, se non l’affronti, ti farà diventare uno sciacallo.

   Ecco perché ogni giorno la mia miglior vendetta è quella di vivere bene. Magari con poco, ma vivo bene ugualmente.

Aurélien Facente, marzo 2020

Coronavirus KR: Il funerale silenzioso

E. Manet . Le esequie di Baudelaire

21 marzo 2020. Un giorno grigio di una primavera che oggi non vuole arrivare. Primo pomeriggio del tredicesimo giorno di quarantena imposto dallo Stato per prevenire l’emergenza del Coronavirus.

   Giornate di odio si susseguono sui social. In fondo, a Crotone, non sono tutti lettori di libri o fumetti o patiti di cinema. Oltre al pallone, gli argomenti su cui confrontarsi diventano scarsi. Non offendetevi, amici e concittadini. Purtroppo nel DNA abbiamo abitudini contraddittorie. Un puro fatto culturale e antropologico. E con ciò non vuol dire che non ci siano bravi crotonesi.

   Tutt’altro. Collaborazione, cortesia, solidarietà. Questi sono elementi giganteschi che sono protagonisti giorno dopo giorno in un ruolo d’incertezza.

   Purtroppo sono i social che sono diventati un luogo di scambio di paure, insicurezze, psicosi. Perché la quarantena non rientra nelle abitudini di nessuno, e ognuno fa quello che può, in attesa che la catena si allenti.

   Stare a casa. Già. Come se fosse facile. Eppure uno va a comprarsi da mangiare, e se bada a qualcuno deve fare la spesa ogni giorno. Senza contare le medicine che possono servire. E vogliamo parlare dell’acqua, dei detersivi, di tutto ciò che serve per disinfettare il proprio ambiente. E poi c’è la decisione di non approfittarsi di un servizio come quello delle consegne. Perché sai che c’è qualcuno che realmente non può muoversi. E ha bisogno. E allora la fai l’uscita, ma sai di essere legato ad un guinzaglio.

   Non sono giorni belli. Neanche per i cani, che anche loro sono nervosi perché vivono la nostra libertà. E c’è l’uscita quotidiana.

   Ho imparato a osservare le piccole cose nell’isolato in cui mi posso muovere senza incappare in qualche sanzione. Bisogna essere forti mentalmente, come quel tipo del film “Le Ali della Libertà” che con una sola forchetta per venti anni ha scavato un buco per uscire da quel carcere dov’era stato ingabbiato ingiustamente. Certo, mi dirà qualcuno. Si tratta di un film. Ma la realtà è più di un film, soprattutto quando l’incertezza è dietro l’angolo da molti giorni.

   Scendo, scelgo l’incrocio e incappo in un funerale.

   Oggi si parla di tante vittime del Covid-19, ma nessuno parla dei funerali.

   Perché si continua a morire di altro. Non esiste solo il coronavirus.

   Il funerale di una signora.

   La macchina presente in attesa della salma.

   Poca gente, tutta distanziata, per un saluto silenzioso.

   In questo periodo a nessuno è permesso di avere un funerale religioso.

   Si viene caricati in macchina, e basta. Subito al cimitero.

   Un funerale silenzioso.

   Questa è una delle tante storie che non vi racconteranno. Perché è facile raccontare del bollettino dei morti. Ma nessuno vi racconta che l’ultimo addio è devastante. Perché magari si tratta di un tuo caro che non può nemmeno essere salutato come si fa abitualmente. Una carezza sulla bara. Un abbraccio. Un saluto da vicino. La messa di un sacerdote. L’odore di una chiesa, che è la casa che accoglie i fedeli. Questo oggi non c’è.

   E allora, nonostante cerchi di andare avanti, ti accorgi dello strano silenzio, dell’addio più silenzioso. Il sangue può solo raggelarsi, perché il funerale dovrebbe essere il più dolce degli arrivederci per poi portare dentro di sé il ricordo del proprio caro.

   Oggi è solo un freddo silenzio.

   Un freddo silenzio di un primo giorno di primavera abbastanza grigio.

Aurélien Facente, 21 marzo 2020

Coronavirus KR: Caro Giuseppe Conte…

Oggi è il 17 marzo 2020. In realtà volevo scrivere a Lei, Avv. Giuseppe Conte, Attuale Presidente del Consiglio italiano, già qualche giorno fa. Ma ho preferito aspettare, perché di lettere aperte ne avrà lette migliaia in questi giorni, molte pubblicate sui giornali.

   Può darsi che un giorno capiterà di trovarsi casualmente a leggere la mia, piccola e insignificante vista la situazione, lettera che le ho voluto scrivere.

   Mi sono preso il tempo di scriverla, senza farmi condizionare da nessun sentimento di rabbia e di paura, che attualmente sono i primi nemici dopo il Coronavirus. Nemici che ognuno di noi deve saper tenere sotto controllo.

   Inizio questa mia lettera con la foto, presa da uno Smartphone, che le farà vedere un tramonto urbano. Ebbene, quello è il tramonto dalle parti di casa mia. Vedo quella scena da 25 anni ormai, e il bello è che il sole tramonta alle spalle della chiesa, San Domenico per essere precisi, dando l’impressione che il sole vada ad accasarsi nella casa del Signore. Una scena suggestiva che sto cercando di rendere ovviamente poetica, senza nessun pregiudizio per chi crede o non crede. Però ho la fortuna di godere giorno dopo giorno di un’immagine simile.

   Purtroppo, ahimé, non tutti possono godere di cotanta bellezza, vista la quarantena imposta per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus.

   In pochi giorni, e Lei lo sa bene caro Presidente, abbiamo tutti dovuto cambiare drasticamente le abitudini. Qualcuno c’è arrivato prima, qualcun altro dopo. Ma nel giro di qualche giorno, diciamo, che l’equilibrio si è costruito e si sta mantenendo, almeno per ora.

   Perché il sacrificio è enorme, ma in linea di massima seguiamo le istruzioni. Lavarsi le mani, usare i guanti, mantenere le distanze, mantenere la fila (anch’essa a distanza), si cerca di uscire il meno possibile. Questi progressi sono stati fatti.

   Poi ci sono i però.

   La motivata paura delle persone, la non immediata reattività, il fatto di trovarsi perennemente su una linea di confine, neanche il tempo di imparare per bene le nuove regole. E queste cambiano spesso, a quanto apprendo dalle tante testate.

   Sia chiaro. Non voglio rimproverarla per il tremendo lavoro che sta facendo in questi oscuri giorni, Giuseppe. La capisco. Lei cerca di tenere dritta la barra di un timone molto fragile in questo momento, perciò Lei, da buon capitano da crociera, sta richiamando tutto l’equipaggio all’ordine. E cerca di farlo senza perdere la calma, perché siamo in piena tempesta.

   Già, Quel nemico invisibile che si chiama Coronavirus ci è piombato in fretta. E lo so che fa paura. Lo vedo negli occhi di chi cerca di mantenere l’ordine. Poliziotti e carabinieri che devono mettere da parte la loro umanità, e non hanno avuto il tempo di recepire bene le informazioni, anche se il loro impegno è massimo.

   La stessa cosa vale per i pompieri e per tutti quegli operatori che sono in mezzo alla strada cercando la via della logica.

   Il Coronavirus e il Caos. Due perfetti alleati in questo tempo sempre più buio abbattono le certezze di chiunque.

   Signor Presidente, a nessuno piace ammettere la propria fragilità. Siamo in una società dove conta solo il più forte, dove conta saper dimostrare di essere forti senza pietà. Una pura e mera illusione, perché il Coronavirus colpisce subdolamente, senza avere pietà. Fa solo quello che la sua natura impone. E non c’è da chiedersi perché.

   Non adesso che non abbiamo una narrazione certa della malattia. Ora si lotta contro il tempo, e sembra che questo ci condanni. No, signor Presidente, non siamo condannati dal tempo. Siamo condannati a renderci conto della nostra fragilità.

   Vede, io mi considero un privilegiato. Ho piccoli spazi di libertà durante la giornata. Le assicuro che nei miei brevi viaggi a piedi verso un supermercato, verso la banca, girando un po’ l’isolato con il cane… Già, mi sento un privilegiato perché assaporo il tempo, pur sapendo che il nemico potrebbe colpirmi.

   E prendo momenti da poter trasmettere agli altri quando posso. Pezzi di colore perché gli altri, che le assicuro restano ben chiusi in casa, hanno bisogno per tener duro. Non basta solo essere sintonizzati sul web o in televisione. Ci vogliono segnali di vita pura e semplice, perché trasmettere quei segnali portano forza nelle persone.

   Io non so se Lei potrà sapere della domenica di Crotone. Della prima domenica della quarantena.

   Solo silenzio. Giusto qualche auto. Sì, perché lei non lo sa ma qui abbiamo una comunità fatta di persone anziane da tutelare, ma anche di malati ad un passo dalla morte, e non per il Coronavirus. Crotone è una città che è stata maltrattata da un inquinamento selvaggio a causa delle industrie, ormai dismesse da più di vent’anni, ma ancora con scheletri presenti.

   Qui lo conosciamo un nemico subdolo e invisibile. Lo chiamano Tumore.

   Perciò, Presidente, tenga conto dei crotonesi. O i krotoniati. Ne tenga conto.

   Perché, a parte qualche grosso vocione, ognuno di noi fa il meglio che può.

   In una settimana, ad esempio, si sono organizzate tante microcomunità per organizzarsi meglio. Un esempio: uno va al supermercato per sapere se c’è l’alcol verde, e se non c’è lo dice agli altri. In altri casi ci si raccomanda di prendere poche cose per velocizzare la fila. Per non intasare. Per facilitare il lavoro del supermercato.

   Poi magari esci più volte. Capita. Non per passare il tempo. Assolutamente no. Dove vuoi passare il tempo a Crotone, se tutte le attività di ristorazione, di somministrazione, cinema, teatro e librerie sono chiuse?

   Non varrebbe nemmeno la pena di farsi un giro. Perché Crotone è già una città dove hanno chiuso ben altre cose, oltre al lavoro.

   Perciò forse abbiamo buon senso di fare le cose per bene.

   Perché il prezzo dei morti lo conosciamo bene.

   Perché il prezzo di chi è andato via per un futuro migliore lo conosciamo bene.

   E io, che son rimasto come tanti, lo sentiamo il vuoto di una casa vuota, senza persone.

   Però, nella prima domenica di quarantena, qualcosa s’è ascoltato.

   Un balcone con bambini che giocano. Qualcuno che canta. Qualcuno che suona. Un po’ di musica ad alto volume. La voglia di ritornare a essere vivi.

   Sono cose che ti fanno sorridere perché ti aiutano ad avere speranza.

   Vedo e ascolto.

   Sono abituato a farlo. Avrei la tentazione di prendere la mia macchina fotografica e fare un ritratto a tutte queste piccole storie belle. Ma non posso. Perché rispetto il tempo concesso della mia microlibertà. E allora mi limito soltanto ad ascoltare, e a pensare che questi sono momenti che almeno vanno scritti.

   C’è la voglia di essere migliori.

   Perciò, caro Giuseppe Conte, quando tutto sarà finito si prenda il tempo di leggere questa mia piccola lettera aperta, se mai ne avrà l’occasione. E magari la legga anche a chi istituzionalmente le è vicino.

   Noi non siamo numeri, signor Presidente.

   Siamo persone, ognuna con una sua storia e con una propria dignità.

   Non rivendichiamo il folle diritto di fare ciò che vogliamo. No. Rivendichiamo il diritto all’esistenza. Perciò quando sarà tutto finito, non pensi soltanto a circondarsi di linguaggi istituzionali, ma si faccia anche circondare da linguaggi molto umani.

   Facciamo il tifo per la vita.

   Con profondo rispetto.

Aurélien Facente, 17 marzo 2020

Il vero amore ai tempi del Coronavirus

Foto di Aurélien Facente

Crotone. Mattina. Primo giorno della chiusura delle scuola per l’emergenza coronavirus. Vedere le scuole vuote in una calda mattinata invernale è desolante, poco rassicurante. Ascoltare il vocio dei bambini è sempre un buon segnale di vita. Stamattina questo vocio non c’è. Cammino per la città di Crotone, non raggiunta dal virus, cercando di non farmi condizionare dalle voci sull’apocalisse.

   In Italia il giornalismo ufficiale cerca il sensazionalismo. Si cerca di arrivare per primi, senza preoccuparsi dei danni. È sempre meglio buttare veleno su veleno.

   Io non nego l’esistenza del virus. Assolutamente no. Lo so che la natura ogni tanto fa nascere qualcosa di più fastidioso, di più difficile da affrontare.

   Mi dà fastidio l’informazione disfattista, come se fosse normale arrendersi e piegarsi ad un nemico invisibile che ti mangerà in ogni caso.

   Curatevi, signori della comunicazione.

   Io non sono sconfitto. Non mi piegherò alla paura. Il male c’è? Okay. Bisogna conviverci? Okay. Ma c’è modo e modo di affrontarlo.

   Prima di tornare a casa si va al supermercato. La spesa quotidiana. Poca gente all’una meno un quarto. Normale. Le scuole sono chiuse. I genitori non si precipitano per fare la spesa. In realtà non si vede il classico supermercato dell’ora di punta.

   Poca gente. Silenzio. Guardi i prodotti in silenzio. Guardi la lista della spesa. Olio, pane, uova, sapone, zucchero, sale, e altro. Poi nel silenzio ascolti una voce.

   La voce di una bambina. Si lamenta con la mamma. Non è andata a scuola.

   “Perché il governo ha deciso così. Non posso farci nulla, cara.”

   “Ma mamma… Non è giusto… Non posso vedere i miei amici…”

   È inevitabile essere indiscreti, pur apparendo indifferenti.

   Però la vita è fatta di momenti che vanno osservati, o forse è meglio dire che vanno ascoltati. Mentre mi avventuravo per il supermercato, ascoltavo le paure della bambina che si poneva delle domande. La mamma non sapeva che cosa rispondere. Siamo, effettivamente, in una situazione del tutto inedita, e perciò tutti, anche il meno istruito, ci facciamo delle domande.

   Gli adulti si pongono ben più problemi dei bambini. È assodato. Poi in un’Italia come la nostra, tendiamo a dimenticare che forse è meglio pensare di stare bene, di trovare una sorta di armonia. Dovremmo ricordarci di essere stati bambini. Una lezione, questa, scritta da Saint-Exupéry nel celebre libro “Il Piccolo Principe”.

   La bambina è piena di energia, di vitalità, di ricerca della gioia. È il suo parlare è contagioso. Una bambina di sei anni forse, o qualcosa di più. O forse è più piccola, e dimostra di essere più adulta.

   “Mamma, ma è vero che il governo ha detto che non ci possiamo abbracciare?”

   Già. Evitare il contatto. Una misura precauzionale per provare a evitare il contagio.

   La mamma oserà rispondere qualcosa? Alimenterà la paura della figlia, facendole credere che il contagio passa attraverso il contatto umano? Come può un governo, con i media invadenti, pretendere una cosa del genere?

   La mamma non risponde. Si limita soltanto ad abbracciare la figlia calorosamente. Un abbraccio che non ha bisogno di altre parole.

   Viviamo tutti un incubo delirante, ma possiamo combatterlo.

   I bambini ce lo ricordano.

   Una mamma non negherà mai il proprio abbraccio al figlio che ha paura.

   Il figlio correrà sempre verso di lei.

   E quest’amore potrebbe essere la chiave per combattere il coronavirus.

   Il vero amore combatte la paura.

   Mi allontano. Mi ricordo, un po’ di tempo fa, che ero nelle vicinanze della spiaggia di Crotone. Una giornata grigia. Vicino la passerella esattamente. In lontananza una mamma e suo figlio. Il bambino corre sulla spiaggia, e poi torna dalla mamma, cercando proprio l’abbraccio.

   Sono proprio questi momenti che combattono, e sconfiggono, l’oscurità dell’incertezza.

Aurélien Facente, marzo 2020