Coronavirus KR – Ora è il tempo di essere tutti un po’ come San Giuseppe

Crotone. Quarantena giorno 11. È il 19 marzo. Il sole sta splendendo, ogni tanto accompagnato da un vento fresco. La situazione è di perenne attesa. Siamo tutti in libertà pressoché vigilata, se così si può definire.

   Perché c’è un Coronavirus che si aggira ben invisibile e nascosto. Ogni giorno c’è una conta di morti. Un bollettino che coinvolgerà tutta Italia ormai.

   Ma oggi è anche San Giuseppe, il giorno della festa del papà.

   Ricordo mio papà, Alfredo. Oggi non c’è più. Non posso nemmeno portargli un fiore al cimitero, ma credo che comprenderà. Anzi, forse nemmeno lo avrebbe voluto, conoscendolo.

   Di lui ho parlato anche in altre occasioni.

   Oggi è di San Giuseppe che voglio parlare, conosciuto come l’uomo che ha allevato Gesù per farlo diventare un uomo.

   Non è di religione che voglio parlare.

   Ma solo di provare a capire che bisogna scorporare il Santo da quello che realmente rappresenta. Non si tratta di una bestemmia, perché San Giuseppe è un simbolo che forse non riusciamo o non vogliamo vedere per quello che è, ovvero un uomo che ha scelto di essere padre e di portarne fino alla fine la missione.

   Oggi che cosa vuol dire essere padre?

   Mettere al mondo un bambino e lasciare che cresca da solo, perché può cavarsela da solo?

   Certo, esiste il padre superficiale.

   Poi c’è il padre divorziato, o separato, che il più delle volte è costretto a vedere i figli per qualche giorno la settimana, se gli va bene.

   Ma c’è anche il padre violento, ed esiste perché non ha voluto essere come San Giuseppe.

   E infine c’è papà vero, quello che ti prende per mano e che non si fa sconfiggere dalle avversità dell’esistenza. Il papà vero che ti rimprovera quando sbagli, ma è capace di abbracciarti se tu fai qualcosa di giusto.

   Ma San Giuseppe era altro, ben altro.

   Ha preso per mano suo Figlio prima che nascesse, proteggendolo quando serviva, e facendolo nascere in una calda stalla. Noi abbiamo l’immagine della Sacra Famiglia ben impressa nel nostro presepe. Ma è solo un’immagine.

   Non esiste il papà perfetto, o almeno esiste solo quando il papà non ha paura di definirsi umano, perché solo essendo uomo può dare un esempio ai suoi figli.

   In fondo, San Giuseppe non si era mai mostrato come un guerriero invincibile. Era un semplice falegname, e così è rimasto.

   Purtroppo non abbiamo tante testimonianze scritte sul suo rapporto con il Figlio. Ma sappiamo che è stato fondamentale. Perché lo ha protetto da un mondo cattivo, ma lo ha anche incoraggiato a crescere perché potesse diventare Uomo.

   Vale lo stesso discorso per la donna. Un papà è un papà sia per un maschio che per una femmina.

   Oggi è il giorno dei papà.

   È giusto che ci sia, ed è giusto ricordare.

   Un pensiero va a quelli che non hanno avuto forse un papà adatto. Esistono anche loro, e non bisogna puntar loro il dito contro se non hanno avuto un papà vero.

   Essere papà è prima di tutto una scelta di responsabilità.

   E chi l’abbraccia in pieno, allora acquisisce una grande forza, perché il papà si permette di compiere gesti che senza un figlio non compierebbe mai.

   Il papà può essere tutto.

   Ma sta a lui scegliere di assumersi la responsabilità.

   Scrivo quest’articolo, dedicandolo a tutti i papà che in questo momento storico non possono stare vicino ai loro figli.

   Abbiate pazienza. Siate come San Giuseppe, quando si prese cura del bimbo quando era in grembo. Perché la presenza non deve solo essere fisica, ma deve essere anche rappresentata dalla volontà di parlare con ogni vostro figlio.

   Tanti auguri, cari papà.

Aurélien Facente, 19 marzo 2020

Coronavirus KR: Qui Londra

Quando è iniziata l’emergenza, in una diretta Facebook, ho pregato di mandarmi delle testimonianze, racconti, materiale fotografico con i quali condividere e classificare una serie di resoconti sull’impatto sociale che l’emergenza Coronavirus sta avendo in Italia e non solo. Le foto che seguiranno vi faranno capire in sequenza quello che sta avvenendo a Londra, da dove sta operando un mio “inviato” che qui si firmerà come Sirdomek, che per questioni di privacy preferisce firmarsi con un nickname. Le foto che seguiranno sono dunque di Sirdomek.

In questa prima foto potete vedere un attimo di vita di Londra, una foto comune fatta da cellulare, ed è uno scatto abbastanza comune. Siamo nel mese di febbraio. La foto è datata appena dopo le regionali avvenute in Calabria. Fin qui nulla di strano.

Poi da noi inizia l’emergenza Coronavirus. Noi italiani ci ritroviamo prigionieri delle restrizioni per causa maggione, ma nel frattempo a Londra (e in Inghilterra), senza passare dalle restrizioni nostre, si adegua subito alla sua emergenza.

La serie di foto che vedrete adesso sono state scattate in posti abitualmente frequentati di Londra. Sirdomek abita in centro a Londra, perciò lui stesso, italiano, si è stupito della prontezza del popolo inglese a prepararsi al piano d’emergenza.

Notato nulla? Se ci fate caso, manca la gente. Le foto sono state prese in diversi momenti della giornata, in vie sostanzialmente frequentate da tanta gente. Ricordatevi che Londra è una delle città capitali che si possono definire metropoli, essendo che ci abitano quasi nove milioni di persone (un’enormità quindi).

Tutte queste foto vi fanno notare che subito il popolo londinese si è adattato. Di solito sono affollatissime di gente, ma stavolta si esce solo il necessario, senza aspettare gli ordini del Primo Ministro inglese, Boris Johnson, che ha fatto capire direttamente di voler agire anche in termini “estremi” in rapporto alla pandemia del Coronavirus. Ma prima che si pronunciasse, già gli inglesi si sono adeguati volontariamente, aspettando in qualche modo il nemico invisibile.

Perché vi mostro questo primo reportage fotografico?

Sirdomek è un italiano del Sud che vive a Londra, e mi ha rilasciato altro materiale che pubblicherò sotto un’altra forma, appena le acque, diciamo, si calmeranno un po’. E naturalmente gli auguro ovviamente tutto il meglio e lo ringrazio per l’apporto che sta dando.

Rispondiamo però alla domanda.

In Inghilterra sono abituati a fare simulazioni di catastrofi sin dall’età scolastica, perciò in età adulta si comportano di conseguenza, preparandosi al peggio e senza aspettare gli ordini della politica. La consapevolezza rende migliore l’organizzazione, e stiamo parlando di un popolo che è abituato, nonostante i difetti, ad affrontare le emergenze a viso aperto, e senza discutere più di tanto.

Il traffico a Londra in questi giorni è molto meno caotico, e la gente circola solo il giusto, ossia per acquistare provviste principalmente, forse cinque minuti d’aria, e ovviamente per sbrigare faccende burocratiche che toccano anche a noi.

Qui in Italia non siamo abituati all’emergenza, perché sin dalle scuole non impariamo che cos’è una situazione d’emergenza. La Calabria è una terra sismica, e nelle scuole sarebbe doveroso impartire lezioni di comportamento in caso di catastrofe. Perché questo tipo di lezione impara a organizzarsi nei momenti in cui è necessario, e salverebbe tante vite.

Gli italiani, per quanto possa essere storicamente un vero popolo quando serve, devono ripensare la prevenzione, partendo proprio dalle scuole. Perché, mai come adesso, bisogna ripensare culturalmente il nostro sistema, prima di darci delle istruzioni politiche ed economiche.

Testo di Aurélien Facente, marzo 2020

Foto di Sirdomek, 2020

Coronavirus KR: Caro Giuseppe Conte…

Oggi è il 17 marzo 2020. In realtà volevo scrivere a Lei, Avv. Giuseppe Conte, Attuale Presidente del Consiglio italiano, già qualche giorno fa. Ma ho preferito aspettare, perché di lettere aperte ne avrà lette migliaia in questi giorni, molte pubblicate sui giornali.

   Può darsi che un giorno capiterà di trovarsi casualmente a leggere la mia, piccola e insignificante vista la situazione, lettera che le ho voluto scrivere.

   Mi sono preso il tempo di scriverla, senza farmi condizionare da nessun sentimento di rabbia e di paura, che attualmente sono i primi nemici dopo il Coronavirus. Nemici che ognuno di noi deve saper tenere sotto controllo.

   Inizio questa mia lettera con la foto, presa da uno Smartphone, che le farà vedere un tramonto urbano. Ebbene, quello è il tramonto dalle parti di casa mia. Vedo quella scena da 25 anni ormai, e il bello è che il sole tramonta alle spalle della chiesa, San Domenico per essere precisi, dando l’impressione che il sole vada ad accasarsi nella casa del Signore. Una scena suggestiva che sto cercando di rendere ovviamente poetica, senza nessun pregiudizio per chi crede o non crede. Però ho la fortuna di godere giorno dopo giorno di un’immagine simile.

   Purtroppo, ahimé, non tutti possono godere di cotanta bellezza, vista la quarantena imposta per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus.

   In pochi giorni, e Lei lo sa bene caro Presidente, abbiamo tutti dovuto cambiare drasticamente le abitudini. Qualcuno c’è arrivato prima, qualcun altro dopo. Ma nel giro di qualche giorno, diciamo, che l’equilibrio si è costruito e si sta mantenendo, almeno per ora.

   Perché il sacrificio è enorme, ma in linea di massima seguiamo le istruzioni. Lavarsi le mani, usare i guanti, mantenere le distanze, mantenere la fila (anch’essa a distanza), si cerca di uscire il meno possibile. Questi progressi sono stati fatti.

   Poi ci sono i però.

   La motivata paura delle persone, la non immediata reattività, il fatto di trovarsi perennemente su una linea di confine, neanche il tempo di imparare per bene le nuove regole. E queste cambiano spesso, a quanto apprendo dalle tante testate.

   Sia chiaro. Non voglio rimproverarla per il tremendo lavoro che sta facendo in questi oscuri giorni, Giuseppe. La capisco. Lei cerca di tenere dritta la barra di un timone molto fragile in questo momento, perciò Lei, da buon capitano da crociera, sta richiamando tutto l’equipaggio all’ordine. E cerca di farlo senza perdere la calma, perché siamo in piena tempesta.

   Già, Quel nemico invisibile che si chiama Coronavirus ci è piombato in fretta. E lo so che fa paura. Lo vedo negli occhi di chi cerca di mantenere l’ordine. Poliziotti e carabinieri che devono mettere da parte la loro umanità, e non hanno avuto il tempo di recepire bene le informazioni, anche se il loro impegno è massimo.

   La stessa cosa vale per i pompieri e per tutti quegli operatori che sono in mezzo alla strada cercando la via della logica.

   Il Coronavirus e il Caos. Due perfetti alleati in questo tempo sempre più buio abbattono le certezze di chiunque.

   Signor Presidente, a nessuno piace ammettere la propria fragilità. Siamo in una società dove conta solo il più forte, dove conta saper dimostrare di essere forti senza pietà. Una pura e mera illusione, perché il Coronavirus colpisce subdolamente, senza avere pietà. Fa solo quello che la sua natura impone. E non c’è da chiedersi perché.

   Non adesso che non abbiamo una narrazione certa della malattia. Ora si lotta contro il tempo, e sembra che questo ci condanni. No, signor Presidente, non siamo condannati dal tempo. Siamo condannati a renderci conto della nostra fragilità.

   Vede, io mi considero un privilegiato. Ho piccoli spazi di libertà durante la giornata. Le assicuro che nei miei brevi viaggi a piedi verso un supermercato, verso la banca, girando un po’ l’isolato con il cane… Già, mi sento un privilegiato perché assaporo il tempo, pur sapendo che il nemico potrebbe colpirmi.

   E prendo momenti da poter trasmettere agli altri quando posso. Pezzi di colore perché gli altri, che le assicuro restano ben chiusi in casa, hanno bisogno per tener duro. Non basta solo essere sintonizzati sul web o in televisione. Ci vogliono segnali di vita pura e semplice, perché trasmettere quei segnali portano forza nelle persone.

   Io non so se Lei potrà sapere della domenica di Crotone. Della prima domenica della quarantena.

   Solo silenzio. Giusto qualche auto. Sì, perché lei non lo sa ma qui abbiamo una comunità fatta di persone anziane da tutelare, ma anche di malati ad un passo dalla morte, e non per il Coronavirus. Crotone è una città che è stata maltrattata da un inquinamento selvaggio a causa delle industrie, ormai dismesse da più di vent’anni, ma ancora con scheletri presenti.

   Qui lo conosciamo un nemico subdolo e invisibile. Lo chiamano Tumore.

   Perciò, Presidente, tenga conto dei crotonesi. O i krotoniati. Ne tenga conto.

   Perché, a parte qualche grosso vocione, ognuno di noi fa il meglio che può.

   In una settimana, ad esempio, si sono organizzate tante microcomunità per organizzarsi meglio. Un esempio: uno va al supermercato per sapere se c’è l’alcol verde, e se non c’è lo dice agli altri. In altri casi ci si raccomanda di prendere poche cose per velocizzare la fila. Per non intasare. Per facilitare il lavoro del supermercato.

   Poi magari esci più volte. Capita. Non per passare il tempo. Assolutamente no. Dove vuoi passare il tempo a Crotone, se tutte le attività di ristorazione, di somministrazione, cinema, teatro e librerie sono chiuse?

   Non varrebbe nemmeno la pena di farsi un giro. Perché Crotone è già una città dove hanno chiuso ben altre cose, oltre al lavoro.

   Perciò forse abbiamo buon senso di fare le cose per bene.

   Perché il prezzo dei morti lo conosciamo bene.

   Perché il prezzo di chi è andato via per un futuro migliore lo conosciamo bene.

   E io, che son rimasto come tanti, lo sentiamo il vuoto di una casa vuota, senza persone.

   Però, nella prima domenica di quarantena, qualcosa s’è ascoltato.

   Un balcone con bambini che giocano. Qualcuno che canta. Qualcuno che suona. Un po’ di musica ad alto volume. La voglia di ritornare a essere vivi.

   Sono cose che ti fanno sorridere perché ti aiutano ad avere speranza.

   Vedo e ascolto.

   Sono abituato a farlo. Avrei la tentazione di prendere la mia macchina fotografica e fare un ritratto a tutte queste piccole storie belle. Ma non posso. Perché rispetto il tempo concesso della mia microlibertà. E allora mi limito soltanto ad ascoltare, e a pensare che questi sono momenti che almeno vanno scritti.

   C’è la voglia di essere migliori.

   Perciò, caro Giuseppe Conte, quando tutto sarà finito si prenda il tempo di leggere questa mia piccola lettera aperta, se mai ne avrà l’occasione. E magari la legga anche a chi istituzionalmente le è vicino.

   Noi non siamo numeri, signor Presidente.

   Siamo persone, ognuna con una sua storia e con una propria dignità.

   Non rivendichiamo il folle diritto di fare ciò che vogliamo. No. Rivendichiamo il diritto all’esistenza. Perciò quando sarà tutto finito, non pensi soltanto a circondarsi di linguaggi istituzionali, ma si faccia anche circondare da linguaggi molto umani.

   Facciamo il tifo per la vita.

   Con profondo rispetto.

Aurélien Facente, 17 marzo 2020

Coronavirus KR – La paura di un nemico invisibile

   Crotone, 11 marzo 2020, ore 1.56 del mattino

   Non credo di essere il solo ad avere problemi di sonno.

   Sono a casa. Scrivo. Ci provo.

   Il governo italiano dice che ci deve proteggere, e ci intima di stare dentro casa.

   Perché c’è un nemico che si chiama Coronavirus, o Covid-19 se vogliamo essere più tecnici.

   Dopo una breve pausa, riprendo con naturalezza a scrivere.

   Sono un blogger. Devo lasciare una traccia, una testimonianza, un qualcosa che possa darmi sollievo in questa notte silente.

   Ascolto mia madre dormire.

   Anche il mio cane dorme.

   Io no.

   Sono l’uomo di casa.

   Devo restare vigile. Avrò tempo di riposare. Sono abituato a dormire poco. Voglio essere sicuro che tutto sia a posto. Sono un guardiano ormai. Papà, dovunque sia adesso, mi ha lasciato l’eredità di una responsabilità.

   E non posso permettermi di avere paura.

   Mia madre ha paura. Il mio cane avverte la paura.

   Non è una situazione bella. Tempi duri, mi direbbe qualcuno. Già. Sono tempi duri. Ma non mi piego. Perché se mi piego, il male potrebbe approfittarne.

   Io so che è invisibile, piccolo, tremendamente minaccioso, che potrebbe bussarmi da un momento all’altro. Ma non posso permettermi di avere paura. Devo essere forte per mia madre. Devo essere forte perché c’è gente che sta peggio di me, molto peggio di me che magari sta combattendo per la sua seconda possibilità. E anche se dal canto mio potrei starmene comodo a casa a leggere, purtroppo non posso fare a meno di reagire per conto mio.

   Ho un’altra maledizione. Sono diabetico. Per me è importante muovermi. Vitale. Stare troppo fermo mi fa male. Mi alza la glicemia, e mi danneggia.

   Crotone è diventata una zona rossa. Viviamo la quarantena.

   Grazie, Coronavirus.

   Ti ringrazio con tutto il cuore.

   Già ho il diabete che mi ha regalato dei limiti prestabiliti, e prima di esso c’è la celiachia. Sai, quell’intolleranza che non ti permette di mangiare una pizza, un pane, un pasticcino. Cose che ho conosciuto in avanzata età adulta per stare con gli altri, per essere un po’ come gli altri.

   Ora ci sei tu.

   Non ti temo. Non ho paura di te, Coronavirus. So che potrai prendermi alla sprovvista quando vuoi, ma non mi posso permettere di avere paura.

   Sono uscito stanotte. Era l’una. Una breve passeggiata con il cane. Una cosa da incoscienti. Vero. Ma avevo bisogno di respirare. Non seguite il mio esempio. Mi faccio giusto il giro di un grande isolato. Il mio cane deve fare la pipì. Una breve passeggiata di quindici minuti. Quindici soli minuti per… Non lo so. Io sono uno che adora la notte. Sono stato un uomo di notte per tanto tempo, perché in essa il mio cuore trovava rifugio.

   Non tutti possono capire. Mi definisco una scheggia anomala.

   In meno di una settimana, la vita di tutti è cambiata.

   Scosse di assestamento dentro di me per evitare di cedere ai nervi.

   Conosco la mia fragilità. Ci vengo a patti ogni giorno.

   La verità è che la passeggiata notturna di quindici minuti circa è un’abitudine dura a morire. La faccio dopo l’ultima puntura, perché quella camminata aiuta in qualche modo l’insulina notturna a fare il suo dovere. Se sto fermo, mi alzo con una glicemia non accettabile.

   Non ho più l’età della movida. Ho 41 anni suonati, e per molti giovanotti potrei essere classificato come un vecchietto ormai. Dovrei essere più responsabile. Ma quando vivi il male che io ho vissuto… No, non fraintendetemi. Non voglio fare la vittima. E nemmeno voglio apparire come un eroe.

   Sono solo un uomo che passeggia di notte con il suo cane. Una sola piccola passeggiata.

   E sapete perché?

   Perché un cane può fare pipì dentro l’appartamento. E la regola numero 6 ti impone di tenere pulita la casa dove dormi. Quindi sai che seccatura…

   Ecco, caro Coronavirus, tu sei una bella seccatura. Ma veramente una brutta seccatura, anche se sei pericoloso e contagioso. Fattelo dire.

   Il lungomare è deserto. Solo un breve passaggio. Da Piazzale Ultras a Piazza Gramsci. Al distributore di bibite al piazzale, quattro poliziotti cercano di prendere un caffè. Per loro il lavoro stanotte è duro e solitario. Non provano nemmeno a fermarmi. È vero però che sono distante.

   Sul lungomare, incrocio un uomo di colore. Non so dove sta andando, ma nessuno si accorge di lui.

   Il cane fa quello che deve fare diligentemente. C’è umidità e fa freddo. Il mare. Ascolto il mare notturno. Un canto calmo, calmissimo, rincuorante.

   Poi una pattuglia dei carabinieri.

   Mi ferma.

   Mi chiede che ci faccio fuori.

   Gli dico semplicemente la verità al carabiniere, che però non è nemmeno sicuro di che cosa accusarmi. In fondo non posso evadere dalla zona rossa nemmeno se lo volessi, non vado a nessuna festa, non vado a trovare nessuno, sono ben coperto. Il carabiniere è un po’ imbarazzato. Mi dice che rischio la denuncia e che dovrei pagarmi un avvocato. Non mi chiede nemmeno i documenti. Perché la situazione è paradossale alla fine dei conti. Ci lasciamo cortesemente, e con un po’ di comprensione reciproca. L’atmosfera è surreale per entrambi. In fondo, un carabiniere non può permettersi di arrestare un uomo con il suo cane solo per 15 minuti di onesta passeggiata, soprattutto quando l’uomo che cammina a piedi è ben coperto e desideroso di rispettare le regole. La giornata è stata pesante per entrambi.

   Ho sbagliato io a scegliere quel percorso. Lo so.

   Potevo scegliere altro. Oppure potevo starmene a casa. E in questo momento sono a casa che scrivo. Si sono fatte le 2.31, e ancora il sonno non mi è venuto. Dubito che verrà presto.

   Non ho paura, Coronavirus.

   In realtà non ho il tempo di avere paura di te.

   Mi spaventa di più il signor Diabete. Lui sì che sa essere tremendo. Il signor Diabete ti mangia lentamente negli anni. Devi sempre stare a controllarti la glicemia e a rispettare i tempi delle iniezioni. Mi buco quattro volte nell’arco delle 24 ore. Nell’arco di un anno sono 1460 buchi al corpo se ti va bene. Mi buco quattro volte al giorno da 23 anni ormai. E ho fatto le mie cazzate anche.

   Il signor Diabete un giorno mi mangerà, ma non lo farà oggi. Perché mi controllo spesso, e cerco di mantenere la media accettabile per vivere una vita quasi normale.

   Sono abituato a convivere con il signor Diabete da tanti anni ormai.

   C’è gente che sta peggio di me. Lo so.

   Perciò non ho paura, e non posso permettermi di avere paura.

   Coronavirus, ormai sei un’opportunità per me.

   Racconto la tua storia. La sto scrivendo. Tu fai paura alle persone che io voglio bene. Permettimi di essere il tuo compagno di sventura in questo tuo caos nella mia amata e odiata Crotone.

   Sono le 2.40.

   Sono stanco. Ho finito di scrivere.

   Coronavirus, ci vediamo domani.

   Buonanotte.

Aurélien Facente, 11 marzo 2020

PS: Non fate come me se avete letto questa storia. Restate a casa e seguite le regole.

Cultura da Virus: Resident Evil di Paul W. Anderson

Resident Evil è prima di tutto una serie di videogiochi prodotti dalla Capcom. Un successo commerciale per un videogame che ti dava la possibilità di vivere un’avventura quasi in prima persona in una città infestata da zombie infettati con un virus letale. Il successo fu tale verso la fine dei 90’, che si cominciò a pensare di farne un film.

   Nel 2002 uscì il primo film di Resident Evil, diretto da Paul W. Anderson, che tra l’altro aveva già diretto un altro film tratto dai videogiochi, quel Mortal Kombat mezzo riuscito nel 1995 che aveva già un ritmo indiavolato.

   Resident Evil è un film veloce. Appena meno di cento minuti. I primi dieci minuti sono un capolavoro. Descrivono l’incidente dentro il palazzo/laboratorio con tanto di fuoriuscita del virus. Una scena che farebbe felici i complottisti del coronavirus che sostengono l’esistenza di un virus militare realizzato in Cina, proprio a Wuhan. Magari il laboratorio è anche uguale. Ma torniamo al film.

   La telecamera del regista si sposta su Alice, interpretata da una efficace Milla Jovovich, di cui non sappiamo niente che si sveglia in una villa stupenda, ed è senza memoria. Dentro la villa appare un personaggio maschile, e subito dopo entra la squadra di mercenari mandata dall’Umbrella Corporation, e si scopre che la villa è l’ingresso di un super laboratorio sotterraneo dove vengono compiuti esperimenti genetici e si realizzano virus super distruttivi, ma talmente intelligenti da uccidere le persone e renderle zombie. Come la squadra oltrepassa la porta d’ingresso, inutile dire che ha inizio l’incubo.

   La sceneggiatura non offre spunti geniali, ma il film è uno spettacolo di tensione. Offre anche i suoi buoni colpi di scena. I personaggi sono abbozzati il giusto. Forse solo la donna mercenaria interpretata da Michelle Rodriguez è antipatica, sgradevole, rude e cazzuta. Il contrario di Milla Jovovich, che è una bella donna, ma saprà essere cazzuta il giusto. Un ruolo che ricorda molto quello di Sigourney Weaver in Alien e Aliens – Scontro finale, ovvero quello di una donna apparentemente fragile.

   Poi il film alza il ritmo, e non mancherà di mostrare i suoi effettacci speciali.

   Il particolare originale è la visione scientifica dello zombie, qui trattato come vero e proprio virus da abbattere e da evitare.

   Pur essendo l’adattamento infedele di un videogioco, Resident Evil entra di diritto nei film di fantascienza, del genere “virus”. In particolare proprio questo film, che purtroppo non regge il peso del tempo dal punto di vista degli effetti speciali, che ha un’atmosfera che non si ripeterà nei suoi cinque seguiti (che saranno ben più d’azione, alzando il tasso di spettacolarizzazione).

   Una menzione, però, la meriterebbe il diretto seguito, “Resident Evil: Apocalypse”, di qualche anno successivo per un motivo che si lega all’attualità dei giorni nostri.

   La scena della quarantena imposta alle porte della città immaginaria di Racoon City, che sarà isolata dal resto degli Stati Uniti.

   Una scena molto ben diretta.

   Okay, ci sono gli zombie. È horror puro. Fatto per divertire soprattutto. Dopotutto è un videogame adattato a film. Solo che, a rivedere oggi il primo film della saga, sembra che forse i media italiani ci stanno danneggiando il nostro senso di realtà proprio con una sceneggiatura presa da Resident Evil.

Aurélien Facente, marzo 2020

Qui il video degli Slipknot, la cui canzone funge da colonna sonora al primo film della saga di Resident Evil

Cultura da Virus: Doomsday di Neil Marshall

Mentre impazza in Italia ormai la fobia del coronavirus, vi consiglio di recuperare il film Doomsday di Neil Marshall, uscito nel 2008. Lo troverete in dvd, e forse su qualche emittente Mediaset (visto che fu Medusa a distribuirlo in Italia), ma guardatelo solo se avete lo stomaco forte. Il film è violento, tamarro, esagerato. Ma dannatamente fatto bene.

   La trama? Scozia, 2008. Un virus mortale impazza in una Scozia contemporanea, e la madre Inghilterra costruisce un enorme muro per imporre una quarantena con la forza. Si scatena la guerriglia. Una bimba riesce a fuggire, non senza difficoltà e perdendo anche un occhio. Ma la Scozia resta condannata a se stessa, e l’Inghilterra, in questa storia, costruisce la sua pagina più sanguinosa pur di contenere il virus.

   Passano gli anni. La bimba diventa adulta, e scopriamo che è una specie di super agente segreto, interpretata da una brava Rhona Mitra, al servizio del governo inglese. Adottata e cresciuta da un super commissario, interpretato ottimamente da Bob Hoskins, le sarà affidata la missione di andare in Scozia, perché un focolaio del virus mortale si è sviluppato a Londra, e pare che oltre il muro ci siano dei sopravvissuti, il che li rende ideali per sviluppare un vaccino.

   La super agente quindi ha l’occasione di tornare nella sua terra natia, dove scoprirà che dopo tanta morte si è eretta una società anarchica e violenta, molto medioevale nella crudeltà, e il viaggio la porterà ad incontrarne addirittura il re, interpretato da un ottimo Malcolm McDowell in uno dei suoi ruoli più nichilisti.

   E nel frattempo a Londra la pandemia scoppia.

   Vi ho raccontato il film, ma la fine no.

   Non serve. Tanto è prevedibile.

   Il film di Neil Marshall è un multigenere. Inizia come un film apocalittico, prosegue come una sorta di “Fuga da New York”, diventa un film horror barbarico per poi addirittura inglobare una corsa automobilistica da rivaleggiare benissimo con l’ultimo Mad Max (che uscirà anni dopo).

   Un mix che potrebbe risultare indigesto, anche perché il ritmo è indiavolato, il che è un pregio per un qualcosa che ha dei déjà-vu. Ma al di là di ciò, il film è importante riscoprirlo per due motivi principali.

   C’è un discorso fantapolitico, ma molto politico. Dinanzi a un’emergenza, i politici non temono di sporcarsi le mani. Anzi, usano la storia del virus e del probabile vaccino per rilanciare la propria campagna elettorale, a discapito della verità. Il che fa sembrare Doomsday, visto oggi in pieno periodo coronavirus, come un qualcosa di terribilmente profetico. Sì, perché poi c’è l’excursus sociale. La quarantena imposta, la zona chiusa, le regole ferree della cosiddetta zona rossa, ovviamente in un contesto più violento e più esagerato.

   Basta solo questo elemento per rendere appetibile il film, che però ha il difetto di essere estremamente violento, perciò pubblico avvertito: il film non è per bambini.

   Neil Marshall si era fatto conoscere per un horror spaventosissimo e notevole come “The Descent”, e in questo film mostra di saper usare bene la telecamera, soprattutto nelle numerose scene violente.

   Poi c’è il ritratto di una società disgregata, con i sopravvissuti lasciati nel più completo abbandono dalla madre Inghilterra, ma anche dal resto del mondo.

   In effetti, se uno ci riflette bene, l’indifferenza può essere un focolaio di un virus chiamato violenza.

   E poi c’è lei, l’eroina senza macchia interpretata da un’affascinante Rhona Mitra, che qualche anno più tardi interpreterà una serie tv che ha a che fare con un virus distruttivo, ovvero “The Last Ship”, ma qui ci si ferma.

   Doomsday è un film disturbante. Ecco, questo sì. Ma molto probabilmente è il solo che riesce a farci vedere l’estremismo di determinate scelte.

   E oggi, in periodo coronavirus, sembra proprio di vivere qualcosa di simile a Doomsday, solo che in questo film chiamato realtà non abbiamo ancora trovato l’eroe che possa farci dormire sonni tranquilli.

Aurélien Facente, marzo 2020

Cultura da Virus: 28 giorni dopo, di Danny Boyle

Un film che non passa in televisione da qualche anno è “28 giorni dopo”, il film che ha ridato freschezza e regia al versatile Danny Boyle, che mette in immagine una sceneggiatura di Alex Garland.

   Siamo a Londra. Un’epidemia devasta la Grande Inghilterra. Un virus sconosciuto partito da un animale. Un uomo che si risveglia dal coma, e rimettendosi insieme gira per le strade abbandonate di una spettrale e illuminata Londra di primo mattino. Ma la verità là fuori non è così illuminante.

   I contagiati sono in agguato pronti ad aggredire il prossimo, e così il protagonista, interpretato da un efficace Cillian Murphy, si trova all’interno di un incubo che ha distrutto e spopolato l’Inghilterra.

   La prima parte del film è dedicata all’esplorazione della Londra spettrale. Il protagonista incontrerà altri sopravvissuti. Si confronterà con realtà violente. Cercherà di capire dov’è finita la vera umanità.

   Poi inizia la seconda parte. Quella che ci rivelerà che forse c’è qualcosa di peggio dei contagiati del virus sconosciuto.

   Quella che riguarda la reale essenza dell’umanità, forse l’orrore più violento del virus stesso. E Jim, alias Cillian Murphy, affronterà deciso il tutto, tra militari impazziti e infetti simil zombie.

   Altri interpreti sono Naomie Harris, Brendan Gleeson, Christopher Eccleston. Un cast sconosciuto all’epoca del film (che uscì nel 2002).

   Non parliamo di incassi, ma parliamo del film in sé.

   Coraggioso e creativo. Parte come un film horror apocalittico, ma poi prende una direzione totalmente diversa.

   È un film, che nonostante la mole di scene violente (tutte logiche), non rinuncia mai a trovare speranza nella vita.

   Jim, il protagonista interpretato da Cillian Murphy, è forse uno dei più originali in un film del genere.

   Ci sono varie scene nel film che mettono a dura prova la psiche di Jim, già provata dal fatto di essere stato per giorni in coma. Eppure, nei suoi silenzi e nella sua consapevolezza, riesce a restare lucido e amante della vita in un mondo apparentemente finito, o quasi, come lui stesso scoprirà.

   Danny Boyle è un regista coraggioso. Sa essere delicato come pochi, ma sa anche essere crudele quando serve. Qui è accompagnato da una sceneggiatura di Alex Garland, autore alquanto geniale, cinematograficamente parlando.

   “28 giorni dopo” è film che vale la pena vederlo, anche se bisogna avere uno stomaco duro. Non tanto per le scene di violenza, ma per il fatto che ad un certo punto cambia registro. Diventa un film di odio, quell’odio umano che rende irrazionale una persona, soprattutto quando è mangiata dalla paura e dalla psicosi di dover sopravvivere.

   Film quindi estremo sotto tanti aspetti, ma il ritorno all’umanità, al voler tornare a vivere una vita è ciò che rende la storia unica.

   Perché il vero male, come scopriremo attraverso il viaggio di Jim, non sta nella natura ribelle di un virus, ma si annida nel cuore di un essere umano. E sta proprio a noi fare la differenza per ritornare ad un concetto di umanità vera.

   “28 giorni dopo” è presente nel mercato del dvd.

Aurélien Facente, 28 febbraio 2020

Cultura da Virus: Contagion di Steven Soderbergh

Steven Soderbergh non è un regista qualunque. È un autore raffinato e sperimentale. O lo ami o lo odi. Non ci sono vie di mezzo. Ogni suo film ha un suo perché, ma soprattutto ha un suo stile personale.

   Steven Soderbergh sa lavorare con i cast, sa scegliersi gli attori, sa usare la telecamera come farebbe un fotografo, sa lavorare con le immagini. Le sceneggiature dei suoi film lasciano dei perché alle volte. Non è un regista per tutti, ma quando esce un suo film, anche il più insensato in realtà ha un senso. Soderbergh ha un pregio. È un regista che sa lavorare su più generi.

   Quando Contagion uscì nel 2011, mi ritrovai sorpreso di questa scelta. Di raccontare attraverso varie persone il cammino di un virus che infetta il mondo. Dal trailer sembrava un film di genere, dai facili effetti, dal plot più sensazionalistico che di solito queste produzioni riservano.

   In effetti, non fu molto capito.

   Perché Contagion non è un film su un virus affrontato dagli uomini.

   È il viaggio di un virus attraverso le vite di tanti esseri umani.

   Nel film, i protagonisti sono vari. Hai lo scienziato, hai il dottore, hai il marito che perde la moglie e il figlio, hai la figlia impaurita, hai la dottoressa che agisce nelle zone di quarantena, ma soprattutto riesci a vedere il viaggio del virus, che diventa la scusa anche per raccontare quello che forse è il maggior male, ovvero la paura delle persone che si manifesta in ipocrisia e altro ancora.

   Non è un film buonista. Racconta i diversi modi d’interpretare la paura in un fenomeno complesso come la natura di un virus.

  Il cast fa il suo onesto lavoro. Matt Damon è un attore che sa dire la sua, così come Laurence Fishburne. C’è una bella Gwyneth Paltrow che è l’inizio del film, e anche se appare in poche scene sarà proprio il suo personaggio la chiave di tutta la lettura.

   La struttura del film è complessa, ma curata nei dettagli. Infatti, soprattutto dal punto di vista scientifico tutta la storia è attendibile. Anzi, sta già succedendo.

   Steven Soderbergh riesce in meno di due ore di descrivere l’effettivo impatto sociale (anche se il film una narrazione fantapolitica, che oggi è reale però), e non credo nemmeno che all’epoca gli autore avessero pensato a quello che sta avvenendo oggi con il coronavirus.

   Bene, Contagion è il perfetto film che racconta qualcosa di simile come il coronavirus. Il personaggio interpretato da Jude Law rappresenta proprio quel modo di fare notizia che non tranquillizza per niente, e perciò non aiuta. Ma è proprio attraverso gli occhi di questo personaggio che intravediamo anche il comportamento dei media, che ovviamente offrono il loro pasto quotidiano di notizie gonfiate di sana paura.

   In questi giorni, Contagion è un film da procurarsi.

   Se non altro, perché oggi, rivedendolo con più attenzione, risulta essere un film verità.

   In dvd lo trovate tranquillamente.

   In tv, in questi giorni, guarda caso non lo mandano in onda.

Aurélien Facente, 25 febbraio 2020

Cultura da Virus: The Contaminated Man (L’Esecutore) di Anthony Hickox

Se siete presi dalla paranoia del coronavirus, allora questo è lo spazio per voi. Uno spazio culturale (cinema e letteratura, ma anche altro) che vi farà capire quanto l’argomento epidemia è stato trattato in precedenza, e quante volte la finzione sia in verità molto connessa dalla realtà, perché gli autori hanno pur sempre bisogno della realtà per raccontare una storia.

   Primo film in rassegna è “The Contaminated Man” diretto da Anthony Hickox, uscito esattamente vent’anni fa nel 2000. Lo interpreta un bizzarro William Hurt accompagnato da un sempre bravo Peter Weller.

   La sinossi è abbastanza semplice: narra della fuga di un uomo contaminato da un virus letale, e della caccia dietro di lui.

   Il film, tecnicamente, è molto televisivo. Ma si lascia seguire bene. Il personaggio di William Hurt è abbastanza atipico e bizzarro. Interpreta uno scienziato che va a caccia di virus fuoriusciti da laboratori sconosciuti, ed è seguito da una squadra efficiente.

   In questo film s’imbatterà in un “paziente zero” in fuga, pericolosissimo per via del fatto che è un portatore, e… Il paziente zero è interpretato da un bravo Peter Weller, che ci offre forse la migliore interpretazione del caso, ovvero quella di un semplice uomo normale che non voleva fare del male.

   Nel film c’è anche la storia d’amore e la classica storia dei servizi segreti legati alla creazione del virus, ma è il personaggio di Peter Weller che risulta essere la carta vincente del film. Un personaggio normale combattuto e ferito che ha la consapevolezza di aver combinato qualcosa di brutto, ma che ha perso il controllo della situazione perché spinto dall’amore per un figlio lontano. Una persona che potrebbe essere il vostro vicino di casa, e che meriterebbe più comprensione piuttosto che odio.

   Il film è breve nella sua durata, e il plot è quanto di più semplice In fondo parliamo di un film di serie B che, però, merita la sua possibilità di poter essere nuovamente diffuso, perché al di là del complotto presente, il confronto tra William Hurt e Peter Weller presenta forse la migliore razionalità umana che si dovrebbe avere nella realtà, quando si incontra un paziente zero.

   Già, il paziente zero. Se ne parla tanto oggi a causa di tutto quello che si racconta del coronavirus. Il paziente zero è semplicemente una persona che forse non sa nemmeno di avere il virus, e che potrebbe essere appunto anche una persona alla quale volete tanto bene.

  Il dvd si dovrebbe trovare. In Italia “The Contaminated Man” è stato tradotto con il titolo di “L’esecutore”, non propriamente azzeccato perché l’esecutore lo troverete solo alla fine del film.

   Un piccolo film di fantascienza solo per farvi capire che non bisogna demonizzare, ma comprendere prima di tutto.

Aurélien Facente, febbraio 2020